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Poesie (Parini)/III. Il Giorno, secondo l'ultima redazione/II. Il Meriggio, secondo il ms. ambr. IV 8-9

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II. Il Meriggio, secondo il ms. ambr. IV 8-9

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II. Il Meriggio, secondo il ms. ambr. IV 8-9
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II

IL MERIGGIO

(Secondo la lezione del manoscritto Ambrosiano IV, 8-9.)

     Ardirò ancor fra i desinari illustri
sul meriggio innoltrarmi umil cantore,
poi che troppa di te cura mi punge,
signor, ch’io spero un di veder maestro
5e dittator di graziosi modi
all’alma gioventú che Italia onora.
     Tal, fra le tazze i coronati vini,
onde all’ospite suo fe’ lieta pompa
la punica regina, i canti alzava
10Jopa crinito; e la regina in tanto
dal bel volto straniero iva beendo
l’oblivion del misero Sicheo:
e tale, allor che l’orba Itaca in vano
chiedea a Nettun la prole di Laerte,
15Femio s’udia co’ versi e con la cetra
la facil mensa rallegrar de’ Proci,
cui dell’errante Ulisse i pingui agnelli
e i petrosi licori e la consorte
convitavano in folla. Amici or china,
20giovin signore, al mio cantar gli orecchi,

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or che tra nuove Elise e nuovi Proci
e tra fedeli ancor Penelopee
ti guidano a la mensa i versi miei.
     Giá dall’alto del cielo il sol fuggendo
25verge all’occaso: e i piccoli mortali
dominati dal tempo escon di novo
a popolar le vie ch’all’oriente
spandon ombra giá grande: a te nuli’altro
dominator fuor che te stesso è dato,
30stirpe di numi: e il tuo meriggio è questo.
     Al fin di consigliarsi al fido speglio
la tua dama cessò. Cento giá volte
o chiese o rimandò novelli ornati;
e cento ancor de le agitate ognora
35damigelle or con vezzi or con garriti
rovesciò la fortuna. A sé medesma
quante volte convien piacque e dispiacque;
e quante volte è d’uopo a sé ragione
fece e a’ suoi lodatori. I mille intorno
40dispersi arnesi al fin raccolse in uno
la consapevol del suo cor ministra:
al fin velata di legger zendado
è l’ara tutelar di sua beltade;
e la seggiola sacra, un po’ rimossa,
45languidetta l’accoglie. Intorno a lei
pochi giovani eroi van rimembrando
i cari lacci altrui, mentre da lunge
ad altra intorno i cari lacci vostri
pochi giovani eroi van rimembrando.
50Il marito gentil queto sorride
a le lor celie; o, s’ei si cruccia alquanto,
del tuo lungo tardar solo si cruccia.
Nulla però di lui cura te prenda
oggi, o signore. E s’ei del vulgo a paro
55prostrò l’animo imbelle, e non sdegnosse
di chiamarsi marito, a par del vulgo

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senta la fame esercitargli in petto
lo stimol fier de gli oziosi sughi
avidi d’esca: o se a i mariti alcuno
60d’anima generosa impeto resta,
ad altra mensa il piè rivolga; e d’altra
dama al fianco si assida, il cui marito
pranzi altrove lontan d’un’altra al fianco
che lungi abbia lo sposo: e cosí nuove
65anella intrecci a la catena immensa
onde, alternando, Amor l’anime avvince.
     Pur sia che vuol; tu baldanzoso innoltra
ne le stanze piú interne. Ecco precorre
ad annunciarti al gabinetto estremo
70il noto scalpiccio de’ piedi tuoi.
Giá lo sposo t’incontra. In un baleno
sfugge dall’altrui man l’accorta mano
de la tua dama: e il suo bel labbro in tanto
ti apparecchia un sorriso. Ognun s’arretra
75che conosce tuoi dritti, e si conforta
con le adulte speranze, a te lasciando
libero e scarco il piú beato seggio.
Tal, colá dove infra gelose mura
Bisanzio ed Ispaán guardano il fiore
80de la beltá che il popolato Egeo
manda e l’armeno e il tartaro e il circasso
per delizia d’un solo, a bear entra
l’ardente sposa il grave musulmano.
Nel maestoso passeggiar gli ondeggiano
85le late spalle, e su per l’alta testa
le avvolte fasce: dall’arcato ciglio
intorno ei volge imperioso il guardo:
ed ecco al suo apparire umil chinarsi,
e il piè ritrar reffeminata, occhiuta
90turba, che d’alto sorridendo ei spregia.
     Or comanda, o signor, che tutte a schiera
vengan le grazie tue; si che a la dama

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quanto elegante esser piú puoi ti mostri.
Tengasi al fianco la sinistra mano
95sotto al breve giubbon celata; e l’altra
sul finissimo lin posi, e s’asconda
vicino al cor; sublime alzisi il petto;
sorgan gli omeri entrambi; a lei converso
scenda il duttile collo; a i lati un poco
100stringansi i labbri; vèr lo mezzo acuti
escano alquanto; e da la bocca poi,
compendiata in forma tal, sen fugga
un non inteso mormorio. Qual fia
che a tante di beltade arme possenti
105schermo si opponga? Ecco, la destra ignuda
giá la bella ti cede. Or via, la strigni,
e con soavi negligenze al labbro
qual tua cosa l’appressa; e cader lascia
sovra i tiepidi avori un doppio bacio.
110Siedi fra tanto; e d’una mano istrascica
piú a lei vicin la seggioletta. Ognaltro
tacciasi; ma tu sol, curvato alquanto,
seco susurra ignoti detti a cui
concordili vicendevoli sorrisi,
115e sfavillar di cupidette luci,
che amor dimostri, o che il somigli al meno.
     Ma rimembra, o signor, che troppo nuoce
in amoroso cor lunga e ostinata
tranquillitá. Nell’oceano ancora
120perigliosa è la calma: ahi quante volte
dall’immobile prora il buon nocchiero
invocò la tempesta! e si crudele
soccorso ancor gli fu negato; e giacque
affamato, assetato, estenuato,
125dal venenoso aere stagnante oppresso
fra le inutili ciurme al suol languendo.
Dunque a te giovi de la scorsa notte
ricordar le vicende; e con obliqui

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motti pugnerla alquanto: o se nel volto
130paga piú che non suole accòr fu vista
il novello straniero; e co’ bei labbri
semiaperti aspettar, quasi marina
conca, la soavissima rugiada
de’ novi accenti: o se cupida troppo
133col guardo accompagnò di loggia in loggia
l’almo alunno di Marte, idol vegliarne
de’ femminili voti, a la cui chioma
col lauro trionfai mille s’avvolgono
e mille frondi dell’idalio mirto.
140Colpevole o innocente, allor la bella
dama improvviso adombrerá la fronte
d’un nuvoletto di verace sdegno
o simulato; e la nevosa spalla
scoterá un poco; e volgeransi al fine
145gli altri a bear le sue parole estreme.
Fors’anco rintuzzar di tue rampogne
saprá l’agrezza, e noverarti a punto
le visite furtive a i cocchi a i tetti
e all’alte logge de le mogli illustri
150di ricchi popolari, a cui sovente
scender per calle dal piacer segnato
la maestá di cavalier non teme.
Felice te, se mesta o disdegnosa
tu la guidi a la mensa; o se tu puoi
155solo piegarla a tollerar de’ cibi
la nausea universali Sorridan pure
a le vostre dolcissime querele
i convitati; e l’un l’altro percota
col gomito maligno. Ahi, non di meno
160come fremon lor alme! e quanta invidia
ti portan, te mirando unico scopo
di si bell’ire! Al solo sposo è dato
in cor nodrir magnanima quiete,
aprir nel volto ingenuo riso, e tanto

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165docil fidanza ne le innocue luci.
     Oh tre fiate avventurosi e quattro
voi del nostro buon secolo mariti,
quanto diversi da’ vostr’avi! Un tempo
uscia d’Averno, con viperei crini,
170con torbid’occhi irrequieti e fredde
tenaci branche, un indomabil mostro,
che ansando e anelando intorno giva
a i nuziali letti; e tutto empiea
di sospetto e di fremito e di sangue.
175Allor gli antri domestici, le selve,
Tonde, le rupi alto ulular s’udièno
di femminili stridi. Allor le belle
dame, con mani incrocicchiate e luci
pavide al ciel, tremando, lagrimando,
180tra la pompa feral de le lugubri
sale, vedean dal truce sposo offrirsi
le tazze attossicate o i nudi stili.
Ahi pazza Italia! il tuo furor medesmo
oltre l’alpe, oltre il mar destò le risa
185presso a gli emuli tuoi, che di gelosa
titol di dièro: e t’è serbato ancora
ingiustamente. Non di cieco amore
vicendevol desire, alterno impulso,
non di costume simiglianza or guida
190giovani incauti al talamo bramato;
ma la Prudenza co i canuti padri
siede librando il molto oro e i divini
antiquissimi sangui: e allor che l’uno
bene all’altro risponda, ecco Imeneo
195scoter sue faci; e unirsi al freddo sposo,
di lui non giá, ma de le nozze amante,
la freddissima vergine che in core
giá i riti volge del bel mondo; e lieta
la indifferenza maritale affronta.
200Cosi non fien de la crudel Megera

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piú temuti gli sdegni. Oltre Pirene
contenda or pur le desiate porte
a i gravi amanti; e di femminee risse
turbi Oriente: Italia oggi si ride
205di quello ond’era giá derisa; tanto
puote una sola etá volger le menti.
     Ma giá rimbomba d’una in altra sala
signore, il nome tuo. Di giá l’udiro
l’ime officine ove al volubil tatto
210de gl’ingenui palati arduo s’appresta
solletico che molle i nervi scota,
e varia seco voluttá conduca
fino al centro dell’alma. In bianche spoglie
affrettansi a compir la nobil opra
215gravi ministri: e lor sue leggi detta
una gran mente del paese uscita
ove Colberto e Risceliu fur chiari.
Forse con tanta maestade in fronte,
presso a le navi ond’Uio arse e cadeo
220a gli ospiti famosi il grande Achille
disegnava la cena: e seco in tanto
le vivande cocean su i lenti fochi
Pátroclo fido e il guidator di carri
Automedonte. O tu, sagace mastro
225di lusinghe al palato, udrai fra poco
sonar le lodi tue dall’alta mensa.
Chi fia che ardisca di trovar mai fallo
nel tuo lavoro? Il tuo signor fia tosto
campion de le tue glorie; e male a quanti
230cercator di conviti oseran motto
pronunciar contro a te; chè sul cocente
meriggio andran peregrinando poi
miseri e stanchi; e non avran cui piaccia
piú popolar de le lor bocche i pranzi.
     235Imbandita è la mensa. In piè d’un salto
alzati, e porgi, almo garzon, la mano

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IL GIORNO
a la tua dama; e lei, dolce cadente
sopra di te, col tuo valor sostieni,
e al pranzo l’accompagna. I convitati
240vengan dopo di voi; quindi lo sposo
ultimo segua. O prole alta di numi,
non vergognate di donar voi anco
brevi al cibo momenti. A voi non vile
cura fia questa. A quei soltanto è vile
245che il duro irrefrenabile bisogno
stimola e caccia. All’impeto di quello
cedan l’orso, la tigre, il falco, il nibbio,
l’orca, il delfino e quanti altri animanti
crescon qua giú: ma voi con rosee labbra
250la sola Voluttade al pasto appelli,
la sola Voluttá, che le celesti
mense apparecchia, e al nettare convita
i viventi per sé dèi sempiterni.
     Vero forse non è; ma un giorno è fama
255che fúr gli uomini eguali, e ignoti nomi
fúr nobili e plebei. Al cibo, al bere,
all’accoppiarse d’ambo i sessi, al sonno
uno istinto medesmo, un’egual forza
sospingeva gli umani: e niun consiglio,
260nulla scelta d’obbietti o lochi o tempi
era lor conceduto. A un rivo stesso,
a un medesimo frutto, a una stess’ombra
convenivano insieme i primi padri
del tuo sangue, o signore, e i primi padri
265de la plebe spregiata: e gli stess’antri
e il medesimo suol porgeano loro
il riposo e l’albergo, e a le lor membra
i medesmi animai le irsute vesti.
Sola una cura a tutti era comune
270di sfuggire il dolore: e ignota cosa
era il desire a gli uman petti ancora.
     L’uniforme de gli uomini sembianza

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spiacque a’ celesti: e a variar lor sorte
il Piacer fu spedito. Ecco il bel genio,
275qual giá d’ilio su i campi Iride o Giuno,
a la terra s’appressa: e questa ride
di riso ancor non conosciuto. Ei move,
e l’aura estiva del cadente rivo,
e dei clivi odorosi a lui blandisce
280le vaghe membra, e lenemente sdrucciola
sul tondeggiar de’ muscoli gentile.
A lui giran dintorno i Vezzi e i Giochi,
e come ambrosia le lusinghe scorrono
da le fraghe del labbro; e da le luci
285socchiuse, languidette, umide fuora
di tremulo fulgore escon scintille
ond’arde l’aere che scendendo ei varca.
Al fin sul dorso tuo sentisti, o Terra,
sua prima orma stamparsi: e tosto un lento
290fremere soavissimo si sparse
di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte
di natura le viscere commosse:
come nell’arsa state il tuono s’ode
che di lontano mormorando viene,
295e col profondo suon di monte in monte
sorge; e la valle e la foresta intorno
mugon di smisurato alto rimbombo.
     Oh beati fra gli altri e cari al cielo
viventi a cui con miglior man Titano
300formò gli organi egregi, e meglio tese,
e di fluido agilissimo inondolli!
Voi l’ignoto solletico sentiste
del celeste motore. In voi ben tosto
la voglia s’infiammò, nacque il desio:
305voi primieri scopriste il buono, il meglio:
voi con foga dolcissima correste
a possederli. Allor quel de i duo sessi,
che necessario in prima era soltanto,

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d’amabile e di bello il nome ottenne.
310Al giudizio di Paride fu dato
il primo esempio: tra femminei volti
a distinguer s’apprese: e fur sentite
primamente le Grazie. Allor tra mille
sapor fur noti i piú soavi. Allora
315fu il vin preposto all’onda; e il vin si elesse
figlio de’ tralci piú riarsi, e posti
a piú fervido sol, ne’ piú sublimi
colli dove piú zolfo il suolo impingua.
Cosí l’uom si divise: e fu il signore
320da i mortali distinto, a cui nel seno
giacquero ancor l’ebeti fibre, inette
a rimbalzar sotto a i soavi colpi
de la nova cagione onde fur tocche;
e quasi bovi, al suol curvati, ancora
325dinanzi al pungol del bisogno andáro;
e tra la servitude e la viltade
e il travaglio e l’inopia a viver nati,
ebber nome di plebe. Or tu, garzone,
che per mille feltrato invitte reni
330sangue racchiudi, poi che in altra etade
arte, forza o fortuna i padri tuoi
grandi rendette, poi che il tempo al fine
lor divisi tesori in te raccolse,
godi de gli ozi tuoi, a te da i numi
335concessa parte: e l’umil vulgo in tanto,
dell’industria donato, a te ministri
ora i piaceri tuoi, nato a recarli
su la mensa regal, non a gioirne.
     Ecco, splende il gran desco. In mille forme
340e di mille sapor, di color mille
la variata ereditá de gli avi
scherza in nobil di vasi ordin disposta.
Giá la dama s’appressa: e giá da i servi
il morbido per lei seggio s’adatta.

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345Tu, signor, di tua mano all’agil fianco
il sottopon, si che lontana troppo
ella non sieda o da vicin col petto
ahi! di troppo non prema: indi un bel salto
spicca, e chino raccogli a lei del lembo
350il diffuso volume: e al fin t’assidi
prossimo a lei. A cavalier gentile
il lato abbandonar de la sua dama
non fia lecito mai, se giá non sorge
strana cagione a meritar ch’ei tolga
355tanta licenza. Un nume ebber gli antiqui
immobil sempre, che al medesmo padre
de gli dèi non cedette, allor ch’ei scese
il Campidoglio ad abitar, sebbene
e Giuno e Febo e Venere e Gradivo
360e tutti altri dèi da le lor sedi
per riverenza del Tonante uscirò.
     Indistinto ad ognaltro il loco sia
all’alta mensa intorno: e s’alcun arde
ambizioso di brillar fra gli altri,
365brilli altramente. Oh come i vari ingegni
la libertá del genial convito
desta ed infiamma! Ivi il gentil Motteggio,
malizioso svolazzando, reca
sopra le penne fuggitive ed agita
370ora i raccolti da la fama errori
de le belle lontane, or de gli amanti
or de’ mariti i semplici costumi;
e gode di mirar l’intento sposo
rider primiero, e di crucciar con lievi
375minacce in cor de la sua fida sposa
i timidi segreti. Ivi abbracciata
co’ festivi Racconti esulta e scherza
l’elegante Licenza. Or nuda appare
come le Grazie; or con leggiadro velo
380solletica piú scaltra, e pur fatica

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di richiamar de le matrone al volto
quella rosa natia che caro fregio
fu dell’avole nostre, ed or ne’ campi
cresce solinga, e tra i selvaggi scherzi
385a le rozze villane il viso adorna.
     Forse a la bella di sua man le dapi
piacerá ministrar, che novi al senso
gusti otterran da lei. Tu dunque il ferro
che forbito ti giace al destro lato,
390quasi spada sollecito snudando,
fa che in alto lampeggi; e chino a lei
magnanimo lo cedi. Or si vedranno
de la candida mano all’opra intenta
i muscoli giocar soavi e molli:
395e le grazie, piegandosi con essa,
vestirai! nuove forme, or da le dita
fuggevoli scorrendo, ora su l’alto
de’ bei nodi insensibili aleggiando
ed or de le pozzette in sen cadendo
400che de’ nodi al confin v’impresse Amore.
Mille baci di freno impazienti
ecco sorgon dal labbro a i convitali;
giá s’arrischian, giá volano, giá un guardo
sfugge da gli occhi tuoi, che i vanni audaci
405fulmina ed arde, e tue ragion difende.
Sol de la fida sposa a cui se’ caro
il tranquillo marito immoto siede:
e nulla impression l’agita o move
di brama o di timor; però che Imene
410da capo a piè fatollo. Imene or porta
non più serti di rose al crine avvolti,
ma stupido papavero grondante
di crassa onda letèa, che solo insegna
pur dianzi era del Sonno. Ahi quante volte
415la dama delicata invoca il Sonno
che al talamo presieda, e seco in vece

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trova Imeneo; e timida s’arretra
quasi al meriggio stanca villanella
che tra l’erbe innocenti adagia il fianco
420lieta e secura; e di repente vede
un serpe; e balza in piedi inorridita;
e le rigide man stende, e ritragge
il cubito, e l’anelito sospende;
e immota e muta e con le labbra aperte
425il guarda obliquamente. Ahi quante volte
incauto amante a la sua lunga pena
cercò sollievo; e d’invocar credendo
Imene, ahi folle! invocò il Sonno; e questi
di fredda oblivion l’alma gli asperse,
430e d’invincibil noia e di torpente
indifferenza gli ricinse il core.
     Ma se a la dama dispensar non piace
le vivande, o non giova, allor tu stesso
la bell’opra intraprendi. A gli occhi altrui
435piú cosí smaglierá l’enorme gemma,
dolc’esca a gli usurai, che quella osáro
a le promesse di signor preporre
villanamente: e contemplati fièno
i manichetti, la piú nobil opra
440che tessesser giammai angliche Aracni.
Invidieran tua delicata mano
i convitati; inarcheran le ciglia
al diffidi lavoro, e d’oggi in poi
ti fia ceduto il trinciator coltello
445che al cadetto guerrier serban le mense.
     Sia tua cura fra tanto errar su i cibi
con sollecita occhiata, e prontamente
scoprir qual d’essi a la tua bella è caro;
e qual di raro augel, di stranio pesce
450parte le aggrada. Il tuo coltello Amore
anatomico renda, Amor che tutte
degli animanti annoverar le membra

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puote, e discerner sa qual aggian tutte
uso e natura. Piú d’ogn’altra cosa
455però ti caglia rammentar mai sempre
qual piú cibo le nocchi, o qual piú giovi;
e l’un rapisci a lei, l’altro concedi,
come d’uopo a te pare. Oh Dio, la serba,
serbala a i cari figli. Essi dal giorno
460che le allevierò il delicato fianco
non la rivider piú: d’ignobil petto
esaurirono i vasi, e la ricolma
nitidezza lasciáro al sen materno.
Sgridala, se a te par ch’avida troppo
465al cibo agogni; e le ricorda i mali
che forse avranno altra cagione, e ch’ella
al cibo imputerá nel di venturo.
Né al cucinier perdona, a cui non calse
tanta salute. A te ne’ servi altrui
470ragion fu data in quel beato istante
che la noia o l’amore ambo vi strinse
in dolce nodo; e pose ordini e leggi.
Per te sgravato d’odioso incarco
ti fia grato colui che dritto vanta
475d’impor novo cognome a la tua dama;
e pinte strascinar su gli aurei cocchi,
giunte a quelle di lei, le proprie insegne:
dritto sacro a lui sol, ch’altri giammai
audace non tentò divider seco.
480Vedi come col guardo a te fa cenno
pago ridendo, e a le tue leggi applaude;
mentre l’alta forcina in tanto ei volge
di gradite vivande al piatto ancora.
     Non però sempre a la tua bella intorno
485sudin gli studi tuoi. Anco tal volta
fia lecito goder brevi riposi;
e de la quercia trionfale all’ombra
te de la polve olimpica tergendo,

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al vario ragionar de gli altri eroi
490porgere orecchio, e il tuo sermone a i loro
frammischiar ozioso. Uno giá scote
le architettate del bel crine anella
su la guancia ondeggianti; e, ad ogni scossa,
de’ convitati a le narici manda
495vezzoso nembo d’arabi profumi.
A lo spirto di lui l’alma Natura
fu prodiga cosí, che piú non seppe
di che il volto abbellirgli; e all’Arte disse:
— Tu compi il mio lavoro, — e l’Arte suda
500sollecita d’intorno all’opra illustre.
Molli tinture, preziose linfe,
polvi, pastiglie, delicati unguenti,
tutto arrischia per lui. Quanto di novo,
e mostruoso piú sa tesser spola,
505o bulino intagliar gallico ed anglo
a lui primo concede. Oh lui beato
che primo ancor di non piú viste forme
tabacchiera mostrò! L’etica invidia
i grandi eguali a lui lacera e mangia;
510ed ei, pago di sé, superbamente
crudo, fa loro balenar su gli occhi
l’ultima gloria onde Parigi ornollo.
Forse altera cosí, d’Egitto in faccia,
vaga prole di Semele apparisti,
515i giocondi rubini alto levando
del grappolo primiero: e tal tu forse,
tessalico garzon, mostrasti a Jolco
Lauree lane rapite al fero drago.
     Or vedi or vedi qual magnanim’ira
520nell’eroe che dell’altro a canto siede
a si novo spettacolo si desta:
vedi quanto ei s’affanna, e il pasto sembra
obliar declamando! Al certo, al certo,
il nemico è a le porte. Oimè! i Penati

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525tremano, e in forse è la civil salute.
Ma no; piú grave a lui, piú preziosa
cura lo infiamma: — Oh depravato ingegno
degli artefici nostri! In van si spera
da la inerte lor man lavoro egregio,
530felice invenzion d’uom nobil degna.
Chi sa intrecciar, chi sa pulir fermaglio
a patrizio calzar? chi tesser drappo
soffribil tanto, che d’ornar presuma
i membri di signor che un lustro a pena
535conti di feudo? In van s’adopra e stanca
chi la lor mente sonnolenta e crassa
cerca destar. Di lá dall’Alpi è d’uopo
appellar l’eleganza. E chi giammai
fuor che il genio di Francia osato avria
540su i menomi lavori i grechi ornati
condur felicemente? Andò romito
il Bongusto finora spaziando
per le auguste cornici, e per gli eccelsi
timpani de le moli a i numi sacre
545o a gli uomini scettrati; ed or ne scende
vago al fin d’agitar gli austeri fregi
entro a le man di cavalieri e dame.
Ben tosto si vedrá strascinar anco
fra i nuziali doni e i lievi veli
530le greche travi; e docile trastullo
fien de la Moda le colonne e gli archi
ove sedeano i secoli canuti.
— Commercio! — alto gridar, gridar: — commercio! —
all’altro lato de la mensa or odi
555con fanatica voce: e tra il fragore
d’un peregrino d’eloquenza fiume,
di bella novitá stampate al conio
le forme apprendi, onde assai meglio poi
brillantati i pensier picchili lo spirto.
560Tu pur grida: — Commercio! —; e un motto ancora

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la tua bella ne dica. Empiono, è vero,
il nostro suol di Cerere i favori,
che per folti di biade immensi campi
ergesi altera; e pur ne mostra a pena
565tra le spighe confuso il crin dorato:
Bacco e Vertunno i lieti poggi e il monte
ne coronan di poma: e Pale amica
latte ne preme a larga mano, e tonde
candidi velli, e per li prati pasce
570mille al palato uman vittime sacre:
sorge fecondo il lin, soave cura
di verni rusticali: e d’infinita
serie ne cinge le campagne il tanto
per la morte di Tisbe arbor famoso.
575Che vale or ciò? Su le natie lor balze
rodan le capre; ruminando il bue
per li prati natii vada; e la plebe,
non dissimile a lor, si nutra e vesta
de le fatiche sue: ma a le grand’alme,
580di troppo agevol ben schife, Cillenio
il comodo ministri, a cui le miglia
pregio acquistino e l’oro; e d’ogn’intorno
— Commercio, — risonar s’oda, — commercio. —
Tale da i Ietti de la molle rosa
585Sibari un di gridar soleva; e i lumi
disdegnando volgea da i frutti aviti,
troppo per lei ignobil cura; e mentre
Cartagin, dura a le fatiche, e Tiro,
pericolando per l’immenso sale,
590con l’oro altrui le voluttá cambiava,
Sibari si volgea su l’altro lato;
e non premute ancor rose cercando,
pur di commercio novellava e d’arti.
     Ma chi è quell’eroe che tanta parte
595colá ingombra di loco; e mangia e fiuta
e guata; e de le altrui fole ridendo

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si superba di ventre agita mole?
Oh di mente acutissima dotate
mamme del suo palato! oh da’ mortali
600invidiabil anima che siede
fra l’ammiranda lor testura, e quindi
l’ultimo del piacer deliquio sugge!
Chi piú acuto di lui penètra e intende
la natura migliore? o chi piú industre
605converte a suo piacer l’aria, la terra,
e il ferace di mostri ondoso abisso?
Qualora ei viene al desco altrui, paventano
suo gusto inesorabile le smilze
ombre de gli avi, che per l’aria lievi
610aggiransi vegliando ancor dintorno
a i ceduti tesori; e piangoli, lasse!
le mal spese vigilie, i sobri pasti,
le in preda all’aquilon case, le antique
digiune rozze, gli scommessi cocchi
615forte assordanti per stridente ferro
le piazze e i tetti: e lamentando vanno
gl’in van nudati rustici, le fami
mal desiate, e de le sacre toghe
l’armata in vano autoritá sul vulgo.
     620L’altro vicin chi fia? Per certo il caso
congiunse accorto i duo leggiadri estremi,
perché doppio spettacolo campeggi;
e l’un dell’altro al par piú lustri e splenda.
Falcato dio de gli orti, a cui la greca
625Lámsaco d’asinelli offrir solea
vittima degna, al giovane seguace
del sapiente di Samo i doni tuoi
reca sul desco. Egli ozioso siede
aborrendo le carni; e le narici
630schifo raggrinza; e in nauseanti rughe
ripiega i labbri; e poco pane in tanto
rumina lentamente. Altro giammai

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a la squallida inedia eroe non seppe
durar si forte: né lassezza il vinse
635né deliquio giammai né febbre ardente:
tanto importa lo aver scarze le membra,
singolare il costume, e nel bel mondo
onor di filosofico talento!
Qual anima è volgar la sua pietate
640serbi per l’uomo; e facile ribrezzo
déstino in lei del suo simile i danni,
o i bisogni o le piaghe. 11 cor di questo
sdegna comune affetto; e i dolci moti
a piú lontano limite sospigne.
645— Péra colui che prima osò la mano
armata alzar su l’innocente agnella
e sul placido bue: né il truculento
cor gli piegáro i teneri belati,
né i pietosi mugiti, né le molli
650lingue lambenti tortuosamente
la man che il loro fato, aimè! stringea. —
Tal ei parla, o signor: ma sorge in tanto
a quel pietoso favellar, da gli occhi
de la tua dama dolce lagrimetta,
655pari a le stille tremule, brillanti,
che a la nova stagion gemendo vanno
da i palmiti di Bacco, entro commossi
al tiepido spirar de le prim’aure
fecondatrici. Or le sovvien del giorno,
660ahi fero giorno! allor che la sua bella
vergine cuccia de le Grazie alunna,
giovanilmente vezzeggiando, il piede
villan del servo con gli eburnei denti
segnò di lieve nota: e questi audace
665col sacrilego piè lanciolla: ed ella
tre volte rotolò; tre volte scosse
lo scompigliato pelo, e da le vaghe
nari soffiò la polvere rodente:

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indi i gemiti alzando: Aita, aita,
670parea dicesse; e da le aurate volte
a lei la impietosita Eco rispose:
e dall’infime chiostre i mesti servi
asceser tutti; e da le somme stanze
le damigelle pallide, tremanti
675precipitare. Accorse ognuno: il volto
fu d’essenze spruzzato a la tua dama:
ella rinvenne al fine. Ira e dolore
l’agitavano ancor: fulminei sguardi
gettò sul servo; e con languida voce
680chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
al sen le corse; in suo tenor vendetta
chieder sembrolle: e tu vendetta avesti,
vergine cuccia de le Grazie alunna.
L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo
685udi la sua condanna. A lui non valse
merito quadrilustre: a lui non valse
zelo d’arcani ufíci. Ei nudo andonne
de le assise spogliato onde pur dianzi
era insigne a la plebe: e in van novello
690signor sperò; ché le pietose dame
inorridirò, e del misfatto atroce
odiar l’autore. Il perfido si giacque
con la squallida prole e con la nuda
consorte a lato su la via, spargendo
695al passeggero inutili lamenti:
e tu, vergine cuccia, idol placato
da le vittime umane, isti superba.
     Né senza i miei precetti o senza scorta
inerudito andrai, signor, qualora
700il perverso destili dal fianco amato
ti allontani a la mensa. Avvien sovente
che con l’aio seguace o con l’amico
un grande illustre or l’Alpi, or l’oceáno
varchi e scenda in Ausonia, orribil ceffo

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705per natura o per arte; a cui Ciprigna
róse le nari, o sale impuro e crudo
snudò i denti ineguali. Ora il distingue
risibil gobba, or furiosi sguardi,
obliqui o loschi: or rantoloso avvolge
710fra le tumide fauci ampio volume
di voce che gorgoglia ed esce al fine
come da inverso fiasco onda che goccia;
or d’avi, or di cavalli, ora di Friní
instancabile parla; or de’ celesti
705le folgori deride. Aurei monili,
e nastri e gemme, gloriose pompe,
l’ingombran tutto: e gran titolo suona
dinanzi a lui. Qual piú tra noi risplende
inclita stirpe ch’onorar non voglia
720d’un ospite si degno i lari suoi?
Ei però col compagno ammessi fièno
di Giuno a i fianchi: e tu lontan da lei
co’ Silvani capripedi n’andrai
presso al marito; e pranzerai negletto
725col popol folto de gli dèi minori.
Ma negletto non giá da gli occhi andrai
de la dama gentil, che, a te rivolti,
incontreranno i tuoi. L’aere a quell’urto
arderá di faville: e Amor con l’ali
730l’agiterá. Nel fortunato incontro
i messagger pacifici dell’alma
cambieran lor novelle: e alternamente
spinti, ritorneranno a voi con dolce
delizioso tremito su i cori.
735Allor tu le ubbidisci; o se t’invita
le vivande a gustar, che a lei vicine
l’ordin dispose; o se a te chiede invece
quella che innanzi a te sue voglie pugne
non col soave odor, ma con le nove
740leggiadre forme onde abbellir la seppe

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dell’ammirato cucinier la mano.
Con la mente si pascono le dive
sopra le nubi del brillante Olimpo:
e lor labbra immortali irrita e move
745non la materia, ma il divin lavoro.
     Né allor men destro ad ubbidir sarai
che di raro licor la bella strigne
colmo bicchiere, a lo cui orlo intorno
serpe striscia dotata; e par che dica:
750— Lungi, o labbra profane: a i labbri solo
de la diva che qui soggiorna e regna
è il castissimo calice serbato:
né cavalier con alito maschile
osi appannarne il nitido cristallo;
755né dama convitata unqua presuma
i labbri apporvi; e sien pur casti e puri,
e quanto esser può mai cari all’amore. —
     Tu al cenno de’ bei guardi e de la destra
che reggendo il bicchier sospesa ondeggia,
760affettuoso attendi. I lumi tuoi,
di gioia sfavillando, accolgan pronti
il brindisi segreto: e ti prepara
in simil modo a tacita risposta.
     Ecco d’estro giá punta, ecco la Musa
765brindisi grida all’uno e all’altro amante;
all’altrui fida sposa a cui se’ caro,
e a te, signor, sua dolce cura e nostra.
Quale annoso licor Lieo vi mesce,
tale Amore a voi mesca eterna gioia,
770non gustata al marito, e da coloro
invidiata che gustata l’hanno.
Veli con l’ali sue sagace oblio
le alterne infedeltá che un cor dall’altro
porieno un giorno separar per sempre:
775e solo a gli occhi vostri Amor discopra
le alterne infedeltá che in ambo i petti

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ventilar ponno le cedenti fiamme.
Di sempiterno indissolubil nodo
canti auguri per voi vano cantore:
780nostra nobile Musa a voi desia
sol quanto piace a voi durevol nodo.
Duri fin che a voi piace: e non si scioglia
senza che Fama sopra l’ale immense
tolga l’alta novella, e grande n’empia,
785col reboato dell’aperta tromba,
l’ampia cittade e dell’Enotria i monti
e le piagge sonanti, e, s’esser puote,
la bianca Teti e Guadiana e Tuie.
Il mattutino gabinetto, il corso,
790il teatro e la mensa in vario stile
ne ragionin gran tempo. Ognun ne chieda
il dolente marito: ed ei dall’alto
la lamentabil favola cominci.
Tal su le scene, ove agitar solea
795l’ombre tinte di sangue Agro piagnente,
squallido messo al palpitante coro
narrava come furiando Edipo
al talamo sen corse incestuoso,
come le porte rovescionne, come
800al súbito spettacolo ristette,
quando vicina del nefando letto
vide in un corpo solo e sposa e madre
pender strozzata; e del fatale uncino
le mani armosse; e con le proprie mani
805a sé le care luci da la testa,
con le man proprie, misero! strapposse.
     Ma giá volge al suo fine il pranzo illustre:
giá Como e Dionisio al desco intorno
rapidissimamente in danza girano
810con la libera Gioia. Ella saltando
or questo or quel de’ convitati lieve
tocca col dito: e al suo toccar scoppiettano

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brillanti vivacissime scintille
ch’altre ne destan poi. Sonati le risa:
815il clamoroso disputar s’accende:
la nobil vanitá pugne le menti:
e l’amor di sé sol, baldo scorrendo,
porge un scettro a ciascuno; e dice: — Regna. —
Questi i concili di Bellona, e quegli
820penetra i tempii de la Pace. Un guida
i condottieri: a i consiglier consiglio
l’altro dona; e divide e capovolge
con seste ardite il pelago e la terra.
Qual di Pallade l’altri e de le Muse
825giudica e libra; qual ne scopre acuto
l’alte cagioni; e i gran principi abbatte
cui creò la natura, e che tiranni
sopra il senso de gli uomini regnáro
gran tempo in Grecia, e nel paese tosco
830rinacquer poi piú poderosi e forti.
     Cotanto adunque di saper fia dato
a nobil capo? Oh letti, oh specchi, oh mense,
oh corsi, oh scene, oh feudi, oh sangue, oh avi,
che per voi non s’apprende? Or tu, signore,
835co’ voli arditi del felice ingegno
sovra ognaltro t’innalza. Il campo è questo
ove splender piú dèi. Nulla scienza,
sia quant’esser mai puote arcana e grande,
ti spaventi giammai. Se cosa udisti
840o leggesti al mattino, onde tu deggia
gloria sperar; qual cacciator che segue
circuendo la fera, e si la guida
e volge di lontan, che a poco a poco
a le insidie s’accosta e dentro piomba;
845tal tu il sermone altrui volgi sagace
fin che lá cada ove spiegar ti giove
il tuo novo tesoro. E se pur ieri
scesa in Italia peregrina forma

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del parlar t’è giá nota, allor tu studia
850materia espor che, favellando, ammetta
la nova gemma; e poi che il punto hai còlto,
ratto la scopri; e sfolgorando abbaglia
qual altra è mente che superba andasse
di squisita eloquenza a i gran convivi.
855In siinil guisa il favoloso mago
che fe’ gran tempo desiar ramante
all’animosa vergili di Dordona,
da i cavalier che l’assalien bizzarri
oprar lasciava ogni lor possa ed arte;
860poi ecco, in mezzo a la terribil pugna,
strappava il velo a lo incantato scudo;
e quei, sorpresi dal bagliore immenso,
ciechi spingeva e soggiogati a terra.
     Talor di Zoroastro o d’Archimede
865discepol sederá teco a la mensa.
Tu a lui ti volgi, seco lui ragiona,
suo linguaggio ne apprendi; e quello poi,
qual se innato a te fosse, alto ripeti.
Né paventar quel che l’antica fama
870narra de’ lor compagni. Oggi la diva
Urania il crin compose; e gl’irti alunni
smarriti, vergognosi, balbettanti
trasse da le lor cave, ove giá tempo
col profondo silenzio e con la notte
875tenean consiglio: e le servili braccia
fornien di leve onnipotenti, ond’alto
salisser poi piramidi, obelischi
ad eternar de’ popoli superbi
i gravi casi: o pur con feri dicchi
880stavan contra i gran letti: o di pignone
audace armati spaventosamente
cozzavan con la piena, e giú a traverso
spezzate, rovesciate dissipavano
le tetre corna: decima fatica

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885d’Èrcole invitto. Ora i selvaggi amici
Urania ingentili. Baldi e leggiadri
nel gran mondo li guida, o tra il clamore
de’ frequenti convivi, o pur tra i vezzi
de’ gabinetti, ove a la docil dama
890e al caro cavalier mostran qual via
Venere tenga; e in quante forme o quali
suo volto lucidissimo si cangi.
     Né del poeta temerai, che beffi
con satira indiscreta i detti tuoi;
895o che a maligne risa esponer osi
tuo talento immortale. All’alta mensa
voi lo innalzaste; e tra la vostra luce
beato l’avvolgeste; e de le Muse
a dispetto e d’Apollo, al sacro coro
900l’ascriveste de’ vati. Ei de la mensa
fece il suo Pindo: e guai a lui, se quindi
le dee sdegnate giú precipitando
con le forchette il cacciano! Meschino!
Piú non porla su le dolenti membra
905del suo infermo signor chiedere aita
da la buona Salute; o con alate
odi ringraziar, né tesser inni
al barbato figliuoli di Febo intonso.
Piú del giorno natale i chiari albori
910salutar non potrebbe; e l’auree frecce
nomi-sempiternanti all’arco imporre,
non piú gli urti festevoli, o sul naso
l’elegante scoccar d’illustri dita
fóra dato sperare. A lui tu dunque
915non disdegna, o signor, volger talora
tu’ amabil voce; a lui tu canta i versi
del delicato cortigian d’Augusto,
o di quel che tra Venere e Lieo
pinse Trimalcion: la Moda impone,
920Ch’Arbitro o Fiacco a i begli spirti ingombri

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spesso le tasche. Oh come il vate amico
te udrá, maravigliando, il sermon prisco
o sciogliere o frenar qual piú ti piace:
e per la sua faretra, e per li cento
925destrier focosi che in Arcadia pasce,
ti giurerá che di Donato al paro
il diffidi sermone intendi e gusti.
     E questo ancor di rammentar fia tempo
i novi sofi che la Gallia o l’Alpe
930ammirando persegue; e dir qual arse
de’ volumi infelici, o andò macchiato
d’infame nota; e quale asilo appresti
filosofia al morbido Aristippo
del secol nostro; e qual ne appresti al novo
935Diogene dell’auro sprezzatore
e della opinione de’ mortali.
Lor volumi famosi a te discesi
per calle obliquo, e compri a gran tesoro,
o da cortese man prestati, fièno
940lungo ornamento a lo tuo speglio innante.
Poi che brevi gli avrai scorsi momenti
ornandoti o la man garrendo indotta
del parrucchier; poi che t’avran piú notti
conciliato il facil sonno, al fine
945anco a lo speglio passeran di lei
che comuni ha con te studi e liceo,
ove togato in cattedra elegante
siede interprete Amore. Or fia la mensa
il favorevol loco onde al sol esca
950de’ brevi studi il glorioso frutto.
Chi por freni oserá d’inclita stirpe
all’animo, alla mente? Il vulgo tema
oltre natura: e quei, cui dona il vulgo
titol di saggio, mediti romito
955il ver celato; e al fin cada adorando
la sacra nebbia che lo avvolge intorno.

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Ma tu, come sublime aquila, vola
dietro a i sofi novelli. Alto dia plauso
tutta la mensa al tuo poggiare audace.
960Te con lo sguardo e con l’orecchio beva
la dama da le tue labbra rapita:
con cenno approvator vezzosa il capo
pieghi sovente: e il «calcolo» e la «massa»
e la «inversa ragion» sonino ancora
965su la bocca amorosa. Or piú non odia
de le scole il sermone Amor maestro:
e l’accademia e i portici passeggia
de’ filosofi al fianco; e con la molle
mano accarezza le cadenti barbe.
     970Ma guardati, o signor, guardati, oh Dio!
dal tossico mortai che fuora esala
da i volumi famosi: e occulto poi
sa, per le luci penetrato all’alma,
gir serpendo ne’ cori; e con fallace
975lusinghevole stil corromper tenta
il generoso de le stirpi orgoglio
che ti scevra dal vulgo. Udrai da quelli,
che ciascun de’ viventi all’altro è pari;
e caro a la Natura e caro al cielo
980è non manco di te colui che regge
i tuoi destrieri e quel ch’ara i tuoi campi,
e che la tua pietade o il tuo rispetto
devrien fino a costor scender vilmente.
Folli sogni d’infermo! Intatti lascia
985cosi strani consigli: e solo attigni
ciò che la dolce voluttá rinfranca,
ciò che scioglie i desiri, e ciò che nudre
la libertá magnanima. Tu questo
reca solo a la mensa; e sol da questo
990plauso cerca ed onor: cosí dell’api
l’industrioso popolo ronzando,
gira di fiore in fior, di prato in prato;

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e i dissimili sughi raccogliendo,
tesoreggia nell’arme: un giorno poi
995ne van colme le pátere dorate
sopra l’ara de’ numi; e d’ogni lato
ribocca la fragrante alma dolcezza.
     Or versa pur dall’odorato grembo
i tuoi doni, o Pomona; e l’ampie colma
1000tazze, che d’oro e di color diversi
fregia il sassone industre. E tu da i greggi,
rustica Pale, coronata vieni
di melissa olezzante o di ginebro;
e co’ lavori tuoi di presso latte
1005declina vergognando a chi ti chiede:
ma deporli non osa. In su la mensa
porien, deposti, le celesti nari
punger ahi troppo; e con ignobil senso
gli stomachi agitar: soli torreggino
1010sul ripiegato lino in varia forma
i latti tuoi cui di serbato verno
assodarono i sali, e fecer atti
a dilettar con súbito rigore
di convitato cavalier le labbra.
     1015Tu, signor, che farai poi che la dama
con la mano e col piè lieve puntando
move in giro i begli occhi; e altrui dá cenno
che di sorger è tempo? In piè d’un salto
balza primo di tutti; a lei soccorri,
1020la seggiola rimovi, la man porgi,
guidala in altra stanza, e piú non soffri
che lo stagnante de le dapi odore
il cèlabro le offenda. Ivi con gli altri
gratissimo vapor la invita, ond’empie
1025l’aere il caffè che preparato fuma
in tavola minor, cui vela ed orna
indica tela. Ridolente gomma
quinci arde in tanto; e va lustrando e purga

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l’aere profano, e fuor caccia de’ cibi
1030le volanti reliquie. Egri mortali,
che la miseria e la fidanza un giorno
sul meriggio guidcáro a queste porte,
tumultuosa, ignuda, atroce folla
di tronche membra e di squallide facce
1035e di bare e di grucce, or via da lunge
vi confortate; e per le alzate nari
del divin prandio il nettare beete
che favorevol aura a voi conduce:
ma non osate i limitari illustri
1040assediar, fastidioso offrendo
spettacolo di mali a i nostri eroi.
     E a te, nobil garzon, la tazza intanto
apprestar converrá, che i lenti sorsi
ministri poi de la tua bella a i labbri:
1045e memore avvertir s’ella piú goda,
o sobria o liberal, temprar col dolce
la bollente bevanda: o se piú forse
l’ami cosí, come sorbir la gode
barbara sposa, allor che, molle assisa
1050ne’ broccati di Persia, al suo signore
con le dita pieghevoli il selvoso
mento vezzeggia; e, la svelata fronte
alzando, il guarda; e quelli sguardi han possa
di far che a poco a poco di man cada
1033al suo signore la fumante canna.
     Mentre i labbri e la man v’occupa e scalda
l’odoroso licor, sublimi cose
macchinerá tua infaticabil mente.
Quale oggi coppia di corsier de’ il carro
1060condur de la tua bella; o l’alte moli
che per le fredde piagge educa il cimbro;
o quei che abbeverò la Orava; o quelli
che a le vigili guardie un di fuggirò
da la stirpe campana: oggi qual meglio

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1065si convegna ornamento a i dorsi alteri;
se semplici o negletti, o se pomposi
di ricche nappe e variate stringhe
andran su l’alto collo i crin volando,
e sotto a cuoi vermigli e ad auree fibbie
1070ondeggeranno li ritondi fianchi.
Quale oggi cocchio trionfanti al corso
vi porterá: se quel cui l’oro copre
fulgido al sole; e de’ vostr’alti aspetti
per cristallo settemplice concede
1075al popolo bearsi; o quel che tutto,
caliginoso e tristo e a la marmorea
tomba simil che de’ vostr’avi chiude
i cadaveri eccelsi, ammette a pena
cupido sguardo altrui. Cotanta mole
1080di cose a un tempo sol nell’alto ingegno
tu verserai; poi col supremo auriga
arduo consiglio ne terrai, non senza
qualche lieve garrir con la tua dama.
Servi l’auriga ogni tua legge: e in tanto
1085altra cura subentri. Ora mira i prodi
compagni tuoi che, ministrato a pena
dolce conforto di vivande a i membri,
giá scelto il campo e giá distinti in bande,
preparansi giocando a fieri assalti.
1090Cosí a queste, o signore, illustre inganno
ore lente si faccia. E s’altri ancora
vuole Amor che s’inganni; altronde pugni
la turba convitata; e tu da un lato
sol con la dama tua quel gioco eleggi
1095che due soltanto a un tavoliere ammetta.
     Giá per ninfa gentil tacito ardea
d’insoffribile ardor misero amante,
cui null’altra eloquenza usar con lei,
fuor che quella de gli occhi era concesso:
1100poi che il rozzo marito, ad Argo eguale,

[p. 222 modifica]

vigilava mai sempre; e, quasi biscia,
ora piegando, or allungando il collo,
ad ogni verbo con gli orecchi acuti
era presente. Oimè, come con cenni,
1105o con notate tavole giammai,
o con servi sedotti, a la sua bella
chieder pace ed aita? Ogni d’Amore
stratagemma finissimo vincea
la gelosia del rustico marito,
ilio Che piú lice sperare? Al tempio ei viene
del nume accorto che le serpi annoda
all’aurea verga, e il capo e le calcagna
d’ali fornisce. A lui si prostra umile;
e in questi detti, lagrimando, il prega:
1115— O propizio a gli amanti, o buon figliuolo
de la candida Maia, o tu che d’Argo
deludesti i cent’occhi, e a lui rapisti
la guardata giovenca, i preghi accogli
d’un amante infelice; e a lui concedi,
1120se non gli occhi ingannar, gli orecchi almeno
d’importuno marito. — Ecco si scote
il divin simulacro, a lui s’inchina,
con la verga pacifica la fronte
gli perente tre volte: e il lieto amante
1125sente dettarsi ne la mente un gioco
che i mariti assordisce. A lui diresti
che l’ali del suo piè concesse ancora
il supplicato dio, cotanto ei vola
velocissimamente a la sua dama.
1130Lá bipartita tavola prepara,
ov’ebano ed avorio intarsiati
regnati sul piano, e partono alternando
in due volte sei case ambo le sponde.
Quindici nere d’ebano rotelle
1135e d’avorio bianchissimo altrettante
stan divise in due parti; e moto e norma

[p. 223 modifica]

da duo dadi gittati attendon, pronte
gli spazi ad occupar, e quinci e quindi
pugnar contrarie. Oh cara a la Fortuna
1140quella che corre innanzi all’altre; e seco
trae la compagna, onde il nemico assalto
forte sostenga! Oh giocator felice
chi pria l’estrema casa occupa, e l’altro
de gli spazi a sé dati ordin riempie
1145con doppio segno! Ei trionfante allora
da la falange il suo rivai combatte;
e in proprio ben rivolge i colpi ostili!
Al tavolier s’assidono ambidue,
l’amante cupidissimo e la ninfa.
1150Quella una sponda ingombra, e questi l’altra.
Il marito col gomito s’appoggia
all’un de’ lati; ambo gli orecchi tende,
e sotto al tavolier di quando in quando
guata con gli occhi. Or l’agitar de i dadi
1155entro a’sonanti bossoli comincia;
ora il picchiar de’ bossoli sul piano;
ora il vibrar, lo sparpagliar, l’urtare,
il cozzar de i duo dadi; or de le messe
rotelle il matellar. Torcesi e freme
1160sbalordito il geloso: a fuggir pensa,
ma rattienlo il sospetto. IL fragor cresce,
il rombazzo, il frastono, il rovinio.
Ei piú regger non puote, in piedi balza,
e con ambe le man tura gli orecchi.
1163Tu vincesti, o Mercurio. Il cauto amante
poco disse, e la bella intese assai.
     Tal ne la ferrea etá, quando gli sposi
folle superstizion chiamava all’arme,
giocato fu. Ma poi che l’aureo venne
1170secol di novo; e che del prisco errore
si spogliáro i mariti, al sol diletto
la dama e il cavalier volsero il gioco,

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che la necessitá trovato avea.
Fu superfluo il romor: di molle panno
1175la tavola vestissi, e de’patenti
bossoli il sen: lo schiamazzio molesto
tal rintuzzossi; e durò al gioco il nome
che ancor l’antico strepito dinota.