Pensieri e discorsi/Il settimo giorno
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IL SETTIMO GIORNO
Ci sono due lugubri parole che infelice chi le sente oscillare sospese ai due moti d’un pendolo invisibile: Sempre... mai... Sempre... mai... Sempre... mai... Gli uomini condannano talora l’uomo a udire questi due tocchi che sembrano i palpiti dell’infinito e il ritmo dell’eternità. Nella cella solitaria echeggiano, prendendo via via l’anima del condannato e facendola oscillare con loro: Sempre... mai... Sempre... mai... Nessuno spasimo delle membra, nessuna angoscia del cuore pieno di lontani e perduti amori, e anche odii, nè la fame nè l’ignominia, sarebbero intollerabili, se non fosse quel perenne cader di stille dal silenzio universale! Il condannato mette alfine tra quei suoni e la sua anima una muraglia di oscurità: mette la morte: si rifugia di là del sensibile: si accovaccia dietro il gran termine.
Sì!? Di là, dicono, che, se mai altrove, suonano le lugubri parole! E anche di là, nessuna tortura, nessuna tenebra, nessun fuoco e gelo equivalgono a quei due suoni alterni ed eterni: Sempre... mai...! Eppur no: gli uomini, secondo alcuni santi padri e dottori, avrebbero inventato per conto loro un inferno peggiore dell’inferno vero. Dicono questi padri e dottori che nel giorno annuale della Risurrezione, i dannati dell’inferno vero hanno tregua: cessano le torture, la tenebra si dirada, il fuoco si spenge, il gelo si scioglie; e quell’oscillare, quel ripetìo, quel flusso e riflusso di mare di disperazione, non si ode più. Le campane che quassù avventano nell’azzurro di primavera inni di gloria, canti di gioia, rombe d’amore, confondono in sè e nascondono i due rintocchi delle profondità oltremondane; e l’inferno, cessando per un giorno di essere inferno, non è più inferno mai!
In questo mondo nel quale ora viviamo, affaticato e affannato, suoni il cantico della risurrezione! Si restituisca al lavoro ciò che lo distingue dalla pena; si renda al lavoratore ciò che lo distingue dal forzato e dal dannato; riabbia il popolo umano ciò che gli era già stato dato: la sua domenica! Senz’essa, non c’è settimana: la vita dell’uomo è una successione di giorni e notti, di giorni in cui il lavoro dispone il corpo al sonno della notte, di notti in cui il sonno dispone le membra al lavoro del giorno; e sempre così alternamente, eternamente, finchè giorno e notte si fondano in una sola oscurità e immobilità!
Un ergastolo, senz’essa, è questa società; un ergastolo in cui se non c’è la solitudine del silenzio, c’è però la solitudine del rumore: ogni uomo è segregato dall’altro dall’assordante fracasso dei magli e delle macchine. Un inferno, senz’essa, è questa umanità; un inferno pieno di vane implorazioni, di orrende bestemmie, di grida d’angoscia. Un ergastolo e un inferno, in cui l’anima degli uomini oscilla in delirio sospesa ai due moti convulsi: sempre... mai, sempre... mai. Ma no! Dice la fede: “Riposate l’un dì dei sette, o uomini, le cui membra sono gravi e frali: anche Dio riposò nel settimo giorno, egli che crea con un fiat„. Dice la scienza: “Abbiate, ogni tanto, magari più spesso che ogni sette giorni, un giorno di requie perfetta, se volete che le forze vi bastino„. Dice la giustizia: “Uomini, non fate degli uomini peggio che non facciate dei giumenti, i quali non attaccate tutti i giorni dell’anno, se non volete renderli, in un mese, rozze spedate e spellate!„. Dice l’umanità: “Se gli uomini hanno il diritto di generare, abbiano ancora il modo, almeno un giorno della settimana, di trattenersi coi loro piccini, e di farsi conoscere e di conoscerli„.
Dove più ferve l’opera enorme degli uomini, dove è più assordante il fracasso delle macchine, più il genere umano sembra diventare una turba regolata di schiavi e una mandra ammaestrata di bruti, là il culto della domenica, religiosamente inviolabilmente osservata, fa di quella schiavitù e di quella brutalità ciò che noi diciamo civiltà. E voi, cari cittadini di una delle più grandi città d’Italia, d’una città che ha tradizioni, e perciò speranze, d’un commercio molto prospero e utile, voi siete qui convenuti per non esser da meno delle altre grandi città d’Italia e degli altri popoli civili del mondo; ed essere civili anche voi.
Non avete che ad intendervi fra voi. E facilmente v’intenderete. Quando sorga qualche obbiezione, voi penserete subito che certamerte anche nelle altre città d’Italia quell’obbiezione è sorta, ed è stata risolta. Per esempio, può essere tra voi alcuno il cui commercio essendo più specialmente domenicale, essendo cioè esercitato più specialmente con quelli che vengono dalle campagne a far le loro provviste di domenica; si senta più particolarmente danneggiato dalla restituzione di questo legittimo riposo. Io non ho competenza per risolvere questo dubbio che può esserci; ma ricordo che nelle altre città i campagnoli hanno per loro un giorno di mercato, in cui affluiscono nella loro città madre, portando, oltre che i loro prodotti in piazza, anche lavoro ai cittadini, più esperti di quelli de’ loro villaggi, oltre che guadagno ai commercianti. Questo giorno di mercato si formerà da sè, per necessità delle cose, senza che sia deliberatamente istituito. E a ogni modo, il commercio via via bisogna che si muova, si agiti, si vivifichi; vada esso a cercare gli avventori, sempre vigile e agile; non stia olimpicamente seduto ad aspettare chi venga ad offrirgli il suo danaro.
Voi v’intenderete. Il fatto stesso d’esser voi qui, è così bello! rallegra tanto il cuore! Vedete. Io che di certi onori non so che farmene, io che non conosco altra gioia al mondo, che quella di godermi il mio libero pensiero nel mio cantuccio d’ombra, è la prima volta, credo, in vita mia che mi sono esaltato in me stesso! Io ringrazio l’onorevole Noè, l’uomo così semplice e forte, che tra la sua barba folta nasconde un così ingenuo sorriso, che ha, coperto in cotal modo dalla sua riputazione di rivoluzionario, un cuore così mite e puro; e, con lui, ringrazio i gentili cittadini La Torre, Coglitore, Mazzullo, Pugliesi e quanti altri mi invitarono a venir qui; e se devo l’invito alla mia professione d’aver idee piuttosto che partito, sia ringraziata anche quella professione: la quale (perdonate la piccola parentesi) non è mica fatta per procurarmi applausi e lode ed entusiasmo e séguito e onori: io so come tutto questo potrebbe venire, e abbondevolmente e ciecamente: basterebbe che pencolassi da una parte piuttosto che da un’altra: ma io non voglio nulla, voglio esser io, cioè nulla, ma io. Ma intanto questa mia nullità mi ha procurata l’unica esaltazione della mia vita: quella di essere tra voi e con voi, a cooperare a una grande cosa e a vedere un grande spettacolo. Il grande spettacolo lo formate voi, commercianti cioè concorrenti cioè quasi nemici, che qui siete insieme e vi metterete d’accordo. E formerete, io spero, un organismo. Qualunque organismo è un composto di concorrenti, di avversari, di forze chimiche e meccaniche che tenderebbero ad elidersi o sopraffarsi; e nell’organismo cospirano tutte a un medesimo fine: la vita. E voi così formerete un organismo e avrete una bella e utile vita collettiva d’armonia e di pace. E la bella nostra città sarà letificata da questo agevole e concorde meccanismo dello scambio, che funzioni senza scosse, e che ogni settimana, nella dolce domenica, cessi dal suo rumoroso armeggìo, e si fermi.
Si ferma e tace. O santa domenica, o giorno di silenzio e di tenerezza e di raccoglimento! Chi, viaggiando, scende in quel giorno a una città che osservi il riposo settimanale, a una grande città solitamente piena di rumore e di moto, prova un sentimento di sorpresa. Le porte chiuse delle lunghe file di negozi, già splendenti di molti colori, e già animate d’un continuo entrare e uscire, danno un’idea di lutto. Si è tentati di dire col profeta: — Come è solitaria questa città! Ella è fatta vedova! Per qui è passata la morte! — E no: è passato l’amore; è passata la pietà; è passata la buona novella dell’umano avvenire; è passata la speranza e la promessa della concordia e della pace! Quelle porte chiuse vogliono dire famiglie, tutte intiere, raccolte insieme, senza fretta, senza quel rodìo per qualcuno, magari il più necessario, babbo o mamma, che manchi; famiglie raccolte, in quella loro bella compitezza di babbo, mamma e figliuoli, intorno a una bianca tovaglia: quel silenzio sottintende le liete grida dei giovani commessi che solcano le strade campestri con la loro bicicletta, o i minuti bisbigli all’orecchio, un po’ rosso, della loro (perchè no?) della loro amorosa: quella mancanza di vita significa presenza di vita, di vita vera, di vita umana, composta non di sola azione ma anche di pensiero, risultante sì dal lavoro, ma anche dal riposo, nudrita non di solo pane, ma anche d’amore e di gioia.
E se per voi, già avvezzi alle solite occupazioni che sono come il rumor delle carrozze per chi abita in vie molto battute, e si sveglia a un tratto, quando il rumore s’interrompe; tanto il suo sonno è assuefatto a quel tram tram che lo culla; se per voi, assuefatti al cotidiano lavorìo, sul principio quell’ozio tacito sarà quasi mesto e noioso; non dubitate, il sabato compenserà la domenica. Sarete proprio stanchi la domenica, per il gran da fare del sabato; e benedirete il riposo. E noi godremo ogni sabato quel via vai, quel brusìo scalpitìo e gridìo, che piace tanto nelle vigilie delle Pasque dell’anno. E a proposito del sabato: uno dei più grandi poeti del secolo scorso ha fatta la sua più bella poesia, sull’ora gioconda e soave che è nei villaggi la sera del sabato. Nei villaggi? Non anche nelle città? Nelle città, no, non ancora, non ancora in tutte, non ancora nella nostra! È un’ora soave proprio; ma io che m’attardo ad ascoltare le grida dei ragazzi, che quella sera sono più sonore del solito, e a vedere i loro giuochi, che sono più giulivi delle altre sere; io penso che è quasi una crudeltà inconsapevole la loro ingenua gioia. Non c’è domenica, o bambini delle scuole, per i bambini delle botteghe! Non c’è domenica, o bambini, per i vostri fratelli più grandi che giungono torvi a casa, perchè la vostra allegria loro ha ricordato che c’è la domenica ma non per tutti. Non c’è domenica, o bambini, per i vostri babbi, che vi guardano accigliati e vi mandano a fare i vostri troppo lunghi compiti, adirandosi forse nel loro cuore di non potere, o peggio, di non volere prendersi anch’essi quel riposo. Così necessario a voi, bambini; così necessario a voi, babbi; così necessario che ve lo prendiate tutti insieme, bambini e babbi, e vi godiate le uniche gioie che ha il mondo, quelle della famiglia, e diate e riceviate gli unici insegnamenti che nel mondo sono efficaci e duraturi, quelli paterni; e andiate un po’ a passeggio insieme, andiate insieme a trovare le famiglie amiche, andiate insieme a vedere la vostra bella campagna e il vostro bellissimo mare!
Già: il popolo di Messina è innamorato della campagna. Ho osservato che specialmente alle finestre dei mezzanini sono sempre fiori, e alle volte dei verzieri, a dirittura, di gerani-edere, di garofani, di piante rampicanti. E se si passa per la via con qualche fiore in mano, sempre qualche bambina vince la sua naturale ritrosia e timidità, e ci s’appressa e dice: Vossía mi dugna u sciuri. C è molto di buono, o messinesi, nella nostra cara Messina. Di rado o quasi mai s’appressa qualcuno a chiedere il soldo o senari: moltissime volte vi si chiede un fiore! Cavate la voglia di fiori ai vostri bambini, poichè tutto un fiore è la vostra campagna! Date loro dell’ossigeno! Fate loro vedere tante cose belle, poichè di cose belle hanno sete! Voi forse non fate tanta stima della poesia, che è un di più, una vanità sonora. E di quella che si fa accozzando frasi e rime, non dico, neanch’io ho tanta stima. Ma c’è un superfluo che nella vita è più necessario di ciò che è necessario: la poesia. Ve lo insegnano le bambine che domandano u sciuri e non domandano il pane. Date, restituite anzi, a’ vostri figlioletti e a voi, la loro poesia, la loro domenica, le passeggiate, le scampagnate. Mostrate loro, un giorno per settimana, il bel monte Peloro verde di limoni e glauco di fichidindia, la bella falce adunca che taglia nell’azzurro il più bel porto del mondo, l’Aspromonte che negli occasi, per il sole che cade razzando infuocato dietro Antennammare, si colora d’inesprimibili tinte, mentre il mare si riempie di rose colorite; mostrate loro un giorno della settimana il loro bel cielo sereno e la vostra fronte senza rughe!
Cittadini! mettetevi d’accordo. In nome di Messina, che in civiltà non deve cedere a nessun’altra città d’Italia, in nome di Messina, che da consuetudini che si introducano di diporti festivi, può ricavare motivo ad abbellire le sue spiagge uniche al mondo; e da ciò avere affluenza di forestieri e incremento di ricchezza; in nome del lavoro stesso, che meglio frutta quanto più volentieri e lietamente è eseguito; in nome della religione, per chi è credente e sa che violare il sabato tanto vale quanto non credere; in nome della giustizia, per tutti che devono sapere che non si può togliere a sè e altrui il diritto d’essere uomini, cioè creature che hanno un intelletto oltre che un paio di braccia; in nome della scienza, che proclama la necessità del riposo e del diporto e dell’ossigeno; in nome della famiglia, che chiede a voi un po’ di serenità e di educazione e di convenienza: deliberate di osservare il riposo domenicale.
L’accordo vostro, tra persone cioè che hanno sovente interessi discordi, sarà qui come è già in tutti i popoli e in tutte le città più civili, un grande presentimento, un grande augurio, una grande preparazione dell’accordo di tutti i cuori e di tutti i popoli.