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zola

umido delle spugnate che gli aveva date la donna.

— Vi sentite male, cugina mia? — le chiese.

La giovinetta non rispose, fissando ostinatamente uno strappo dell’incerato come se fosse interamente assorta nelle riflessioni che la dominavano. Poi alzò la testa con pena, e guardò il viso pieno di compassione che si chinava verso il suo. Erano dunque andati via gli altri? che faceva lí su quella seggiola? E a un tratto diede in uno scoppio di pianto e ricadde col capo sull’orlo della tavola. Piangeva e si bagnava la manica di lacrime.

— Dio mio! che avete? — esclamò Dionisia, tutta sossopra. — Volete che chiami qualcuno?

Genoveffa l’afferrò nervosamente per un braccio, e la trattenne, dicendole a parole rotte:

— No, no, state qui... Oh! la mamma non lo deve sapere!... Con voi è lo stesso: ma gli altri, gli altri, no... Non ho potuto fare a meno, ve lo giuro. È stato nel vedermi cosí sola sola... Aspettate, sto meglio, non piango piú.

E i singhiozzi la scotevano tutta; le gracili membra sussultavano convulsamente. Pareva che il monte dei capelli neri le schiacciasse il capo: e nel muoverlo sulle braccia, una forcina venne via, e i capelli le caddero sul collo ravvolgendola. Dionisia intanto piano piano, perché gli altri non sentissero, cercava di confortarla. Le sbottonò la veste, e le fece pena di vedere com’era magra! la povera Genoveffa aveva il petto vuoto come una bambina, anzi come una vergine consunta dall’anemia. A piena mano le prese i capelli, quegli splendidi capelli che parevan succhiarle tutta la vita; poi li annodò forte-


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