Primo maggio/Parte settima/I

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Parte settima - I

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Parte settima Parte settima - II

Due giorni dopo questa scena, verso sera, la moglie d’Alberto se ne stava nella sala da desinare, seduta sul sofà, nello stesso posto dove aveva ricevuto la dichiarazione del Geri, pensierosa, tenendo fra le ginocchia la testa del ragazzo, triste egli pure, seduto ai suoi piedi sopra un panchettino. Mai aveva sentito la sua solitudine, come dopo quella grossolana audace offesa fatta alla sua dignità, per il fatto che era sola; era la prima volta che si sentiva indifesa, e indifeso, in casa sua, il nome di suo marito. La mattina era stata da suo padre, e n’era uscita più costernata che entrando, avendolo trovato ancora farneticante dell’offesa come il primo dì, sdegnato anche più per il furibondo articolo d’Alberto, risoluto - aveva inteso -, a rinnegare anche lei, se avesse fatto un passo verso quell’"alienato", che solo avrebbe riconosciuto ancora come genero, - ma senza vederlo, mai più, se si fosse ripresentato, - com’egli credeva - ravveduto avvilito come un fanciullo, a chieder pace con le più umili parole. Era poi stato da lei la mattina, tornando dall’albergo, il padre Bianchini, turbatissimo d’aver visto il figliuolo tetro e chiuso, per un’ora, salutarlo, quando s’era congedato, con una espansione d’affetto triste, come se non dovesse rivederlo più, - e, detto questo con le lacrime agli occhi, aveva per la prima volta inveito a parole aperte contro il padre di Giulia, chiamandolo causa di tutto, e ripetendo le minaccie dell’articolo alla borghesia, e aggiungendovi di suo delle parole di fuoco, che non aveva mai intese dalla sua bocca. Addolorata e scoraggiata, era andata a cercare il manoscritto della sua sola amica della giovinezza, - le memorie della Lariani - e al racconto di quei dolori così eroicamente sopportati, al soffio di quell’anima buona e generosa, che le aveva fatto rivivere in un’ora la sua vita di fanciulla, - piangendo, baciando quell’unica memoria della martire - sempre ricordata ed amata - aveva ripreso un po’ di coraggio. Ma la notte aveva ricondotto la tristezza, e allora aveva mandato a chiamare Ernesta, che, per distrarla, come da alcuni giorni faceva, le aveva letto con voce appassionata alcune pagine dei libri d’Alberto, - segnate da lei - quelle che s’immaginava dovessero farle più impressione, aggiungendo commenti suoi, con un’esaltazione che essa le invidiava, senza por mente alla lettura... La mamma l’aveva mandata a richiamare bruscamente.

Ah no, i libri non servivano. Quel più che le entrava nell’anima di quelle idee, non v’entrava che con l’immagine d’Alberto, di quella testa bionda, ergentesi davanti alla immensa moltitudine nera, che empiva l’orizzonte, e che, rischiarata da lui, le appariva sempre più distinta, con millioni d’occhi fissi sopra di lei, in espressione di rimprovero, di preghiera, di dolore, d’attesa. E quel viso che la illuminava, le si ripresentava in tutte le scene in cui l’aveva visto esprimere più luminosamente quell’idea, come se fosse l’espressione stessa di quell’idea. Si ricordava la prima sera di quella gran discussione con il suocero, quando solo, acceso, come circondato d’un’aureola, teneva testa a tutti, a tutti lanciava una risposta vittoriosa, fremendo, come il ritratto stesso della generosità e del coraggio! Se lo ricordava la sera in cui aveva detto quelle parole al ragazzo, e quelle parole le ritornavano in mente, piene d’un affetto più dolce e più severo insieme che non gli avesse mai mostrato né in carezze né in rimproveri, e notava ora che, dopo quell’idea, anche il suo amor paterno s’era innalzato, chiudendo in ogni parola un intento educativo, mirante sempre all’avvenire, contrario sempre ad ogni egoismo e vanità, tanto che nel figliuolo - lo vedeva bene - era cresciuto l’amor del padre, e qualche cosa di più raccolto e di più grave s’era formato nella sua indole. Ripensava le parole che aveva detto a sua madre, quelle parole che avevan turbato la sua coscienza religiosa, e turbavan lei pure. Essa si figurava l’espressione dolce, ardente del suo viso, mentre aveva baciato la croce. Ahimé, quella croce l’aveva baciata sul petto d’un altro, non sul suo!

In quel punto il bambino l’interruppe dicendo con malinconia, senz’alzare il capo le parole che ogni giorno le ripeteva, sul far della notte: - Mamma, andiamo a trovar papà.

- Sì -, rispose, - sì, bambino, ci andremo. E seguitò il corso dei suoi pensieri. Oh in quel corso di idee e d’affetti, egli poteva vivere senza di lei. E forse, un giorno, avrebbe amato un’altra, perché molte altre l’avrebbero amato. L’idea della Zara le balenò. Ma no, era impossibile! Egli poteva traviare, ma non scendere a quel punto! Ma ne avrebbe trovata una degna, anche con quelle idee. Non le aveva forse sua cognata, così gentile e onesta? E lei stessa non v’inclinava? E non le avrebbe potute trasfondere lui in un’altra? E quell’idea la torturava. E pensava che sarebbero stati così felici se essa avesse capito e sentito come lui, a ragionare insieme, a leggere insieme egli istruendo lei - lei moderandolo - uniti in quel largo amore di tutti, in quella grande speranza, privandosi di molte cose per far del bene, considerati come un’anima sola dalle persone umili che sarebbero venute a chieder consigli, aiuto, benevolenza. Oh! essa non avrebbe più accolto male i lavoratori! Essa li vedeva sotto un nuovo aspetto quegli uomini rozzi a cui s’era consacrato, che erano ora i soli suoi amici e difensori, che lo amavano, e che egli amava. E chi non amava, egli così buono? I lavoratori, i poveri, i bambini, gli sfortunati di tutto il mondo - tutti quelli che n’avevan bisogno... fuorché lei - e non senza ragione. E con infinito dolore se lo rappresentava solo in quella camera d’albergo, pensava con affetto a dei millioni di sconosciuti, e senz’affetto a lei sola! - Fu di nuovo interrotta:

- Mamma, andiamo a trovar papà.

- Sì, bambino - ci andremo - rispose più vivamente. E continuò i suoi pensieri. Lo vedeva ora solo, senza comodi, senza distrazioni, in quella piccola camera d’albergo - misera, perché egli voleva vivere come un povero - e quella camera glie ne ricordava un’altra, - a Genova - dove avevan passato la notte nuziale. Oh come si ricordava! Come egli l’amava allora! Essa risentì nell’aria il singhiozzo di gioia, con cui, appena rimasti soli, gli aveva gettato il viso sul petto, un viso che mandava dei raggi e da cui pareva che uscisse l’anima a ogni parola! Ah! non era possibile che non l’amasse più! E pensò che l’avrebbe riamata se fosse corsa da lui, mutata. E si figurò la scena quando fosse andata colle braccia aperte, a dirgli sulla bocca: - Alberto, son qui, ho pensato, ho letto, ho capito; vengo con te; ti riporto il mio cuore, la mia ragione e la mia vita. Io non t’avevo compreso, ma t’amavo; ora ti comprendo, e t’adoro! Sono una nuova Giulia, degna di te, ti do per la prima volta e per sempre tutta l’anima mia! - Oh essa avrebbe risentito allora quel singhiozzo di gioia, e rivisto raggiare in quel viso dodici anni d’amore! Sarebbe stato suo, come quella notte!

- Mamma - riprese il bambino - andiamo a trovar papà.

Essa scattò in piedi - Sì, bambino - disse - andiamo!...

Ma un pensiero improvviso l’arrestò. E suo padre?... Sarebbe stata una rottura irreparabile!

E un altro pensiero sopravvenne ripugnante. Dio mio! Nulla è impossibile!... Se trovassi la Maria Zara!

E stette, ansando, in un dubbio angoscioso, col braccio per aria teso verso il campanello per chiamar la cameriera.

In quel punto sonò il campanello di casa, e un momento dopo comparve la cameriera con una lettera.

L’aperse. Lesse tre righe. Guardò la firma: - Cambiasi. Alberto è ferito. Venga.

Gettò un grido: - Ferito!

Il bambino balzò in piedi chiedendo: - Chi? Chi ferito?

Essa non rispose, corse nella sua camera, si mise il cappellino d’un colpo, infilò il cappotto in un attimo, prese il cappello di Giulio, rientrò nella camera, afferrò per mano il ragazzo, e, ansando, stravolta, senza fare una parola, si lanciò all’uscio di casa, e si precipitò per le scale.