Pagina:Zibaldone di pensieri VII.djvu/195

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190 pensieri (4250-4251)

appunto. La infermità, il timore, il patimento di qualunque sorta volgono l’amor del piacere nell’amor del non patire; o del fuggire il pericolo. L’animo in quello stato è meno esigente. Il non patire è piú possibile ad ottenersi che il godere. Però nell’inverno si sente meno la scontentezza del proprio essere, che nella buona stagione. Nella quale l’animo ripiglia la sua avidità del piacere; e, come è naturale, nol ritrova mai (Recanati, 2 marzo 1827, primo venerdí di marzo).


*    A voto per frustra. - εὶς κενòν. Vedi Casaubon., ad Athenae., l. XI, c. 6, sul mezzo.


*    Parrebbe che tutta quella infinita cura che pose Isocrate circa la collocazione delle parole e la struttura della dizione, non ad altro l’avesse egli posta,  (4251) fuorché a procurare la piú perfetta, la piú squisita, la maggior possibile, la piú singolare chiarezza. Questa dote non si osserva negli altri autori che l’hanno, se non in quanto nel leggerli non si patisce, vale a dir non si sentono impedimenti e difficoltà. In Isocrate ella si osserva, perché non solo non si patisce leggendolo, ma per essa si prova un certo piacere. Negli altri ella è qualità negativa, in questo è positiva; ha un certo senso, un sapore proprio. Quel piacere che dà in molti autori una temperata difficoltà che si prova leggendoli, e superando facilmente quella difficoltà ad ogni passo, quel medesimo dà nel leggere Isocrate la somma e straordinaria facilità. Par di sentirvi quel gusto che si prova quando in buona disposizione di corpo e volontà di far moto si cammina speditamente per una strada, non pur piana, ma lastricata. Io non credo che si trovi autor cosí chiaro e facile in alcuna altra lingua, come è Isocrate (e certo senza compagni) nella greca. Esso è facilissimo anche ai principianti in quella lingua, che è pur la piú difficile