Quattro Milioni/VIII

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VIII

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on Gonzalo, che andava spiccio nelle sue cose, non mise tempo in mezzo e volle saper subito tutto ciò che concerneva il processo della bella prigioniera.

Scrisse per ciò un biglietto al procuratore del Re commendatore Virginio, chiedendogli un’udienza, certo ch’egli avrebbe voluto dargli tutti gli schiarimenti necessari.

Il commendatore era un uomo, che non avrebbe mancato al proprio dovere nemmeno se il personaggio di cui egli era procuratore glielo avesse imposto con decreto speciale.

Rispose dunque al grande di Spagna, che fino alle quattro doveva star in ufficio, e che [p. 138 modifica] poi si sarebbe recato egli stesso a casa sua a ricevere i suoi ordini.

Puntuale come un negoziante inglese, alle quattro, il procuratore del re si faceva annunciare dal servo di sua eccellenza, ed era ricevuto da don Gonzalo coi segni della più alta considerazione.

Il discorso fra un grande di Spagna - in procinto di innamorarsi, ma che colla dissimulazione del diplomatico sa nascondere gli intimi sentimenti, - ed un procuratore del Re ligio al proprio dovere, e chiuso come un gesuita, non è così gaio da invogliarmi a riferirlo per disteso.

Del resto non fu nè troppo lungo, nè troppo involuto. L’amore aveva già ingrossate agli occhi di don Gonzalo le difficoltà del rilascio di Ida a piede libero. Il rappresentante della legge non mise la benchè minima difficoltà a questa domanda, e spiegò allo Spagnuolo come qualmente colla dovuta cauzione la signora Ida Evanieff sarebbe stata subito rilasciata.

Don Gonzalo allora passò a discorrere delle probabilità che la fanciulla avesse commessa quell’imperdonabile imprudenza.

— Eppure - soggiunse, buttando là le parole con indifferenza - la impressione che io ne [p. 139 modifica] ebbi non fu cattiva. Anzi debbo dire... fu buona.

— Eh le donne! - fece il procuratore del Re - le donne sanno fingere come noi non possiamo immaginare.

— Ma e il duca, che ne dice?

— Quale duca? - domandò prudentemente il procuratore del Re, per sapere se don Gonzalo alludesse al duca padre o al duca figlio.

— Ma il nostro Raimondo a cui ella avrebbe voluto appioppare il rampollo?

— Ah! - fece il commendatore Virginio se debbo dirle la verità, il duca, che è tutt’altro che un uomo ordinario, sarebbe il solo punto nero del mio processo.

— Ahi ahi! - sciamò lo Spagnuolo - un punto nero?

— Voglio dire che egli ha troppo orgoglio e troppa paura del ridicolo, per confessare di essere stato ingannato; cosicchè invece di ottenere da lui, se non la prova del reato, un indizio a carico della imputata, temo di riceverne un grande indizio in favore.

— Tanto meglio - pensò don Gonzalo. Ma invece disse:

— Come mai?

— Lui non fu ancora interrogato; ma se sono vere le mie informazioni, il duca Delpardo [p. 140 modifica] sarebbe il primo difensore della sua amante e sarebbe pronto a giurare che il piccolo Vittorio è veramente suo figlio.

— Caspita! Questo complica la cosa! - osservò lo Spagnuolo.

— La giustizia però, come ella può pensare, signor marchese, non si lascia fuorviare da queste inezie. Il duca pensi e dica ciò che vuole, io sono troppo sicuro del fatto mio per dare la benchè minima importanza alla deposizione interessata dell’amante.

— Egli l’ama molto?

— Pare. Soltanto deve essere stato scosso assai dalla scoperta del delitto.

— E lei? - domandò colla più diplomatica disinvoltura lo Spagnuolo.

— Oh lei!... sa bene... lei è un’avventuriera... una di quelle spostate che non possono avere nè legge, nè fede, nè cuore, nè sentimenti. Lo teneva, il duca, perchè egli è molto ricco, quantunque figlio di famiglia, e perchè la liberò dalla cattiva posizione in cui si trovava al suo arrivo.

— Quando io la vidi per caso e le parlai al Cellulare - disse lo Spagnuolo - ella mi confessò, senza che io glielo chiedessi, di amare assai il duca.

Questa era una bugia diplomatica, un [p. 141 modifica] saltafosso, come si direbbe nella città della pànera e della Galleria.

— Naturalmente a lei conviene di lasciar creder questo - ripigliò il procuratore del Re - Ma di lei si raccontano certi aneddoti, che dimostrano tutt’il contrario.

— Oh la mi racconti, la mi racconti - disse sorridendo don Gonzalo - Io sono ghiotto di queste storielle.

— Si dice nientemeno che ella abbia fatto questo trucco al suo signor duca, - rispose il commendator Virginio, accomodandosi nel suo seggiolone come uomo che si dispone a parlare lungamente. - Il fatto io lo tengo da una sua cameriera, la quale non aveva alcun interesse di contarmi una fiaba. Quando il duca cominciò a farle la corte, ella si mostro molto restìa per qualche tempo e non voleva saperne nè di cedere, nè di accettare regali o danaro.

Allora essa viveva quasi poveramente in tre stanzette a terzo piano, e quantunque il duca, che andava spesso a trovarla, la scongiurasse di lasciarsi montare un appartamento degno di lei, essa rifiutava, dicendo di non voler diventare una mantenuta e di averne abbastanza di certi trecento franchi al mese che un suo ex amante pare le mandasse da Parigi. Un giorno, però, ella montò una piccola macchina [p. 142 modifica] per guadagnare in un colpo una sommetta di danaro, pur restando sempre in faccia al duca la fanciulla più onesta e più disinteressata, ch’ella voleva darsi a credere. Ella si procurò un certo numero di que’ biglietti di complimento, che contraffanno passabilmente i biglietti da mille, e quando la cameriera le domandò che cosa volesse farne, ella le avrebbe risposto queste precise parole: - Vedrai; se il colpetto riesce, siamo a posto. - Poi andò allo scrittoio e su un biglietto di carta glacée, sormontato da una bella corona di marchese, fece scrivere alla cameriera queste parole:

«Ieri sera la fortuna mi arrise. Vorrei mettere le trentamila lire guadagnate ai vostri piedi. Ditemi a che ora debbo portarvele.»

n biglietto fu firmato con un nome sconosciuto. La lettera arrivò mentre il duca stava nel suo gabinetto. Essa l’aperse, la lesse, sospirò e disse a mezza voce: - Ma! Pur troppo! - E passò il biglietto al duca. La cameriera stava presente. Poco prima, entrando nella stanza colla lettera, essa aveva veduto il duca ai piedi della sua padrona, supplicarla a volergli un po’ di bene. E la rimproverava dolcemente, perchè ella non volesse accettar nulla da lui, che avrebbe voluto darle tutte le sue ricchezze presenti e future. Fin d’allora la signorina [p. 143 modifica] tentava di farsi credere una rosière, forse per farsi sposare. E fatto è che ella teneva pronti in tasca i biglietti falsi da mille, che, come lei sa, in distanza, a occhio e croce, si scambiano facilmente coi biglietti veri.

n duca lesse dunque il biglietto che la signorina si era scritto da sè stessa, e disse:

— Capirete, Ida, che adesso io sono in obbligo perfetto di compensarvi del sacrificio che voi mi volete fare. Il mio dovere di gentiluomo in questo caso è preciso... Se no, sarei io il compromesso.

E così dicendo se ne andò in fretta, senza ch’ella dicesse parola per trattenerlo.

Tornò di lì a venti minuti, e depose una busta sul piano del franklin dove la Ida stava scaldandosi i piedi. Questa la prese, vi guardò dentro, ne estrasse un fascette di biglietti di banca, mandò una specie di grido, finse quasi di svenire sulla sedia e mise la mano in tasca per levar il fazzoletto e per portarlo agli occhi.

Il duca era lì mezzo intontito e non sapeva che dire. Allora lei, senza aggiungere parola, e come convulsa, allungò la mano verso il duca in atto di restituirgli i suoi danari. Questi, da gentiluomo qual’è, a cui sarebbe parso impossibile rimettersi in tasca una cosa donana, fece istintivamente un moto di rifiuto; e lei, senza [p. 144 modifica] dir nè uno nè due, gettò il fascette dei biglietti sulle brace ardenti del franklin, prese le molle in fretta, ne spiegazzò qualcuno nelle fiamme, perchè il duca, vedendo e non vedendo, credesse proprio che fossero i suoi biglietti da mille, mentre non erano che quelli della banca dei complimenti. Delpardo era rimasto impassibile dinanzi alla distruzione delle sue trentamila lire; ma guardando quella donna che si mestava così eroicamente disinteressata, gli erano venuti i lucciconi e aveva sclamato: - Ida, voi siete degna di portar il mio nome e lo stemma de’ miei antenati, e io vi amo più della mia vita. - Poi, sedutosi accanto a lei, aggiunse:

Tu sai, Ida, che io sono figlio di famiglia, e che nè mio padre, nè mia madre, non mi darebbero il consenso... ma...

— Ah perdono, perdono! - interruppe lo Spagnuolo - io sono pronto a credere a tutto il resto, ma questa parte ha un piccolo difetto...

— Cioè?

Quello di essere impossibile più ancora che inverosimile.

— E perchè?

— Perchè il duca è ammogliato.

— Oh diamine! - sclamò il procuratore del Re, che non ne sapeva nulla. [p. 145 modifica]

— Lo so di certo. È ammogliato e separato da sua moglie che scappò da Bologna o da Modena che sia, con un cantante francese, saranno ora quattro anni.

— Quand’è così, la cameriera mi avrà ricamata la storiella - disse il procuratore del Re. - Il fatto è che dopo quel discorso del duca, Ida gli saltò al collo e gli disse: - Ebbene, io ti credo, Raimondo, e la tua parola mi basta. Io sono tua, fa di me quello che vuoi. - E da quel giorno sono diventati amanti.

Don Gonzalo capì di sprecar il fiato a persuadere il procuratore del Re della inverosimiglianza della storiella, e non volendo dargli sospetti, ricondusse il discorso alle teorie giuridiche e non parlò più della Ida.

Egli naturalmente aveva pregato il magistrato di concedergli quell’udienza, non già per parlare d’una cocotte qualunque — che diamine gli poteva mai importare a lui? — ma per avere lumi e consigli e informazioni intorno ai suoi studi legislativi e sul carcere penitenziario, che egli aveva visitato quella stessa mattina, e dove aveva trovato per caso quella sconosciuta, della quale per pura cavalleria aveva promesso di occuparsi per ottenerle il piede libero. [p. 146 modifica]

Appena il Virginio se ne fu andato, don Gonzalo risolse di abboccarsi col duca Raimondo, per avere da lui stesso un dato che lo rassicurasse interamente circa la storiella dei biglietti falsi.

La cosa era piuttosto facile. Egli conosceva il duca, perchè gli era stato presentato al club; anzi con lui faceva volentieri la partita alle ombre, giuocò molto spagnuolo e da pochi conosciuto in Italia, perchè Raimondo lo giuocava perfettamente ed era fortunatissimo tanto da vincere codiglio ogni tre sere.

Nè quella sera, però, nè la sera appresso il duca si lasciò vedere al club.

La impazienza dello Spagnuolo era straordinaria: ma egli la sapeva nascondere con molta abilità diplomatica, Finalmente, la terza sera, Raimondo comparve di nuovo. Era la prima volta dopo l’arresto della Ida. Nessuno gli fiatò della sua disgrazia. I giornali non avevano tirato in ballo lui, sicchè, tranne gli amici comuni, che andavano in casa della Ida e che non [p. 147 modifica] avevano aspettato fino a quella sera a condolersi, gli altri non si credettero nè in diritto nè in obbligo di movergliene parola, Raimondo andava a trovare la Ida quasi tutti i giorni al Cellulare. Essa aveva parlato a Raimondo della visita di sua eccellenza il grande di Spagna, e il duca si trovò in dovere, vedendolo, di ringraziarlo, non tanto della visita in sè stessa, quanto delle parole molto cortesi ch’egli le aveva indirizzate.

Gonzalo non poteva sperar di più.

— Ma sapete, duca - diss’egli - che io ammiro la vostra moderazione?

— Perchè?

— Perchè il procuratore stesso mi disse che voi sareste stato il testimonio a maggior difesa.

— Eh, caro marchese - disse Raimondo colla sua solita compostezza, che a Firenze chiamerebbero fiaccona - le sono cose che non si vedono che nel felice regno d’Italia, dopo che è cominciata la gran riparazione!

— Io - notò don Gonzalo - come studioso delle legislazioni comparate e delle procedure penali, ero appunto curiosissimo di vedere che diamine potesse dire il signor procuratore del re, quando voi, pel primo, voi che dovreste essere il maggior danneggiato, gli aveste fatto [p. 148 modifica] capire d’essere certo, certissimo, che la Ida fu incinta, e che il figlio è proprio nato da lei e che l’avete riconosciuto per vostro, perchè non potrebbe essere altro che vostro.

— Che volete ch’egli abbia pensato, caro marchese? È facile imaginarselo. Il giudice istruttore finse di ascoltarmi con grandissima attenzione e d’essere colpito vivamente dalla mia deposizione. Eppure credete voi ch’egli sia per dichiarare di non farsi luogo a procedere contro la Ida? Neanche per sogno. La logica dei giudici istruttori e dei procuratori è molto più fina di quella dei semplici mortali. Io ho veduto negli occhi di quei magistrati due sentimenti opposti fra loro, ma entrambi contrari all’idea di tener buona la mia testimonianza. Il giudice istruttore in cuor suo mi faceva l’onore di tenermi per un gran baggeo, e il signor sostituto procuratore, più cortese ancora, mi faceva l’onore di tenermi per un fior di bugiardo. Ecco tutto!

— Ma non pensano quei cari signori che voi ripeterete la deposizione sotto il suggello del giuramento?

— Che importa? Allora il signor sostituto procuratore, che oggi mi crede bugiardo, capirà che non lo posso essere e si unirà al giudice istruttore per credermi un gran [p. 149 modifica] baggeo, a cui si possano far di quelle gherminelle sotto il naso. Ecco di nuovo tutto!

— Ah io vi giuro, duca, che se mi capitasse una cosa simile darei fuoco al tribunale!

— E notate che la mia deposizione fu tale, che la ipotesi del baggeo non regge; non è possibile ammetterla neppur da lontano.

— Lo credo. Per ritener baggeo un amante od un marito è necessario che le circostanze siano tali da render possibile l’inganno.

— Ma nel mio caso l’inganno era impossibile, per questa semplicissima ragione, che avrebbe dovuto durare pel corso di nove mesi, nei quali, giorno per giorno, o per meglio dire notte per notte, io avrei potuto constatarlo. Quando un uomo dice: io ho passati accanto a quella donna i nove mesi della sua gravidanza, ho assistito allo sviluppo, al crescere del neonato nelle viscere materne, l’ho sentito più e più volte muoversi nel grembo di lei, non fui precisamente presente al parto per la ragione che certi pudori di donna delicata vanno rispettati ma ho udito nella stanza vicina i gridi strazianti della partoriente e posso giurare che nessuna donna sarebbe capace di imitarli se non fossero strappati dallo sforzo immane; quando un testimonio dice questo e non gli si bada, credete pure, caro marchese, gatta ci cova... [p. 150 modifica]

— Oppure non resta che la seconda ipotesi, che cioè voi, gentiluomo, vogliate salvar quella donna e ingannar la giustizia.

— E allora, caro marchese, io vi faccio osservare due cose: la prima è che così pensando quel signor sostituto procuratore del re e quel signor giudice istruttore sono due mascalzoni, degni di schiaffi, giacchè io non posso essere sospettato di tener bordone ad una mariuola, nel caso che la sospettassi tale: la seconda è che quando io al dibattimento e sotto giuramento ripeterò la mia testimonianza per salvare quella donna, mentendo alla giustizia, il signor procuratore del re sarà obbligato di farmi arrestare come testimonio falso, e se non lo farà sarà segno che lui stesso è un matricolato birbante.

— La signorina Ida - domandò lo Spagnolo non vi diede mai nessun indizio per crederla una donna avida e interessata?

— No davvero.

— Io so che il procuratore del re è informato, anzi, che la signorina vi si è mostrata molto diversa. E se è vero un certo aneddoto che si narra di lei, anche da questo lato essa non dovrebbe essere scevra di sospetti.

— Quale aneddoto, di grazia? - domandò il duca. [p. 151 modifica]

— Si pretende che un giorno ella abbia gettati sul fuoco certi venti o trentamila franchi, che voi volevate farle tenere per compensarla di una certa offerta di altrettante, pervenutale in lettera ch’ella vi avrebbe dato a leggere.

Il duca guardò in viso don Gonzalo come per vedere s’egli scherzasse o parlasse sul serio. E ripetè:

— Trentamila franchi miei, gettati sul fuoco?

— Sicuro, perchè voi naturalmente avete rifiutato di riceverli indietro.

— Ah, quest’è nuova! - sclamò il duca ridendo - Certo che se Ida avesse fatto questo... non saprei!.. Come disinteresse, è sublime... ma come fatto, è abbastanza idiota! Trentamila franchi si possono impiegar meglio in beneficenza, volendo mostrarsi disinteressati, e non si buttano sul fuoco.

— È dunque anche questa una fiaba?

— L’Ida non può aver gettati sul fuoco trentamila franchi per due o tre semplicissime ragioni; primo, perchè io non le ho mai offerto nè dato in un colpo solo tanti biglietti di banca; secondo, perchè ella non ha mai ricevuto in mia presenza nessuna lettera in cui le venissero offerti trenta nè venti nè dieci mila franchi; in terzo luogo, perchè la Ida non è pazza come vorrebbero farla credere. [p. 152 modifica]

— Non ne dubitavo! - disse don Gonzalo, la storiella era così sciocca!

E pensò fra sè:

«Se tutti i procuratori del re di questa bella Italia sono della forza del commendatore Virginio, si sta assai meglio in Ispagna!»

Poi ripigliò:

— Come quegli ignoranti dei fatti, che vanno dicendo aver ella fatto mari e monti per farsi sposare da voi!

— Io sono ammogliato - disse il duca - e la Ida lo sa perfettamente.

— Lo so. Dicevo appunto ch’ella è vittima della calunnia.

— E d’un qualche tenebroso intrigo - soggiunse il duca.

— Mi imagino che voi, duca, sarete ansioso di scoprirlo.

— Che volete, caro marchese! - sclamò Raimondo Delpardo passando la destra sulla fronte e alzandosi - Sarà meglio che non ci pensiamo, per ora. Vogliamo fare una piccola partita di ombra?

— Volentieri.

E andarono a sedersi al tavolino verde.