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il paradiso delle signore

parlare di Clara, questa, proprio in quel punto, attraversò la piazza; e Dionisia dové svignarsela, perché il giovine la scongiurava di domandare per lui alla sua antica compagna se l’avrebbe sposato. Ma che avevano dunque tutti? perché tormentarsi a quel modo? E lei si stimava felicissima di non voler bene a nessuno.

— Sapete che c’è di nuovo? — le disse l’ombrellaio mentr’ella rientrava in casa.

— No, signor Bourras.

— Ebbene! quei birbanti hanno comprato il palazzo Duvillard... M’hanno circondato!

Scoteva le lunghe braccia in un impeto di furore, che gli sollevava la bianca criniera.

— È un pasticcio dove non ci si capisce niente — seguitò a dire. — Pare che il palazzo fosse del Credito Fondiario, e che il presidente, il barone Hartmann, l’abbia ceduto al nostro famigerato Mouret... Ed ora mi stringono, da destra, da sinistra, da ogni parte, proprio come io stringo, guardate, questo pomo di mazza.

La cosa era vera: dovevano aver firmato il contratto il giorno innanzi. La casuccia del Bourras, stretta fra il Paradiso e il palazzo, conficcata lí come un nido di rondine, in cima a un muro, pareva dovesse essere schiacciata d’un colpo il giorno che il magazzino avrebbe invaso il palazzo; e quel giorno era venuto, il colosso girava intorno al debole ostacolo, lo cingeva colle riboccanti sue merci, minacciava d’inghiottirlo con la sola potenza della gigantesca respirazione. Il Bourras sentiva la stretta che gli faceva scricchiolare la bottega, credeva di vedersela rimpicciolire, temeva quasi di sentirsi ingoiare egli stesso con tutti i suoi ombrelli e mazze, tanto già rugghiava la terribile macchina.


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