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colloquio, aspettava con un viso che non voleva dir nulla. I suoi occhietti si aprivano e chiudevano in quel suo faccione, che restava a bocca aperta; ciò che in lui era segno di profonda perturbazione.
— Sta’ bene a sentire. Quando il babbo Hauchecorne mi cedé il Vecchio Elbeuf, il negozio andava a vele gonfie: anche lui l’aveva avuto ai suoi tempi dal vecchio Finet, in buono stato... Tu mi conosci; mi parrebbe di fare una frode se lasciassi ai miei figliuoli scemato questo deposito di famiglia; ed è per ciò che ho sempre rimandato d’anno in anno il tuo matrimonio con Genoveffa... Già, mi c’incaponivo; speravo di trovare la fortuna, e ti volevo mettere i libri sotto il naso dicendoti: «Ecco qui: quando entrai io nel negozio si vendé tanto: quest’anno in cui me ne vo, si è venduto per dieci o ventimila franchi di piú...». Insomma, tu capisci, è una specie di giuramento che mi son fatto, il desiderio naturale di provare a me stesso che il negozio con me non è andato male. Se no, mi parrebbe di rubare.
La commozione gli serrava la gola. Si soffiò il naso, e riprese:
— Non dici nulla?
Ma il Colomban non poteva dir nulla, scoteva il capo; aspettava, sempre piú turbato, credendo d’indovinare dove il padrone sarebbe andato a cascare: il matrimonio fra pochi giorni.
Come fare a dirgli di no? Non ne avrebbe mai avuto il coraggio. Bisognava rinunziare a quell’altra che egli si sognava tutte le notti con la carne ardente di tal fiamma, che, per non motirne, si gettava, nudo com’era, per terra.
— Ecco ora, — proseguí il Baudu — ecco
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