Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) VI.djvu/9

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6 EURIPIDE


E nel complesso, Ermione è una figuretta da poco, senza nulla d’eroico, una borghesuccia, si direbbe oggi. Ma la precisione del disegno, la vivacità del colore, la rendono indimenticabile, mentre tante altre solenni eroine, appena spariscono dalla scena, spariscono anche dalla nostra memoria.

In Menelao, come s’è detto, Euripide ha voluto foggiare un prototipo d’odiosità. E i tratti con cui dipinge la sua malignità e la sua ribalderia sono d’indiscutibile efficacia. Ha attorte le mani d’Andromaca in maniera da torturarla. Peleo lo rampogna:

                              Cosí, tristo ribaldo,
hai le sue mani deturpate? Un bove,
forse, un leone trascinar pensavi?

Convince Andromaca ad allontanarsi dall’ara protettrice, promettendole di lasciar libero il figlio; ma dopo che la misera s’è lasciata convincere, non mantiene piú la promessa, e dichiara cinicamente di averla tratta in inganno.

E pari alla perfidia, la vigliaccheria. Basta che un vecchio, Peleo, lo affronti, perché egli lasci la sua preda. E, pur di svignarsela, lascia esposta la figliuola all’ira, certo inevitabile, di Neottolemo.

E la vigliaccheria si sposa ad una smargiasseria quasi pulcinellesca. Quando vede che Peleo non cede, si ritira lui, e del ritiro adduce tale pretesto:

Ora, perché tempo non ho d’avanzo,
torno alla patria mia. C’è presso a Sparta,
una città che innanzi amica m’era,
e adesso da nemica opera. Io stringerla
voglio d’assedio, e in mio potere averla.
E quando avrò secondo il mio volere
disposte ivi le cose, tornerò.