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114 libro quarto - sezione decimaterza - capo terzo


ordine di essi senati regnanti. Gli re, nella ferocia de’ primi popoli e nella mala sicurtá delle regge, furono aristocratici, quali i due re spartani a vita in Isparta (repubblica, fuor di dubbio, aristocratica, come si è qui dimostrata), e poi furono i due consoli annali in Roma, che Cicerone chiama «reges annuos» nelle sue Leggi. Col qual ordinamento fatto da Giunio Bruto, apertamente Livio professa che ’l regno romano di nulla fu mutato d’intorno alla regal potestá; come l’abbiamo sopra osservato che da questi re annali, durante il loro regno, vi era l’appellagione al popolo, e, quello finito, dovevano render conto del regno da essi amministrato allo stesso popolo. E riflettemmo che, ne’ tempi eroici, gli re tutto giorno si cacciavano di sedia l’un l’altro, come ci disse Tucidide; co’ quali componemmo i tempi barbari ritornati, ne’ quali non si legge cosa piú incerta e varia che la fortuna de’ regni. Ponderammo Tacito (che nella propietá ed energia di esse voci spesso suol dare i suoi avvisi), che ’ncomincia gli Annali con questo motto: «Urbem Romani principio reges habuere», ch’è la piú debole spezie di possessione delle tre che ne fanno i giureconsulti, quando dicono «habere», «tenere», «possidere»; ed usò la voce «. urbem», che, propiamente, son gli edifici, per significare una possessione conservata col corpo: non disse «civitatem », ch’è ’l comune de’ cittadini, i quali tutti, o la maggior parte, con gli animi fanno la ragion pubblica.