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DISCORSO SUL TESTO DEL POEMA DI DANTE.

— Si rassegnò egli airoscurità per fu^rgire il maggiore difetto di parlare troppo liberamente nella sua misera condizione? o all’ineleganza per fretta di riparare al disprezzo in che era ca- duta la « sua persona , il suo nome e ogni opera sua fatta e >; da farsi? ’» Questa interpretazione sarebbe risultata, cinque o sei pagine addietro , schietta e diritta da una sentenza an- teriore , ed è : — che se l’uomo dimora in parte dove stiasi « privato d’ogni studio e da gente studiosa lontano, » è cj- stretto a vivere scioperato: — ma è troppo distante, e si sta connessa immediatamente a quest’altra: — « che la cura fn- » migliare e civile, la quale convenevolmente a sé tiene degli » uomini il maggior numero, » non concede quiete a meditare ed a scrivere -. Or il Poeta, se la sua parte avesse predominato nella repubblica, sarebbe stato affaccendato quant’altri mai ne’ pensieri di città e di famiglia.

C. E nondimeno per quanto uno legga e rilegga e raffronti e argomenti , non trova altro , se non se forse : — che la ca- gione la quale l’indusse a parlare delle sue cose e di sé deri- vava dalla persecuzione de’ Fiorentini ; — che tutte le altre sue scuse venivano dalla stessa sorgente ; — e che il difetto della condizione di fuoruscito, povero e disprezzato, era il massimo al quale doveva riparare: e però poco prima aveva detto: — <L Al principale intendimento tornando, dico, com’è toccato di » sopra, per necessarie cagioni lo parlare di sé é conceduto. » E intra 1’ altre necessarie cagioni , due sono più manifeste : » la una è , quando senza ragionare di sé , grande infamia e » pericolo non si può cessare: e allora si concede; per la ra- « gione, che delli due sentieri prendere lo meno reo, è quasi » prendere un buono. E questa necessità mosse Boezio , di sé » medesimo parlare ; acciocché sotto pretesto di consolazione, » scusasse la perpetuale infamia del suo esilio, mostrando, » quello essere ingiusto, poiché altro scusatore non si levava ’. »

— Pur nel processo non fa parole più mai né d’esilio , nò di calunnie che lo infamarono, né de’ suoi concittadini, né delle loro iniquità, che nella sua patetica invocazione con indulgenza mansuetissima (or chi mai l’avrebbe aspettato ?) nomina « falli. » Tant’è; l’invocazione intarsiata a un’ora e staccata come si sta, si rimane fenomeno nuvoloso; e non può diradarsi che dall’at- tentissima osservazione del tempo, dell’ intenzione, e del tenore del libro. Tutto il Convito é dettato con filosofica dignità, con autorità magistrale, con signorile alterezza repressa, e con tem- po.ramenti diplomatici, ne’ quali credo che Dante non fosse no- vizzo; ma qui la coscienza dell’ innocenza e del merito gì’ im- pedivano di adoperarli con cfUcacia. Fa in parte come Boezio;


1 l>iio[?o citalo.

2 Convito, pag. 1, e nell’ed. Z:iUa, pag. 65.

3 Convito, pag. 6, allr. 70.


DISCORSO