Poesie (Rilke)/Bibliothèque Nationale

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Bibliothèque Nationale

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Rainer Maria Rilke - Poesie (XX secolo)
Traduzione dal tedesco di Giaime Pintor (1942)
Bibliothèque Nationale
Urnekloster Al ragazzo Elis

Sono seduto e leggo un poeta. C’è molta gente nella sala ma non si fa sentire. Sono tutti nei libri. Talvolta si muovono tra i fogli come uomini che dormano e si voltino fra due sogni. Fa bene stare cosí, fra uomini che leggono. Perché non sono sempre cosí? Tu puoi avvicinarti a uno di loro e toccarlo leggermente: non ti sente. Se urti appena un vicino, alzandoti, e gli chiedi scusa, egli accenna dalla parte da cui viene la tua voce: volge il viso verso di te e non ti vede, e i suoi capelli sono come i capelli di uno che dorma. E questo fa bene. Io sono seduto e leggo un poeta. Un curioso destino. Ci sono forse trecento persone che leggono nella sala; ma è impossibile che ciascun di loro abbia un poeta. (Dio sa cos’hanno). Non ci sono trecento poeti. E vedi il destino; io, il piú miserabile forse fra tutta questa gente, uno straniero: io ho un poeta. Benché sia povero. Benché il vestito che porto tutti i giorni cominci a logorarsi in alcuni punti e ci sia molto da ridire sulle mie scarpe. Certo il colletto della camicia è pulito e la biancheria anche; e potrei come sono, entrare in una buona pasticceria, magari dei boulevards, posare tranquillamente la mano su un vassoio e prendere una pasta. Nessuno troverebbe strano il mio gesto; nessuno mi sgriderebbe o verrebbe a mandarmi via, perché è sempre una mano di buona apparenza, una mano lavata quattro o cinque volte al giorno. Le unghie sono nitide, l’indice non è macchiato d’inchiostro e specialmente i polsi sono immacolati. I poveri non si lavano fin lí, è cosa nota. Dalla bianchezza dei polsi si possono trarre molte deduzioni. E magari si traggono. Soprattutto nei negozi. Ma esistono un paio di creature, sul Boulevard Saint-Michel, per esempio, e in Rue Racine, che non si lasciano ingannare, che si ridono dei miei polsi. Mi vedono e sanno tutto. Sanno che io appartengo a loro, che faccio solo un po’ il commediante. È carnevale del resto. E non vogliono guastarmi il giuoco: fanno appena una smorfia e ammiccano con gli occhi. Nessuno se ne accorge. Per il resto mi trattano come un signore. Basta che ci sia qualcuno nelle vicinanze e mi trattano con deferenza. Fanno come se io avessi una pelliccia e la vettura che mi aspetta. A volte do loro due soldi, e tremo all’idea che potrebbero rifiutarli; ma li prendono sempre. E tutto sarebbe a posto se non facessero ancora una volta una smorfia, e se non ammiccassero un po’.

Chi sono queste persone? Che vogliono da me? Mi aspettano? E da che cosa mi riconoscono? È vero, la mia barba è trascurata e ricorda un poco, ma pochissimo, le loro vecchie barbe malate, quelle barbe pallide che mi hanno sempre fatto ribrezzo. Ma non ho forse il diritto di trascurare la mia barba? Tante persone molto occupate lo fanno, e a nessuno viene in mente per questo di annoverarle tra i rifiuti. Perché è chiaro che essi sono rifiuti, non solo mendicanti; anzi non sono mendicanti, bisogna distinguere. Sono relitti, bucce di uomini, che la sorte ha sputato. Umidi di questa saliva della sorte strisciano su un muro, su un lampione, su un’edicola, o traversano lentamente la strada lasciandosi dietro un’oscura traccia di sporcizia. Che mai voleva da me quella vecchia venuta fuori da non so quale buco con in mano il cassetto del suo comodino dove rotolavano aghi e bottoni? Perché continuava a venirmi dietro e mi guardava come se volesse riconoscermi, con i suoi occhi cisposi dove pareva che un malato avesse sputato fra le palpebre sanguinolenti la sua saliva verdastra? E perché quell’altra piccola donna grigia rimase per un quarto d’ora ferma al mio fianco davanti a una vetrina mostrandomi una lunga e vecchia matita che pendeva lentamente dalle sue mani chiuse e cattive? Io feci finta di guardare gli oggetti esposti e di non notare nulla. Ma lei sapeva che l’avevo vista, che indugiavo a pensare che cosa realmente facesse. Perché sentivo bene che non si trattava della matita, sentivo che quello era un segno, un segno per iniziati, un segno che conoscono i rifiuti; sapevo che con quel segno mi si diceva di fare qualcosa o di andare in qualche posto. E il piú strano fu che non riuscii mai a liberarmi dall’impressione che esistesse in realtà un linguaggio segreto a cui quel segno apparteneva, e che quella scena fosse qualcosa che avrei dovuto aspettarmi.

Questo fu due settimane fa. Ma ora non passa quasi giorno senza un incontro di quel genere. Non solo al crepuscolo, ma anche a mezzogiorno e nelle strade piú affollate accade che a un tratto un ometto o una vecchia si presentino, ammicchino indicandomi qualcosa e spariscano di nuovo come se il loro compito fosse terminato. È possibile che un giorno pensino di venire fino in camera mia; sanno certo dove abito e si comporteranno in modo che il portiere non li fermi. Ma qui, miei cari, sono al sicuro da voi. Bisogna avere una tessera speciale per entrare in questa sala. Questa tessera mi distingue da voi. Vado un po’ timido per strada, è naturale, ma poi arrivo davanti alla porta a vetri, la apro come se fossi di casa, mostro la mia tessera alla porta successiva (molto semplicemente, come voi mostrate i vostri oggetti, solo con la differenza che la gente mi capisce, capisce che cosa voglio) e finalmente mi trovo fra questi libri. Sono fuggito a voi come se fossi morto; siedo e leggo un poeta.

Sapete voi che cos’è un poeta? Verlaine... Nulla? Nessun ricordo? No. Non fate differenza fra quelli che conoscete? Lo so, voi non fate mai differenze. Ma è un altro poeta quello che io leggo, uno che non abita a Parigi. Del tutto diverso. Un poeta che ha una casa tranquilla nei monti. Che ha il suono di una campana nell’aria limpida. Un poeta felice che racconta delle sue finestre, delle vetrine della sua libreria dove si specchia assorta una cara profondità solitaria. Proprio il poeta che avrei voluto diventare: perché egli sa molto delle fanciulle e anch’io avrei saputo molto di loro. Egli sa di fanciulle che sono vissute cent’anni fa; e non fa nulla che siano morte, perché egli sa tutto di loro. E questa è la cosa importante. Egli pronuncia i loro nomi, quei nomi leggeri, scritti a grandi caratteri slanciati, con gli svolazzi di un tempo, e i nomi maturi delle loro amiche piú grandi in cui risuona già un po’ di destino, un po’ di delusione e di morte. Forse in un angolo della sua scrivania di mogano riposano le loro lettere sbiadite, i fogli sciolti dei loro diari in cui sono raccolti compleanni, gite d’estate, genetliaci. O forse in fondo alla sua camera da letto, nel comò panciuto, c’è un cassetto dove sono piegati i loro abiti primaverili; abiti bianchi che si mettevano per la prima volta a Pasqua, abiti di tulle sbuffanti che dovevano servire per un’estate (ma era impossibile aspettare l’estate). Quella è una sorte veramente felice: vivere nelle stanze silenziose di una casa ereditata, in mezzo a cose stabili e tranquille, sentire fuori le prime cinciallegre che si cercano nel giardino verde e luminoso, e lontano l’orologio del villaggio. Stare seduti e vedere una lunga striscia di sole meridiano, e sapere tutto delle ragazze di un tempo, ed essere un poeta. E pensare che anch’io sarei diventato un poeta cosí se avessi potuto abitare qua o là, in una delle tante case di campagna ormai chiuse e di cui nessuno si cura. Avrei adoperato solo una camera (la camera piena di luce, nel solaio). Là sarei vissuto con le vecchie cose, i ritratti di famiglia, i libri. E avrei avuto una poltrona a fiori, e cani, e un robusto bastone per i sentieri pietrosi. E null’altro. Solo un libro legato in cuoio giallo avorio con un vecchio frontespizio a fiori: e avrei scritto in quel libro. Molto avrei scritto, perché avrei avuto molti pensieri e ricordi di molte fanciulle.

Ma è stato altrimenti, Dio sa perché. I miei mobili marciscono in una soffitta dove ho potuto sistemarli, ed io stesso, sí anch’io, mio Dio, non ho un tetto, e mi piove sugli occhi.

Talvolta passo davanti alle bottegucce di Rue de la Seine. Venditori di roba vecchia, piccoli librai antiquari e mercanti di incisioni su rame, tutti con le vetrine piene zeppe. Non entra mai nessuno da loro. All’apparenza non fanno affari. Ma se si guarda dentro stanno sempre seduti e leggono, noncuranti. Non si preoccupano del domani, non si agitano per il successo; hanno un cane che si accuccia davanti a loro, comodamente, o un gatto che fa piú grande il silenzio frusciando contro le file dei libri come per cancellare i titoli dai dorsi.

Ah, se questo bastasse! Certe volte vorrei comprarmi una vetrina cosí piena e rinchiudermi là dentro con un cane, per vent’anni.

Fa bene a dire a voce alta: «Non è accaduto nulla». Ancora una volta: «Non è accaduto nulla». Ma giova?

Che la mia stufa fumi di nuovo e che io sia dovuto uscire non si può dire una disgrazia. Che mi senta stanco e infreddolito, non ha molta importanza. Che abbia passato tutto il giorno a correre su e giú per le strade, è colpa mia. Avrei potuto benissimo rifugiarmi al Louvre. O forse no, non avrei potuto. Là va certa gente che si vuole scaldare. Si siedono sui divani di velluto e i loro piedi stanno uno accanto all’altro sulla griglia dei caloriferi, come grossi scarponi vuoti. È gente straordinariamente umile che è riconoscente se il custode nell’uniforme scura con tanti fregi la tollera. Ma quando entro io, fanno una smorfia. Fanno la solita smorfia e ammiccano un poco. Poi, quando vado su e giú davanti ai quadri, mi fissano con gli occhi, sempre con quei loro occhi torbidi e smorti. Cosí è meglio che non sia andato al Louvre. Sono sempre stato in strada. Sa il cielo in quanti sobborghi sono stato, in quante strade, cimiteri, ponti, gallerie. Non so piú dove ho visto un uomo che spingeva un carretto di verdura. Gridava: Choufleur, choufleur; con un eu stranamente malinconico. Accanto a lui camminava una brutta donna stecchita che di tanto in tanto lo urtava. E a ognuno di quegli urti l’uomo gridava. Talvolta gridava anche da solo ma era inutile e doveva gridare di nuovo, perché si era dinanzi a una casa di compratori. Ho già detto che l’uomo era cieco? No? Ebbene era cieco. Era cieco e gridava. Mentirei dicendo questo solo, sopprimendo il carretto, non ricordando che la parola che quell’uomo gridava era: cavolfiore!

Ma è essenziale questo? E anche se è essenziale, spiega quello che è stato per me quella visione? Ho visto un vecchio che era cieco e gridava. Questo ho visto. Visto.

E si crederà che esistono case sí fatte? No, si dirà che mentisco. Ma questa volta è la verità; non ho lasciato da parte nulla, non ho aggiunto nulla. Del resto, dove avrei potuto trovare altro? Si sa che son povero. È cosa nota. Case, dunque? No, per essere esatti, case che non esistevano piú. Case demolite dal tetto in giú. Quello che restava erano le altre case, le case alte, superstiti. Pareva che fossero anch’esse in pericolo da quando avevano demolito tutto intorno; e un’armatura di lunghe travi incatramate era stata messa obliqua fra il terreno ingombro di macerie e la parete rimasta a nudo. Non so se ho già detto che è quella la parete a cui io penso. Ma è, per cosí dire, non la prima parete delle case rimaste in piedi (come si potrebbe pensare), ma l’ultima delle case di una volta. Si vedeva la parte loro. Si vedevano ai vari piani muri di camere su cui era ancora attaccata la tappezzeria, qua e là gli inserti del pavimento e del soffitto. Fra una stanza e l’altra lungo tutta la parete correva un canale bianco sporco e su quel canale si snodava come un verme, con i nauseabondi contorcimenti di un intestino che digerisce, il tubo aperto e arrugginito delle latrine. Delle condutture dove era passato il gas illuminante erano rimaste tracce grigie e polverose all’orlo dei soffitti che qua e là si curvavano in bizzarre volute e sparivano nel colore delle pareti lasciando buchi tenebrosi. Ma quello che è piú difficile dimenticare sono le pareti stesse. La vita tenace di quelle stanze non si era lasciata distruggere. Era ancora là, aggrappata ai chiodi rimasti sui muri, dritta sugli ultimi resti dei pavimenti, appiattata nei rifugi degli angoli, dove restava ancora un po’ di spazio. Si poteva vederla nei colori che lentamente, da un anno all’altro, cambiavano: il blu diventava un verde pallido, il verde grigio, il giallo un bianco vecchio e gualcito, pieno di muffa. Ma era anche nei luoghi piú freschi che si erano mantenuti dietro gli specchi, i quadri e gli armadi; aveva tracciato sempre piú netti i loro contorni e si era rifugiata in quegli angoli nascosti con la polvere e le tele di ragno che ora apparivano alla luce. Era in ogni striscia logora, in ogni bolla di umidità cresciuta all’orlo inferiore della tappezzeria. Palpitava in ogni brandello strappato, trasudava dalle macchie schifose che si erano formate da lungo tempo. E da quei muri incorniciati nei riquadri delle pareti interne emanava il soffio di quella vita, un soffio tenace, pigro, stagnante, che nessun vento aveva potuto portar via. C’era il respiro di mezzogiorno e delle malattie, l’aria guasta, il fumo vecchio di anni, il sudore delle ascelle che fa pesanti i vestiti, l’alito delle bocche guaste, l’afrore dei piedi in fermento. C’era l’acredine delle urine, il bruciore della fuliggine, il grigio effluvio delle patate bollite, il puzzo greve e untuoso dello strutto irrancidito. L’odore lento e dolce dei poppanti non lavati, il soffio d’angoscia dei bambini che vanno a scuola, l’esalazione dai letti dei ragazzi nella pubertà. E molto si era aggiunto che era venuto dal basso, evaporato dal baratro della strada; e molto era venuto dall’alto con la pioggia che non è mai pura sulle grandi città. Molto avevano portato i deboli venti, i venti ormai cittadini che soffiano sempre nelle stesse strade, e molto era ancora venuto di cui non si può sapere l’origine. Ho detto che tutti i muri erano demoliti meno l’ultimo? È sempre di quel muro che parlo. Si dirà che vi ho indugiato innanzi; ma io giuro che comincio a correre appena lo riconosco. È questo il terribile, che io lo riconosca? Qui riconosco sempre tutto; e per questo entra subito dentro di me, sono la sua casa. Mi sentivo un po’ stanco, dopo, oserei dire sfinito; e per questo fu troppo vedere che anche lui mi aspettava. Mi aspettava nella piccola cremeria dove andavo a mangiare due uova al burro; avevo fame, non avevo mangiato in tutto il giorno. Ma anche cosí non riuscii a prendere un boccone; prima che le uova fossero pronte, mi sentii di nuovo trascinato in strada dove mi venne incontro il fitto gorgo degli uomini. Perché era carnevale, e sera, e tutti erano liberi, giravano e si spingevano a vicenda. E i loro visi erano pieni di luce che veniva dai baracconi e il riso colava da quelle bocche come marcio dalle ferite aperte. Ridevano sempre piú forte, e si urtavano; io cercavo di andare avanti con una impazienza crescente. Mi impigliai nello scialle di una donna e me lo tirai dietro; qualcuno mi fermò ridendo: sentii che anch’io dovevo ridere e che non potevo. Da un’altra parte mi gettarono negli occhi una manciata di coriandoli e fu come un colpo di frusta. Agli angoli la gente era piú fitta, un uomo addosso all’altro, e non potevano fare altro movimento che un leggero dondolio come se si accoppiassero da fermi. Ma benché essi fossero immobili e io corressi come un pazzo all’estremità del marciapiede, dove restava un piccolo intervallo nella calca, mi pareva che fossero loro a correre e che io stessi fermo. Perché non cambiava nulla; mi guardavo intorno e vedevo sempre le stesse case da una parte e i baracconi dall’altra. E forse tutto era fermo e c’era solo una vertigine dentro di noi per cui tutto sembrava girare. Non avevo tempo di riflettere; ero grondante di sudore e sentivo agitarsi dentro di me uno spasimo estenuante, come se il sangue portasse con sé qualcosa di troppo grosso che mi dilatava le vene. Sentii che mi mancava l’aria e che ormai respiravo solo i residui altrui: i polmoni mi si fermavano.

Ora è finita; ho superata la crisi. Sono seduto in camera mia accanto al lume; fa solo un po’ freddo perché non ho il coraggio di provare la stufa: se si mettesse a fumare e fossi costretto a uscire di nuovo? Sto seduto e rifletto: se non fossi cosí povero affitterei un’altra stanza, una stanza con dei mobili non tanto consumati, non cosí piena della presenza dei vecchi inquilini. In principio mi era veramente difficile posare la testa su questa spalliera; c’è una zona grigio-umida nel verde della stoffa, che sembra fatta per tutte le teste. Per molto tempo ho usato la precauzione di stendere un fazzoletto sotto i capelli; ma ora sono troppo stanco: trovo che va bene anche cosí e che il piccolo incavo è fatto proprio per la mia testa, su misura.