Questioni Pompeiane/Come fu interrata Pompei

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Topografia del terreno, ove fu Pompei Escavazioni di tempi diversi in Pompei

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Come fu interrata Pompei.


La narrazione del nuovo incendio di questo Vulcano e le circostanze dell’interrimento di quelle città, che erano poste attorno alle sue radici dalla parte di mezzo giorno, e di ponente, sono note a tutti i lettori delle due epistole, la decima sesta, e la vigesima, che Plinio scrive a Tacito (libro sesto). Contro di una testimonianza così autentica, che viene inoltre corroborata da tutti gli scrittori, che parlano di questo avvenimento, levossi già Carmine Lippi, ed in un libro che divulgò nel 1816 col titolo «fu il fuoco o l’acqua che sotterrò Pompei ed Ercolano» sostenne la scoperta, che Pompei era stata sepolta e sotterrata da un’alluvione.

[p. 59 modifica]La condanna dell’Accademia, che lo aveva sentito disputare su tale obietto per sei anni, non tolse, che la opinione di Lippi avesse seguaci anche non volgari. Ma se le ragioni del Lippi e de’ suoi aderenti sono quelle, che allega il ch. sig. prof. Scacchi in una dissertazioncella inserita già dall’Avellino al 1843 nel sua Bullettino Archeologico p. 42. segg., io stupisco col sig. professore e della durata, e del seguito; stupisco altresì, che senza nuove ragioni vi abbia ancora chi tenga col Lippi.

Perocché senza essere né gran geologo, né gran fisico, ognuno sa distinguere i terreni di alluvione da uno strato di lapillo, nella composizione del quale non entra affatto alcuno di quegli elementi, che sono altrimenti indispensabili alla natura degli strati alluvionali. Inoltre per qual legge il torrente impetuoso, che si finge calato dal Vesuvio, sarebbe salito sulla collina, ove sedeva Pompei, portando avanti a se la materia che occorreva a tale effetto, senza dilatarsi, ed empire i bassi fondi pei quali necessariamente dovea passare? (Veggasi ciò che osserva il Rosini Diss. Isag. p. 71 in fine).

Tutti sanno distinguere i depositi delle correnti rapide da quelli, che vengon prodotti dal corso tranquillo; questi sono sempre orizzontali, per lo contrario i primi sogliono avere una struttura di accumoli successivi a maniera di scarpa, originati da rughe trasversali che si van facendo sui fondi, per gli ostacoli che oppongono i materiali diversi, che trasporta seco la corrente. La doppia stratificazione di lapillo, e di [p. 60 modifica]cenere addosso alle mura di Pompei, è in posizione assai obliqua, ed a seconda dell’andamento della collina sottoposta: onde si domanda, come un’alluvione può recar seco queste due materie, depositandole l’una sopra dell’altra senza confonderle, ed impastarle in una sola massa fangosa; nella quale torbiera ogni ragione dimostra, che le pomici avrebbero dovuto prendere il posto superiore come disgregate, e galleggianti, sapendosi, che anche i sassi di gran mole sono sospesi sui torrenti fangosi. Dipoi, niuna corrente può produrre quel grado d’inclinazione che hanno i due strati: inoltre, la giacitura dei piani inclinati supporrebbe la valle, che passa tra mezzo il Vesuvio, e la collinetta di Pompei, sott’acqua, e le ceneri ed il lapillo non più provenienti dal Vesuvio, ma invece dalla cima della collinetta pompeiana; nel qual unico caso le materie che si precipitano a piedi dei colli tagliati a picco e percossi dalle acque sogliono pigliare una superficie inclinata, sebbene con base assai larga.

Gli avversarii invece suppongono, che un torrente rovinosamente calando dal Vesuvio possa passare sul piano o valletta, che giace tra le radici del monte, e la collinetta ove è Pompei; che possa salire detta collinetta trasportando seco quell’enorme materiale; che quivi respinta la corrrente impetuosa dall’ostacolo delle mura faccia il suo deposito nel senso inclinato della collina, e prima di lapillo, poi di cenere sopra di esso; mentre il pelo superiore dell’acqua con essi i lapilli vincendo l’altezza della muraglia entra ad inondar Pompei, e sepellirlo nel lapillo che porta seco; [p. 61 modifica] supposizioni come ognuno vede assai strane e prodigiose, siccome tutte affatto contrarie alle leggi le più certe, ed immutabili di fisica, di geologia, e di idraulica, e con tanta evidenza, che non fa luogo di spendervi più tempo attorno.

Adunque venendo il quella vece a dimostrare, come possa essere accaduto tutto ciò, che pur vediamo, fa piacere, che le mie esperienze si abbiano nel racconto di Plinio una scorta, e dirò di più, una storica spiegazione. Tutte le piogge cadono verticalmente, e solo si obliquano dalla forza dei venti: non sarebbe quindi da cercare nè lapilli nè cenere, nè scorie fuori del perimetro, a che può naturalmente distendersi perdendo la forza d’impulso quel materiale, che dal cratere venne spinto in aria in forma di colonna. Nubes oriebatur, dice Plinio, cujus similitudinem et formam non alia magis arbor, quam pinus expresserit. Nam longissimo velut trunco elata in altum, quibusdam ramis diffundebatur; credo quia recenti spiritu evecta, deinde senescente eo destituta, aut etiam pondere suo victa, in latitudinem evanescebat (ep. XVI). Or nella spaventosa eruzione del 79 spirava un vento gagliardissimo, siccome riferisce Plinio, e il più opportuno a chi da Miseno faceva vela incontro a quella parte del nostro cratere, ove un tempo fu Stabia, ora è Castellamare, contrario poi a chi voleva tenere un cammino opposto: (Pomponius) sarcinas contulerat in naves certus fugae, si contrarius ventus resedisset, quo tunc avunculus meus secundissimo (erat) invectus (l. c.)1. [p. 62 modifica] Perlocchè quel primo giorno la normale direzione delle materie eruttate era sopra Pompei e Stabia, e sopra il piccolo seno di mare, luoghi tutti posti a mezzodì del monte Vesuvio.

Le prime materie sollevate in alto dalla esplosione del Vulcano furono senza dubbio le pomici; perocchè queste come tutte le materie pomicee e scoriacee esistevano di già sul cratere, siccome prodotto di fusioni molto anteriori, e facilmente sottomarine, operate dal fuoco. Così di fatti il primo strato che può riferirsi a questa eruzione è composto tutto di pomici, di piccoli frammenti di calcarea, di ciottoli trachitici, e di conglobati di materie terrose, e scoriacee. Questi immensi ammassi sospinti violentemente in alto, e dal vento in gran parte diretti verso le roccie opposte, ove era Stabia, non altrimenti che sogliono le grandini, e le nevi, su quei fianchi e fra quelle spaccature si elevarono ad un altezza smisurata di oltre a quaranta piedi; di mano in mano cadendo sopra Stabia, e Pompei vi crebbero in modo da accecare le uscite dalle stanze negli atrii: Sed area ex qua diaeta adibatur ita iam cinere mixtisque pumicibus oppleta surrexerat, ut si longior in cubiculo mora esset, exitus negaretur (Plin. L. c.). Sub dio rursus, quamquam levium exesorumque pumicum casus metuebatur, cervicalia capitibus imposita linteis constringunt; id munimentum adversus decidentia fuit. Le mura di Pompei rivolte al Vesuvio, e tutto quel pendio di collina veggonsi in prima coperte di uno strato obliquo di pomici, portate là a rompere loro contro dalla forza [p. 63 modifica] del vento; e però dall’andamento del luogo hanno preso questa inclinazione.

Alquanto più tardi e dopo levato il sole di questo secondo giorno cessata la caduta della pomice, a cui andava mista ancora molla cenere: Plin. Iam navibus cinis inciderat quo proprius accederet calidior et densior; iam pumices etiam, nigrique, et ambusti, et fracti igne lapides: la bocca aperta dal vulcano cominciò ad eruttare immense colonne di cenere che trasportate egualmente dal vento elevarono un secondo strato d’interrimento sopra le città di Pompei e di Stabia, e poicchè venivano in nuvoli calde, e pregne di elettricità, e di sviluppi gazosi, che Plinio chiama flammae, flammaramque praenuncius odor sulfuris (l. c.), il zio ne fu suffocato sul lido di Stabia, ed in Pompei si appiccò fuoco alla più parte delle case. È frequentissimo ora lo scoprir segni di abbruciamento sulle pareti, ove i mobili di legno avvampando, vediamo i gialli delle stanze cangiarsi ad altezze diverse, ed in figure assai varie, in quel colore appunto, che si ottiene ancor da noi dal giallo coll’opera del fuoco, e che si chiama però nelle officine, giallo abbruciato. Le travi, le porte, gli stipiti prendono forma di carbone abbruciandosi lentamente di sotto alla mole del lapillo, e delle ceneri.

Queste cose accadevano in Pompei ed in Stabia, e quelli che non avevano potuto camparsi colla fuga vi furono spenti dalle esalazioni soffocanti dei gaz, e dagli incendii: ma in Ercolano che era posta a ponente del Vesuvio pochi sono gli scheletri, perchè il primo [p. 64 modifica] giorno la più parte dei cittadini potè sottrarsi a tanta ruina. Il giorno seguente dopo levato il sole convien dire, che mutasse il vento, poichè conta Plinio, che immensi nuvoli di cenere si avvanzavano contro l’isola di Capri, e sopra Miseno: Ab altero latere nubes atra et horrenda ignei spiritus, tortis vibratisque discursibus rupta in longas flammarum figuras dehiscebat, fulguribus illae et similes et maiores erant: nec multo post illa nubes descendere in terras, operire maria; cinxerat Capreas et absconderat, Miseni quod procurrit, abstulerat. Iam cinis, adhuc tamen rarus, respicio, densa caligo tergis imminebat, quae nos, torrentis modo infusa terrae, sequebatur: nox non qualis illunis et nubila, sed qualis in locis clausis lumine extincto. Paululum illuxit, quod non dies nobis, sed adventantis ignis indicium videbatur. Et ignis quidem longius substitit, tenebrae rursus, cinis rursus multus et gravis: hunc identidem assurgentes excutiebamus, operti alioqui, atque eliam oblisi pondere essemus: tandem illa caligo tenuata in fumum nebulamve decessit. (p. 20). Tanta copia di cenere spinta fin sopra Miseno e Capri piovve assai più abbondante sopra Ercolano, e tutta la sepellì accumulandovi sopra un banco altissimo di 84 a 120 palmi, dal Teatro verso il mare, ove la piccola città dechinava.

Cogli incendii vulcanici o poco dopo sogliono cadere pioggie copiose di acqua, e l’autunno di questo anno declinava omai all’inverno (Diss. Isag. ep. 67 ). Inoltre il vento di scirocco levatosi il secondo giorno ne indurrebbe a crederlo: ma Plinio nulla ne scrive, [p. 65 modifica] anzi pare che ne persuada del contrario. Perocchè raccontando della morte del zio dice, che i servi trovarono il corpo di lui al giorno terzo della sua morte illaesum, opertumque ut fuerat indutus: Ubi dies redditus, is ab eo quem novissime viderat tertius, corpus inventum est integrum, illaesum, opertumque ut fuerat indutus: habitus corporis quiescenti quam defuncto similior (ep. 16); lo che ben s’intende, non essendo in quella spiaggia caduta che poca cenere, quando sopra Pompei tanto più vicina al luogo della esplosione appena cinque palmi ne veggiamo.

Or supposta una procella diluviosa, egli è indubitato, che tanta quantità di pomici disgregate e leggiere, trasportata giù dai luoghi in pendio, avrebbe dovuto tutto involgere e coprire il corpo di Plinio, e forse anche trasportarlo, e almeno scomporlo, quando invece fu trovato integrum, illaesum, opertumque ed habitu corporis quiescenti similior.

Parmi quindi che quei primi giorni passassero senza pioggia; così ebbe agio l’incendio di carbonizzare il legno ove si era appreso, e sopravvenendo la pioggia, sarebbesi per fermo in alcun luogo spento, onde ora dovrebbe essere facile il trovare indizii di tal genere. Per lo contrario, dovunque si va cavando, di sotto al lapillo e fin sopra il pavimento nelle parti più basse della città appare carbone.

Che la più parte dei tetti e delle impalcature fossero comprese dall’incendio lo dimostrano i segni quasi generali del fuoco. Rari di fatti sono quei tetti che si trovino tuttavia al loro posto: ma perchè vi [p. 66 modifica] perdurassero fu mestieri che gli strati di lapillo, e di cenere penetrassero nelle case, e si elevassero riempiendo tutto il vuoto fin di sotto al tetto; e ciò compirono poscia le piogge. Queste trasportarono quà il lapillo, là le ceneri, e l’uno e l’altro insieme confusi svariatamente, ove, e come loro si apriva l’adito, e più nelle parti della città situate in declivio, non bastando certo nelle parti elevate e poste in piano la copia del lapillo nè della cenere caduta ad invadere e coprire fino ai tetti le case. Il Rosini riferisce che il lapillo in Pompei, certo in quei luoghi che non sono in declivio, sale fino ai nove palmi, e sopra del lapillo per altri cinque palmi la cenere: ma con 14 palmi di cenere e di lapillo non si arriva a coprire le case neanche di un sol piano. Ben parmi di poi avvenuto che rivolgendosi a novella coltivazione tutto quel suolo, i coloni venissero demolendo a poco a poco gl’ingombri delle pareti sorgenti fuori del piano; onde accade, che sol tenui avanzi degli appartamenti superiori s’incontrano.


Note

  1. Malamente si appone il Rosini a stimarlo vento meridionale (Dissert. Isag. p. 72).