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SUL TESTO DEL POEMA DI DANTE. 277

CXXV. Dante vide che le lingue fanno nazioni ; e che molte Provincie, ove non compongano una nazione, non possono ot- tenere mai lingua. Fors’ anch« presentiva chele animosità pro- vinciali cresciute sino dall’ età barbare, ed inferocite anche a’ suoi danni, avrebbero negato all’ Italia di possedere una lin- gua comune a tutte le sue città. Pur pareva nato ad illudersi su la prossimità di ogni evento eh’ ei desiderava come effi- cace a riordinare l’Impero. La lingua eh’ ei nomina cortigiana, e della quale si disputa tuttavia, la sua fantasia vedevala na- scere ed ampliarsi per la perpetua residenza de’ Cesari in Roma, e fra le repubbliche e le tirannidi , tutte confuse in un solo reame. Di questo ei ti pare certissimo, come di legge preordi- nata dalla Provvidenza e connessa al sistema dell’ Universo ’. E se fosse avvenuto, gì’ Italiani si sarebbero comunicati a vi- cenda le leggi, la storia patria, i pensieri e gli affetti con una lingua scritta insieme e parlata, più universale di qualunque dialetto popolare, e meno soggetta alle alterazioni che mutano quasi giornalmente i suoni e significati d’ogni dialetto. ìih senza la corte di Federigo II la loro lingua letteraria sareb- besi sviluppata si presto dalla latina. Dante osservando, « che » qualunque poesia fosse scritta in Italia, aveva nome di Si- » ciliana,’» soggiunge: — « Guardiamo dirittamente, e parrà » che la Sicilia si serba tuttavia questa fama ad obbrobrio » de’ signori Italiani eh’ oggi della loro superiorità fanno pompa » con usanze non d’eroi, ma di plebe. Federigo Cesare, e quel » bennato suo figlio Manfredi, illustri eroi, m^nif^-stando al- » tera e diritta la dignità del loro grado, finché la fortuna non » gli invidiava, seguivano umane cose e sdegnavano le be- » stiah. Indi tutti i generosi di cuore, e ornati di belle doti, » studiavansi di aderire alla maestà di si nobili principi; onde » alla loro corte apparivano primamente le poesie d’ogni egre- » gio fra gli Italiani. — Ma ora? e che udiam noi dalla tromba » di questo Federigo novello? e dal campanello del secondo » re Carlo? - e dai corno di Giovanni, e d’Azzo, marchesi po- » tenti? e dalle pive degrli altri signoreggianti ? Udiam que- » sto* — Venite, carnefici; venite, ladroni; venite, usurai. — » Parlo al vento; e mi giovi tornare al proposito *. »


1 Paradiso, XX VII; Convito, pagg. 199-203, — e sposso nel Tratlato De Mo- narchia; e (Iella Volgare ELoquena. lib. I, 18, pag. ’SI.

2 Quel cani[)anello del le Cario 11 farebbe prt-. -liniere che questa parie, non foss’aliro, del libro fosse scrjtla <\,i Dante iruiaiizi al regno di Roberto, che in* cominciò nel 1-09, o in quel tomo; e ciò pure s’avrebbe da credere del Con- vito, d.»ve nel passo citato poc’anzi, sez. CXU verso la line, nomina Carlo. Si fatti opinione contrasta pur nundim-no alle date espressamenie indicate dal- l’Autor.- (vedi sez. CV): onde crederei che alliidt^ndo ;. Carlo, come a nome reale di N «poli, intendi del campmeilo fratesco d Rolierlo, che altrove ei chiama re da sermone, e che qui e nel Concito scansi, eom’ei fa pur nel Poema, di nommarlo,flag. llaniiolo lultavia. Vedi addietro, sez. XXXI, segg.; e Paradiso, vili, 82. IX, 1-6: XI. 47.

3 Quicquid poetant’ur ItaU Sicilianum vocatur. — Sed haec fama Trinacriae


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