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il paradiso delle signore

salti dell’indole sua, troppo sensibile; le lacrime l’accecavano non appena aveva chiuso l’uscio della cameretta, e si vedeva già in mezzo alla strada, in rotta con lo zio, senza saper dove andare, senza un soldo da parte, e con i due ragazzi per giunta. Tornava alle sensazioni delle prime settimane; le sembrava d’essere un granello di miglio sotto una mola grande: e quel sentirsi cosí meschina in quella macchina che l’avrebbe schiacciata con la sua tranquilla indifferenza, la opprimeva di scoraggiamento. Non c’era da farsi illusioni: se mandavano via qualcuna delle «confezioni», sarebbe stata lei. Nella scampagnata a Rambouillet le ragazze dovevano aver certamente messa su la signora Aurelia contro di lei, perché da quel giorno la trattava con una severità dove entrava un po’ di rancore. E poi non le perdonavano la sua giterella a Joinville; ci vedevano una ribellione, quasi una sfida a tutta la sezione, in quell’essere andata con una della sezione nemica. Dionisia non aveva mai sofferto tanto come allora, e oramai disperava d’amicarsi le compagne.

— Lasciatele fare! — ripeteva Paolina. — Sono delle smorfiose... in fondo sono piú stupide di un’oca!

Ma erano appunto quelle maniere da signore che intimidivano la giovinetta. Quasi tutte le ragazze, per via del loro quotidiano strofinarsi con le clienti ricche, diventavano alla fine d’un ceto senza nome, indeterminato, tra l’operaio e il borghese; e sotto la loro arte di vestirsi, sotto i modi e le frasi prese a prestito, non c’era che un’istruzione falsa, la lettura dei giornalucci, qualche tirata di dramma, e tutte le sciocchezze che corrono sul lastrico di Parigi.


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