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I corpi franchi

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Programma del nuovo «Diario del popolo» L'obolo per Venezia


L’Impero austriaco manda un rantolo che par quello della morte, la rivoluzione lo strozza sin nel suo letto regale, nella fedelissima Vienna, gli appunta il pugnale al core sino in mezzo alle sue guardie pretoriane, in mezzo all’armata di Radetzky; ma stolto il navigante che dorme perché il tempo è secondo; ch’egli rinforzi le vele e faccia suo prò del vento propizio.

Quando tutto pareva perduto – agli uomini che veggono poco – sarebbe stato vile per l’Italia il cedere alla sventura con una inerzia codarda; ora che la sorte, quasi, temesse fossero troppo forti pel nostro braccio, rompe ella stessa le nostre catene sarebbe stupidità il non levarsi ed agire.

Bisogna pensare seriamente alla guerra. L’Europa vide fuggire le nostre armate, vide la giovine bandiera dell’Italia lasciata cader nel fango dalle mani degli uomini che avean giurato morire prima di abbandonarla, e molti dissero: quegli oppressi non meritano la libertà perché sono vili; non insultate al valor dei traditi, li vedrete alla riscossa. Il giudicio pende ancora incerto; mostriamo per Dio che la seconda sentenza era la verità.

Noi abbiamo una provincia Italiana che possiede un’armata il cui valore fu sciupato, non spento negli ultimi fatti, e che sotto capi – non dirò eroi – ma solamente onesti può ancora riescire una delle migliori del mondo.

Ma una gran parte dell’Italia non ha armate regolari né queste possono improvvisarsi ad un tratto, e se anche ne avesse, le recenti sventure dovrebbero averci insegnato che una giornata può decidere d’un’armata, e le sorti di una nazione non possono giocarsi in un giorno, cosicché in ogni caso converrebbe pur pensare ad organizzare accanto alla guerra strategica un’altra guerra, la quale ne accelerasse il successo nel caso la prima riescisse felice, e nel caso mancasse, conservasse all’Italia un’àncora di salute. L’aver dimenticato questa primissima necessità fu ciò che spinse il governo di Milano nella mala via che lo ridusse a Torino. Perché egli visto in sulle prime che il nemico fuggiva si diede tranquillamente a cantar vittoria, senza prendersi altro pensiero; furono lasciati errare alla ventura senza denari, senza organizzazione, senza concerto i numerosi corpi franchi di cui brulicava il suolo Lombardo, cosicché invece d’ingrossarsi e di agire, isterilirono nella inerzia e a poco a poco quasi totalmente mancarono. Ma se era vinta la prima battaglia, restava a vincersi l’ultima, e il governo Lombardo, il governo dell’insurrezione non si era preparato a ciò; in tali circostanze egli non trovò niente di meglio che di gittarsi nelle braccia d’una dinastia la quale facesse la guerra per suo conto.

Allora ciò che restava dell’insurrezione fu totalmente spento perché in quell’elemento si supponeva nascondersi il principio popolare, all’Italia fu sostituita l’«Alta Italia», cioè al risorgimento d’una Nazione l’ingrandimento d’una monarchia, e invece di pensar a cacciar lo straniero oltre le Alpi, si pensò al modo in cui questo nuovo Stato avrebbe compromesso l’esistenza degli altri Stati; mentre poco prima si parlava di patria poco dopo si discuteva di capitale – e questo era logico – al «principio» si era sostituito l’interesse. L’utilità di tal metodo fu provata, e le cose andarono come andarono.

Molti pensano diversamente, ma in questo almeno tutti converranno, che sarebbe pur stato meglio che perduta l’armata tutto non fosse stato perduto e che se si fosse conservato un elemento il quale rispondesse all’eroe di Montevideo nell’estremo conato, si sarebbe almeno salvato il sacro fuoco dell’insurrezione, e l’onor nazionale. La guerra che sta per incominciare abbia principio sotto migliori auspici, e di ciò, quanto alla parte politica, ci dà molta speranza la migliore tendenza dell’opinione. Al principio della guerra il movimento era traviato dalla scuola di Vincenzo Gioberti e di Cesare Balbo, la parola Italia non si udiva mai profferita senza che fosse, direi cosí, coonestata, legalizzata con qualche evviva servile, perciò gli animi erano proclivi a confidar troppo nei principi, e fu facile offuscare l’idea nazionale che balenò un istante fra le barricate di Milano col rimbombo di certi nomi circondati da un’aureola fittizia. Ora l’esperienza ha rettificate le idee e alla parola «concessioni», successe negli evviva popolari l’altra «Assemblea Costituente Italiana», sublime applicazione del principio unitario che pochi mesi sono nell’«Italia del Popolo» eccitava lo scherno dei «pratici», e che ora perseguita le dilicate orecchie dei moderati, sin nel loro santuario federalista, ed è imposta al governo toscano, dalla voce dell’illustre Montanelli e dal volere del popolo, come speriamo che la forza dell’opinione la imporrà tosto agli altri governi della penisola.

Del miglior esito militare ci affida la presenza tra noi di un uomo caro all’Italia per averle in dolorosi tempi gittato dall’altra sponda dell’Oceano un fiore di gloria sulla fronte solcata dalla vergogna – Giuseppe Garibaldi. – La fiducia nei capi che è il piú in ogni maniera di guerra, è il tutto nei corpi franchi, elemento principale nella guerra d’insurrezione. Tali corpi generalmente terribili per funestare il nemico, tagliargli le comunicazioni, privarlo di vettovaglie, obbligarlo a muoversi in forti masse in ogni menoma circostanza o rimanersi chiuso nei propri accampamenti come in una piazza assediata, generalmente, convien pur confessarlo, per mancanza d’un’autorità capace di aumentarne le forze in azione armonica e concorde riescono per lo piú insufficienti ad ottenere risultati decisivi. Ma qual nome meglio di quello di Garibaldi, o si consideri sotto l’aspetto militare o sotto il politico, potrebbe aver influenza bastevole per ridurre in un tutto morale queste forze tendenti ad agire disgregate e scomposte? Egli ha sentita l’importanza della missione che gli è serbata nell’attuale movimento italiano, e appena giunto in Genova concepiva la grande idea di una vasta organizzazione di corpi franchi di cui fondava il primo nucleo fra noi. Molte centinaia di giovani i piú provati alla durezza della vita militare, e al fuoco, diedero già il loro nome alla nascente legione, noi speriamo che i giovani accorreranno nel dí della chiamata a stringersi sotto il vessillo della patria, che certo non può essere (affidato) a mani migliori che a quelle del Garibaldi, dalle altre provincie italiane, perché si combatte volentieri sotto capi che sanno e vogliono vincere – e non capitolano.

Sappiamo ch’egli confida nella nazione, e specialmente ne’ suoi concittadini perché lo aiutino nella santa impresa, e speriamo che la nazione e i suoi concittadini risponderanno all’invito del Garibaldi. È probabile che il denaro speso in tale uso sia meglio impiegato che non quello dell’imprestito forzato.


Note

  1. Il Diario del Popolo, 17 ottobre 1848.