Poemetti (Rapisardi)/L'avoltojo

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L'avoltojo

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Il sogno del gigante L'impenitente
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L’AVOLTOJO.


I.


     Che in altra età, sott’altro cielo io vissi,
Dubbio non è: dentro al mio cor di un’altra
Vita, vel giuro, i testimoni io reco.
Un cimitero solitario, ombrato
D’una selvetta armonfosa a’ vènti,
Fatta è l’anima mia sin da quel giorno
Che agli occhi miei rapidamente il sole
De la divina gioventù si spense.
Naviga su le fredde ombre la luna,
E profili a me noti e vaporose
Forme del suo placido lume imperla;
Flebile stuolo di notturni augelli,
Vegliano su le bianche urne i ricordi;
E ne’ visceri miei perpetuamente
Alato un mostro il rostro ingordo accarna.


II.


Tràtto non so da quali forze arcane
     A spíar de la Notte il seno orrendo,
     Solo, smarrito ne la selva immane,
     Su l’orlo de l’abisso io mi protendo.

Al fluttuare, al dileguar di strane
     Fantasime i miei sensi avido aprendo,
     Fragor d’opere e d’armi odo e tremendo
     Suon d’infinite sofferenze umane.

Quanto il supplizio durerà? Rimbomba
     Vano il mio grido, come in vacua tomba;
     Ghignan le Furie alla mia vita attorte:

Mentre con ritmo eternamente uguale,
     In volto di pietà, con immense ale,
     In fra la terra e il ciel passa la Morte.


III.


Tra ’l folgorío d’orgie fastose e il vampo
     Di memorie regali era cresciuta,
     Ma pura nel fumoso aer lucea
     L’anima sua come cristal di rocca;
     E ne la sua chiara beltà riflèsso
     Intravide il mio cor quanto possiede
     Di puro il cielo e di venusto il mondo.
     Nell’indagar l’indoli umane il senso
     Io non aveva, ond’ella era fornita:
     Uno spontaneo, acuto senso, un raggio
     Quasi, che penetrava i più convolti
     Labirinti dell’anime, ed un roseo
     Lume di tolleranza e di perdono
     Spargea clemente su gli umani errori.
     Di vivaci tentacoli guernita
     Era così l’anima sua, che al primo
     Tocco del mal si ritraea, non paga
     Tanto di sua virtù, quanto pensosa
     Degl’incauti che al male offríano il fianco.
     Gli occhi suoi piccioletti eran due neri
     Brillanti, che da un astro intimo accesi
     Decifrare sapeano a prima vista
     Le ornate sigle, i complicati nessi
     Del libro de la vita. Oh minfate
     Pagine che un bel di leggemmo insieme
     Anelando, esultando! Oh vaghi intrecci
     D’augelli e d’astri, d’angioli e di fiori;
     Dòmi di lapislazzuli, slanciati,
     Come l’anime nostre, in un ciel d’oro;
     Mistici segni, mistiche parole
     Rivelatrici dell’Enimma eterno,
     Fiaccole ne la notte! Una fiorita
     Tropicale di sogni, un gloríoso

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     Vol di speranze iridescenti al sole
     Prorompea dal cor nostro ad ogni riga....
     Perchè di pianto si velar d’un tratto
     I sognanti occhi nostri? Il libro santo
     Chi chiuse a un tratto? Ahimè, dunque per sempre
     Chiuso tu sei, splendido libro? Muto
     Per sempre, o libro incantator! Ma vivo,
     Come di sangue, è tra’ tuoi fogli un segno;
     Tra’ fogli tuoi, qual memorevol fiore
     Che dolcemente, ancor che morto, olezza,
     Il più bel sogno de’ nostri anni è chiuso!


IV.


Piedini scalzi, che malfermo il passo
     Movete al verno per le vie fangose;
     Tenere membra mal da’ cenci ascose,
     Cui tetto unico è il ciel, guanciale un sasso;

Maceri vecchi, che invan le callose
     Mani tendete al signor tronfio e crasso;
     Madri digiune, che in veglie affannose
     Porgete a’ bimbi il sen pallido e lasso:

Di voi, di voi, nell’aspra notte, il vento
     Parla, ond’io balzo. E mentre una sonora
     La contigua magione eco mi getta

Di folli danze, solitario, intènto
     L’animo mio veglia nell’ombra, e l’ora
     De la Giustizia spasimando aspetta.


V.


Che della vita e della morte a noi
     Sia cieco il fonte e la ragion preclusa,
     Ben io mel so; ma chi frenar può questa
     Irrequieta, insazíevol brama
     Di scovar le Cagioni ultime e i cupi
     Valli guadare in cui s’accampa il Vero?
     O pensiero dell’uom, dardo scoccato
     Nell’ombra! Sibilar t’ode un istante
     L’umano orgoglio, e della Notte immensa
     Ferir s’illude, alto bersaglio, il core.
     Ma silenzio ed oblío segue; e respinto
     Da un arcano potere, ecco, l’acume
     Del dardo audace al tuo cervel si appunta.
     Non però ti ritrai; fiero, protervo
     L’agon ritenti; armi novelle in vecchie
     Battaglie induci; con audacie nuove
     L’Enimma assalti; ed al moscon sei pari
     Che da chiusa finestra all’aer vivo,
     In tumulto ronzando, uscir presume:
     Facile irrompe a’ vetri opposti; il capo
     Batte ostinato; in tortuosi voli
     Contro a’ lucidi inciampi a cozzar torna,
     Finchè da le crescenti ombre sorpreso,
     Stordito e stracco il dì novello aspetta.


VI.


Come in un lago limpido e profondo
     Gli astri e le nubi dell’etereo giro,
     L’amor, l’ansia, il dolor del verecondo
     Animo tuo nelle tue luci io miro.

Muta agitarsi al cor mio triste in fondo
     Delle brame tu vedi il popol diro;
     Io, mentre saggio i sensi miei ti ascondo,
     Del tuo saggio tacer, folle, mi adiro.

Così frenando i desiderj audaci
     In un silenzio, in un supplizio alterno,
     Veleggiam sospirosi il mar de’ Sogni:


Se non che ad ora ad or, dal muto inferno,
     Verso il nido ch’io bramo e che tu agogni,
     Sciama ardente, irrompente un vol di baci..


VII.


O di fulminatrici armi palestra,
     Di romane virtù perpetua scuola,
     La patria mia, di civiltà maestra,
     Riconquista per te senno e parola;
     In te la gioventù forte si addestra
     Nell’urte pia che i popoli consola;
     In te l’itala prole, oh santa, oh cara,
     Rapine, incendj e fratricidj impara!


VIII.


Luccicavan conteste in foggia strana
     Sovra il petto di lei, come sul vostro,
     Cristalline cannucce e sfaccettate
     Margheritine di giavazzo. Muti
     Erano al gregge adorator quei vèzzi,
     Che variamente in nappe, in fiocchi, in fiori
     S’intesseano vibrando, e ad ogni moto
     Della persona irrequíeta, ad ogni
     Palpito di quel cor davan bagliori
     Vertiginosi a chi sedeale appresso.
     Vaghi emblemi sol io, simboli cari
     Intravidi in quei fulgidi grovigli;
     Indovinar sol io, folle, presunsi
     Di quei bizzarri ghirigori il senso:
     E speranze e promesse alte vi lessi
     Ch’eran nel mio, non nel suo core, incise.
     Ahi, la secreta, universal parola,
     Ch’era dell’amor suo l’unica chiave,
     La parola «oro» io non vi lessi pria
     Che tutta avesse il petto mio bevuta
     Dei baci suoi la velenosa ebbrezza!


IX.


Troppo con ciglio audace e core invitto,
     Di mia salute immemore, fisai
     L’anima de la Notte, ove «Giammai»
     In sanguinose, eterne cifre è scritto.

Dall’ombre attorto, in disugual conflitto,
     In questo inesorato antro piombai;
     E qui morrò da la viltà trafitto
     Di quanti un dì più caramente amai.

Strisciano intorno a me l’Ore maligne
     Torpide vigilando, e in flebil metro
     Susurrando al mio cor minacce orrende;

Nè tutte a penetrar l’ombre ferrigne
     Giovami l’amor tuo, ch’alto in me scende
     Come raggio di sole in carcer tetro.


X.


Non errava smarrito il mio pensiero
     Quando in silenzio, accanto a voi, nel vuoto
     Fiso lo sguardo, io v’ascoltava, e voi
     Bisbigliavate amabili parole
     Come anima che ad altra anima parli
     Da molto ciel, da molta età divisa.
     Il mio pensier, vecchio grifagno, avea
     La sua preda ghermita, una leggiadra
     Preda, a dir vero, e tal che da molti anni
     Non avea la fortuna a lui concessa.
     In un placido volo, all’Etna in cima,
     Sotto l’azzurro interminato, in faccia

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     Del croceo sole e del purpureo mare,
     Tràtta se l’era; con immoto ciglio
     Ne contemplava l’infantil sembiante,
     Gli adescanti occhi, i bruschi moti; e tutti
     Passando i veli, con intensa brama
     Indovinare, investigar godea
     Le picciolette membra palpitanti
     Fra ’l terrore e il piacer d’esser ghermite.
     Qual frotta oscura di sinistre arpie
     Turbò l’ora beata, e le soavi
     Mense bruttò che c’imbandía l’Amore?
     Si rovesciò dall’atre ali travolta
     L’ambrosia coppa, ove l’incanto avrei
     D’una seconda giovinezza attinto;
     Si offuscò l’aurea luce, e delle oscene
     Disturbatrici, ancor che lungi, io sento
     L’alito impuro e il crocidar maligno.


XI.


Su la negra foresta, in rosee cime,
     Ch’altri non mai d’alto vestigio impresse,
     Erto sopra sè stesso a vol sublime,
     Un magnifico tempio egli l’eresse.

Squallide da’ montani antri, dall’ime
     Valli corsero a lui l’anime oppresse;
     Ed egli audace, in fremebonde rime
     Dolori immani, ardue speranze espresse.

Ma quando assorto più ne la benigna
     Opera il redivivo animo ardea,
     Ella a’ casti delubri erasi tolta;

E nella sua fragilità maligna,
     Come un re nella sua porpora, avvolta,
     Divinamente perfida ridea.


XII.


Tendete, eroi de la viltà, le dotte
     Reti nel fango, ove sortiste il regno.
     Piagato e inerme i lacci infami io spezzo,
     E da voi scevro, in libertà sdegnosa,
     Puri serbar gli alti ideali ho fede.
     Tigre così, che nella schiena infissi
     Del cacciator porta gli strali, irrompe
     Immemore di sè verso il covile
     A campar dal nemico i figli suoi.


XIII.


Dunque non mai t’aggiungerò, divina
     Fuggitiva bellezza, onde tutt’ardo!
     Già l’arco de’ gagliardi anni declina,
     Stanco ansa il petto e si rabbuja il guardo;
     Pur, d’affanni sdegnoso e di ruina,
     D’erta in erta t’inseguo ancor che tardo;
     Ma quanto incedo più, quanto più sorgo.
     Più erte vie, ghiacci più aspri io scorgo.

Cadrò, nè guari: omai sul crin mi aleggia
     L’aura del fato. O fulva aerea belva,
     Cadrò, ma lungi a la beata greggia,
     Remoto agli antri ove il cinghial s’inselva:
     Sopra una rupe ch’alto al ciel torreggia,
     Inospite al pastor, nuda di selva,
     Presto mi troverai, solo, non vinto,
     Su’ passi miei, presso a’ tuoi nidi, estinto.


XIV.


Pende il ciel torpido, immoto
     Sul mar grigio dell’oblio;
     Navigando al polo ignoto
     Arde e sanguina il cor mio.


Per l’immenso, algido voto
     È uno spasimo d’addio....
     Al nessun, questo è il mio voto.
     Soffra mai quanto soffro io!

Dice il Sole: Anima ardita,
     Vincerai, riposerai;
     Sarà tua l’età novella.

Dice l’Ombra indefinita:
     O triste anima rubella,
     Gloria mai, riposo mai!


XV.


O care mani, che chiudeste gli occhi
     Della mia santa vecchiarella, mani
     Pietose, che lavaste il tenue corpo
     Irrigidito da la morte, e cinto
     Di bianche vesti, con geloso rito
     Lo componeste ne la plumbea bara;
     Mani soavi, che tergeste il pianto
     Che dirotto piovea da le mie ciglia;
     Magiche mani, le cui ceree dita
     Hanno baci ineffabili e parole
     Divine che il mio cor solo comprende,
     Su le palpebre mie lievi passate,
     Posate su le mie palpebre stanche,
     Si che a la vostra placida carezza,
     La vecchierella mia sognando viva,
     Tranquillamente, un’ora almeno, io dorma!


XVI.


Perchè fra le pensose urne ti attardi,
     Anima mia? Spargi di fiori il suolo,
     E tendi alle vivaci aure l’orecchio.
     Non odi! Irato a la corrosa sponda
     Mugghia il gran fiume, ed alla pace insulta.
     Passa, o torbido fiume e al mar t’affretta:
     Di là dal mare il regno mio risplende.

Quanta ruina di superbe moli
     Nella ruina de’ tuoi flutti avvolgi!
     Regali orgogli, marziali insegne,
     Glorie d’un dì, trofei d’un’ora, immani
     Giganti che usurpar credeano il cielo,
     Van da le tue vincenti acque travolti
     Al mare eterno, al polo oscuro, al nulla.
     Passa, o torbido fiume, e al mar t’affretta:
     Di là dal mare il regno mio risplende.

Ecco, da’ provocati orti del sole,
     Dall’aurifere conche, ove raccoglie
     Perenne infamia il mercator britanno,
     Dall’isola sublime, ove in un giorno
     Tante stragi espíò l’orgoglio ispano,
     Dall’Idee balze, dalle armenie prode,
     Giù dall’Amba esecrabile che il sogno
     Mirò d’una perversa anima e il moto
     Di diecimila itali cori infranto,
     Disfrenati balzar torrenti e rivi
     D’umano sangue, e con frequenti assalti
     Scalzare i troni e disertar le valli.
     Passa, o torbido fiume, e al mar t’affretta:
     Di là dal mare il regno mio risplende.

Novo furor, più scellerata strage
     Cresce i tuoi flutti e il petto mio funesta.
     Qua e là da una fiamma atra lambite
     Livide membra, umani aspetti io miro
     Rotar, balzare, inabissarsi in preda
     A la corrente sanguinosa: braccia
     Ferocemente contro al ciel protese;
     Occhi atterriti che guardan la morte;
     Petti squarciati, spalancate bocche,

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     Rugosi volti, riluttanti seni
     Ch’a’ trafitti lattanti offronsi ancora;
     Corpi inermi, innocenti (o madri, udite!)
     Che ne’ siculi campi, entro le cave
     Di Luni, per le industri insubri vie,

     L’indocil fame a castigar, mietuti
     De’ prodi ha il ferro e de’ prudenti il senno!
     Passa, o torbido fiume, e al mar t’affretta:
     Di là dal mare il regno mio risplende.