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ORESTE 133


Una musica cupa, altamente espressiva, che tutta la colora d’una sua tragica vaporazione.

Poi, in questa atmosfera tragica e magica, che permane sino alla fine, il dramma s’inoltra mutando tempra, divenendo mèro intreccio, e i personaggi fantocci.

E, profusi a piene mani, i soliti atteggiamenti tanto criticati dai nemici d’Euripide, e massime dai poeti comici. E qui è il caso di osservare che Euripide non dava il menomo ascolto a queste critiche. Appena tre anni prima, Aristofane, nelle Tesmoforiazuse, le aveva tutte riassunte, e specialmente aveva canzonata la mechané del Telefo, già parodiata nei giovanili Acarnesi. Ed ecco, il tragediografo la riprende, quasi a sfida, nell’Oreste; e la monodia del Frigio è come uno spicilegio delle sue piú criticate stranezze.

A giudicar dunque sui dati obiettivi, non si può negare che l’Oreste sia uno dei drammi d’Euripide meno fusi ed integri, piú disuguali, compositi, tormentati. Nessuna meraviglia se circa la sua valutazione il giudizio dei critici sia tutt’altro che concorde.

Gli antichi, pure riconoscendone i difetti, ne erano, in genere, entusiasti1 Fra i moderni, molti sono draconiani. Dice il Christ, che, per ragioni altra volta addotte, ha un po’ l’autorità d’un codice (VIa ediz., 371): «L’Oreste mostra la decadenza dell’arte d’Euripide. Dello spirito dell’antica saga non è rimasto nulla, della forma, poco. Tutte le persone vi sono abbassate al livello comune: Menelao è un egoista insensibile e vile, Elettra una femmina intrigante, Elena una civetta vanesia, Pilade rassomiglia all’accattabrighe e ladro Oreste furioso della commedia. Elettra, Oreste e Pilade sono un trio di banditi».

Sta bene. È, con un po’ d’agro, quello che su per giú

  1. Vedi Patin, opera citata, pag. 243, nota I.