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IFIGENIA IN AULIDE 83


Analizziamo a fondo la nostra impressione. È profondissima, quasi insostenibile. Eppure, non è propriamente umana. Quella fanciulla debole, e insieme tremendamente riluttante, e, infine, priva di favella, ha evocata nel nostro spirito — e il poeta stesso l’ha suggerita — l’immagine d’una povera agnella condotta al macello. Non la figlia del possente monarca, neppure la fanciulla achea, figlia d’intrepidi, e quasi neanche piú, direi, una figlia di uomini: bensí una povera creatura col solo attributo della vita, ridotta al semplice istinto: simbolo, quasi, della terribile invincibile ribellione d’ogni creatura vivente dinanzi al buio della morte. Nel piú profondo del nostro spirito, confusa e tanto piú perturbatrice, viene evocata la coscienza della fraternità dell’uomo con tutti gli esseri della creazione, vien fatto appello ad una solidarietà meno precisa, ma piú profonda e misteriosa, meno umana e piú universale. Siamo imbevuti dell’oscuro e amarissimo senso che dopo tanti secoli doveva esser definito doglia mondiale. È un di meno ed è anche un di piú. È la tragicità d’Eschilo. È la pura tragicità.

Ma di quali altri sviluppi, di che effetti patetici non è suscettibile la mutabilità sofoclea, portata da Euripide, massime in questa Ifigenia, alle ultime conseguenze! Ne è luculento esempio la figura di Ifigenia.

La giovinetta, quasi ancora bambina, uscita appena dal tepido sicuro asilo della casa patema, che batte ancora le alucce sotto l’ala materna, piena la mente solo d’immagini di amore, di tenerezza, d’infantilità, si trova sbalzata d’un tratto, dal destino tremendo, senza pietà e senza logica, a un disumano cimento di morte. La mano soave e possente del padre, nella quale credeva d’avere un sicurissimo baluardo contro tutto e contro tutti, eccola ad un tratto armata d’un pugnale, rivolta contro la sua gola. E la madre non può nulla; e tutto d’intorno suono d’armi e voci senza pietà. Il cuore le manca,