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zola

giavano soprattutto innanzi alla vetrina interna, messa in ordine dall’Hutin, e che il Mouret stesso aveva ritoccata da maestro. In fondo alla sala, intorno a una delle colonne di ferro fuso che sostenevano la vetriata, era come una cascata di stoffa scendente dall’alto e allargantesi fino in terra. Da prima rasi chiari e sete pallide, i rasi «alla regina», i rasi «rinascimento», dalle tinte madreperlacee d’acqua sorgiva, le sete leggiere con trasparenze di cristallo, verde Nilo, cielo indiano, rosa di maggio, azzurro Danubio. Poi venivano i tessuti piú fitti, i rasi meravigliosi, le sete duchessa, tinte calde, giú a ondate più forti. E in basso, come in una vasca, dormivano le stoffe gravi, i corpetti bell’e fatti, i damaschi, i broccati, le sete perlate e rigate, in mezzo a un letto profondo di velluti, tutti i velluti, neri, bianchi, di colore, a fondo di seta e di raso, che con le loro macchie variegate facevano un lago immobile, dove pareva danzassero riflessi di cielo e di paesaggio. Alcune donne, pallide di desiderio, si chinavano quasi per ispecchiarvisi. Tutte, dinanzi a quella cateratta erompente, restavano ammirate con la paura sorda d’esser prese nello straripamento di quel lusso, e con la voglia irresistibile di gettarvisi e perdervisi.

— Ah ci sei! — disse la Desforges trovando la Bourdelais davanti a un banco.

— To’! buon giorno! — rispose quella, stringendo la mano alle signore. — Sí, son qui per dar un’occhiata.

— Non è vero ch’è una cosa stupenda? C’è da sognarsela... E il salotto orientale, l’hai visto il salotto orientale?

— Eccome se l’ho visto! è meraviglioso!


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