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il paradiso delle signore

dendo a un bisogno da malato, come se avesse voluto cullare e addormentare il proprio dolore.

— Vi sentite un po’ meglio, zio? — domandò Dionisia.

Non si fermò che un minuto secondo, per gettarle un’occhiata. Poi si rimise a camminare dalla cassa a un cantuccio.

— Sí, sí, sto benissimo... Grazie!

Lei cercava distrarlo con parole allegre, ma non ne trovava:

— Avete sentito che rumore? La casa è di già in rovina.

— To’! è vero! — mormorò lui meravigliato — doveva essere la casa... Ho sentito tremare tutto... Stamattina, vedendoli sul tetto, avevo chiuso l’uscio.

E fece un gesto, come per dire che quelle cose non gl’importavano piú. Tutte le volte che tornava davanti alla cassa, guardava il sedile vuoto, quel sedile di velluto, su cui erano cresciute sua moglie e poi la figliuola. Quando in quel suo moto perpetuo giungeva alla parete opposta, guardava gli scaffali nei quali finivano d’ammuffire le stoffe. Quanti egli amava se n’erano andati: il suo commercio finiva vergognosamente: lui solo restava col cuore morto e con l’orgoglio domato in mezzo a tante disgrazie. Alzava gli occhi verso il nero soffitto, ascoltava il silenzio sepolcrale fuor dalle tenebre del salottino da pranzo, quel cantuccio familiare di cui già gli piaceva perfino il puzzo di rinchiuso. Poi il suo passo regolare e pesante faceva risonare le antiche muraglie, come s’egli avesse camminato sulla tomba di quanto aveva amato.

Finalmente Dionisia disse perché era venuta:


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