Pagina:Versi di Giuseppe Giusti.djvu/164

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140 la scritta.


Era quella fanciulla uno sgomento:
     Gobba, sbilenca, colle tempie vuote;
     Un muso tutto naso e tutto mento,
     Che litigava il giallo alle carote;
     Ma per vera bellezza un ottocento
     Di mila scudi avea tra censo e dote;
     Per questo agli occhi ancor d’un gentiluomo
     Parea leggiadra, e il babbo un galantuomo.

Non ebbe questi da durar fatica,
     Nè bisognò cercar colla lanterna
     Un genero, che in sè pari all’antica
     Boria covasse povertà moderna;
     Anzi gli si mostrò la sorte amica
     Tanto, che intorno a casa era un’eterna
     Folla d’illustri poveri di razza,
     Che incrociarsi volean colla ragazza.

Di venti che ne scrisse al taccuino
     A certi babbi-morti dirimpetto,
     Un ve ne fu prescelto dal destino
     A umilïare il titolo al sacchetto.
     L’albero lo dicea sangue latino
     Colato in lui sì limpido e sì pretto
     Che dalla cute trapelava, e vuolsi
     Che lo sentisse il medico da’ polsi.

La scritta si fissò lì sul tamburo:
     E il quattrinaio, a cui la cosa tocca,
     Dei parenti del genero futuro
     Tutta quanta invitò la filastrocca.
     Coi propri, o scelse, o stette a muso duro,
     O disse per la strada a mezza bocca:
     Se vi pare veniteci, ma poi
     Non vi costringo.... in somma fate voi.