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zola

vetture in mezzo alla voce di Parigi simile a quella d’un Orco ben pasciuto che russasse, digerendo tele e stoffe, sete e trine, di cui l’avevano inzeppato fin dalla mattina.

Dentro, sotto le fiammelle del gas, che avevano rischiarato nel crepuscolo le scosse supreme della vendita, era come un campo di battaglia, caldo ancora della strage dei tessuti. I venditori, sfiniti dalla fatica, stavano accampati tra gli scaffali sossopra e i banchi che sembravano devastati dalla bufera. Nelle gallerie del pianterreno, ingombrate da seggiole fuor di posto, si camminava a fatica; ai guanti bisognava traversare, alzando la gamba, un monte di scatole che il Mignot aveva lasciate andar giú; alle lane non ci si passava affatto: il Liénard sonnecchiava in mezzo a una distesa di stoffe su cui erano ancor ritte qua e là colonne di pezze che, distrutte per metà, parevano case che un fiume straripato avesse portate via; e, piú lontano, la biancheria era caduta come neve per terra: s’inciampava in mucchi di tovaglioli, si camminava su i fiocchi leggieri dei fazzoletti. E al primo piano, peggio che al mezzanino, uno scombussolamento: le pellicce stavano qua e là per terra, i vestiti bell’e fatti s’ammucchiavano come cappotti di soldati messi fuor di combattimento; le trine e la biancheria aperte, spiegazzate, buttate a caso, facevano pensare a un intero popolo di donne che si fossero spogliate là, nei disordinati impulsi d’un desiderio improvviso; e in fondo al magazzino l’ufficio di spedizione tutto affaccendato non faceva che mandar via gl’involti, dei quali era pieno zeppo, e che le vetture si portavano via, ultimo moto della macchina scaldata sino a scoppiare. Ma alle sete specialmente c’era stata


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