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il paradiso delle signore

comprare dei canovacci: poi fece il giro, e si spinse fino alle lane, in fondo alle gallerie. era contenta della cuoca e le voleva regalare un vestito. La sezione delle lane riboccava di gente: tutte le borghesucce eran là a tastare le stoffe e sprofondarsi in calcoli muti, ed ella dové mettersi un po’ a sedere. Negli scaffali stavano in ordine le gravi pezze che gl’impiegati a una a una mettevan giù con un brusco sforzo di braccia. E cominciavano anche a non capirci piú nulla, tanto i banchi erano sovraccarichi di tessuti imbrogliati e di pezze disfatte. Pareva un mare tumultuoso di mezze tinte e tinte cupe, grigio ferro, grigi gialli, grigi azzurri, tra i quali splendeva qua e là il fondo rosso delle flanelle scozzesi. E i cartellini bianchi delle pezze parevano rari fiocchi di neve caduti sopra un suolo nero, in dicembre.

Dietro un monte di stoffe, il Liénard se la rideva con una ragazza alta, senza cappello, una operaia del quartiere mandata dalla padrona per cercar di accompagnare un certo mérinos. Quei giorni di gran vendita che spezzavano le braccia, lui non li poteva soffrire, e cercava di lavorare meno che potesse, mantenuto com’era largamente dal babbo, e infischiandosi di vendere. Faceva proprio quel tanto che bastasse a non esser messo fuori.

— Ma state dunque a sentire, signorina Fanny — diceva lui. — Avete sempre troppa furia... Quella vigogna a spina andò bene ieri l’altro? La gratificazione verrò a pigliarla io da voi.

Ma l’operaia scappò via ridendo; e il Liénard si trovò in faccia la Desforges, alla quale dové per forza domandare:


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