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il paradiso delle signore

tendosi scivolare giú per le spalle il fresco che cadeva dai muri. Rivide la solita tavola tonda, le posate messe sull’incerato, la finestra che prendeva aria e luce dal fondo del pozzo fetido della corticella. E tutto le pareva, al pari della bottega, divenuto piú cupo, ogni cosa le sembrava che desse lacrime.

— Babbo, — disse Genoveffa — per riguardo a Dionisia, devo chiudere la finestra? C’è un certo odore...

Il Baudu non sentiva nulla, e si meravigliò.

— Chiudila se ti pare!... — rispose finalmente — ma si soffocherà tutti.

E veramente c’era da soffocare. Il pranzo era alla buona, semplicissimo. Dopo la minestra, lo zio, quando la serva ebbe portato il lesso, ricascò fatalmente nel discorso su quelli di faccia. Da principio si mostrava tollerantissimo e permetteva alla nipote di pensarla diversamente:

— Dio mio! padrona, padronissima, di sostenere quei grandi arsenali di magazzini... Ognuno ha le sue idee, ragazza mia: se non t’ha fatto arrabbiare nemmeno l’esser cacciata a quel modo fuor dalla porta, devi avere proprio delle ragioni forti. Per me, non me n’offenderei punto... Non è vero? qui nessuno se n’offenderebbe.

— Oh no! — mormorò la Baudu.

Dionisia disse pacatamente le sue ragioni, come usava dirle col Robineau: lo svolgimento logico del commercio, i bisogni dei tempi nuovi, la grandezza di tutto ciò che veniva su ora, finalmente il continuo migliorare delle condizioni pubbliche. Il Baudu, a occhi fissi e bocca socchiusa, l’ascoltava con una visibile tensione della sua intelligenza. Quando ebbe finito, scosse il capo.


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