Ricordanze della mia vita/Appendici/IV. Discarico

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IV. Discarico

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III. Difesa di Luigi Settembrini scritta per gli uomini di buon senso - Capo VI. - Lettera del Carafa. Conchiusione V. Difesa di Luigi Settembrini dettata innanzi la Corte Criminale di Napoli il dì 9 e 10 gennaio 1851 - V. Difesa di Luigi Settembrini dettata innanzi la Corte Criminale di Napoli il dì 9 e 10 gennaio 1851

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IV

DISCARICO

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Io scrissi la mia difesa per gli uomini di buon senso, e con grande soddisfazione dell’animo mio ho veduto che in questo disgraziato e calunniato paese gli uomini di buon senso son molti, perché quella povera mia scrittura a molti non è dispiaciuta. Solamente pochissimi hanno detto che le mie parole sono state acerbe, che molte cose io poteva non dirle, e che ho scritto un libello e non la mia difesa. Costoro non capiscono o non vogliono capire che in questa causa non si tratta della vita o della morte di quarantadue persone, ma della sorte del nostro paese; onde io ho dovuto parlare non solo di me, ma delle cagioni che hanno prodotto questo giudizio e ridotta la nostra patria nelle presenti infelici condizioni. E le cose che ho detto sono una minima particella di quelle che io sapeva e poteva dire, e che ora per buone ragioni ho taciute. L’acerbitá poi sta nei fatti, non nelle parole; ed i fatti non son opera mia: distruggete i fatti, negateli se potete, negatene anche uno, ed allora io sarò acerbo e libellista. Ma fintantoché i fatti saranno fatti ed innegabili, dovete arrossir voi che li fate, non io che li dico. È dispiaciuto il modo: io non so l’arte d’inzuccherare le sozzure, amo di parlare schietto proprio e breve, farmi capire da tutti, e dire al pane pane, e al sasso sasso. Se tu sei ladro, che colpa ho io che ti chiamo ladro? Sii un santo, ed io ti chiamerò santo e ti adorerò. È dispiaciuto che io ho detto alcune poche veritá, che disvelato le arti oblique e nefande con cui la polizia istruisce i processi, e con cui ha istruito questo dell’Unitá italiana; che ho parlato della costituzione ed ho detto che tutti i mali che sono avvenuti in questo paese, e gli altri che infelicemente e necessariamente avverranno, nascono da una fazione cieca retrograda e cosacca, la quale da due anni cospira per togliere la costituzione, che ormai è un bisogno generale di tutti i popoli civili; la quale vorrebbe veder tornati i beatissimi [p. 549 modifica] tempi del santo uffizio ed il ricco mercato dei ladri. Ma non ostante tutte le petizioni, le orazioni, i voti e gli scongiuri, lí dobbiamo andare, e lí anderemo, perché lí sta la giustizia, lí il bene di tutti: e chi non lo capisce o non lo vuol capire, mal per lui. Io non mi pento di aver detto quelle poche veritá, anzi avrei voluto dirne di altre e di molte; perché la veritá dispiace a pochi e per poco, ma non nuoce mai; e perché è santo dovere di ogni uomo onesto di dirla senza paura. Né scrivendo quelle veritá nella mia difesa io ho voluto offendere alcuno, dappoiché chi si difende non vuole farsi odiare per offese, ma farsi amare da tutti. Che se io dicendo il vero non ho voluto offendere, e taluni si sono offesi, bisogna dire che io non ho colpa, ed essi si sono conosciuti rei.

Ora con la stessa santa intenzione di esporre la veritá, io debbo nuovamente rivolgermi ai miei cittadini, anzi a tutti gli uomini civili, e narrare altri fatti di singolare ingiustizia, altri insulti alla ragione umana, altre oppressioni che io soffro. Dirò prima di una stretta che ho ricevuto dalla polizia per la stampa della mia difesa, poi dirò quello che ho patito dalla corte criminale.

2

Subito che fu pubblicata la mia difesa, nacque un rumore ed uno sdegno grande. Venne da me un ispettore di polizia per chiedermene qualche copia, il manoscritto, e il nome dello stampatore: ma non ebbe né seppe niente. Cercarono tutte le tipografie di Napoli, trovarono che il Reale per suo guadagno si preparava a stamparla, lo arrestarono e lo tengono ancora in carcere. A tutti gli altri tipografi sono stati fatti spaventi e minacce grandi, e si è fatto sottoscrivere un obbligo di non stampare qualunque scritto di causa politica sotto pena di multa e di prigionia.

Il giorno 26 aprile, per comando del direttore di polizia, l’ispettore Campagna fece una minuta ricerca nella casa dove ora è mia moglie, senza condurvi me che per legge vi doveva esser presente.

Per quasi cinque ore fiutò e cercò ogni angolo, ogni buco, ogni masserizia; raccolse con le sue mani e gittò in un sacco ogni materia di carta che gli venne innanzi; e non raccolse piú, perché non c’era piú, né il facchino poteva portare di piú. Il 29 aprile il commissario delegato delle prigioni signor Casigli citò [p. 550 modifica] mia moglie a comparire nella delegazione per assistere alla dissuggellazione del sacco delle carte. Io chiesi ed ottenni dalla benignitá del commessario, di esser presente anch’io. Legalmente fu aperto il sacco alla presenza del commessario, del cancelliere, e di tre ispettori; i quali tutti con dieci occhi si diedero a leggere ogni stampa, ogni cartolina, ogni letterina ed esemplare dei miei figliuoli; e non trovarono nulla di reo né di sospetto, quantunque avessero letto dalle dieci alle cinque. Intanto la povera moglie mia ammalata e digiuna aspettava e guardava; ed in casa una mia figliuoletta non vedendo la madre, la credeva carcerata, piangeva e n’è stato molti giorni ammalata. Ma dovendosi mostrare di aver fatto qualche cosa, le carte furono divise in due specie: le une dette attendibili, furono descritte in un verbale, richiuse e risuggellate nel sacco: le altre dette inattendibili furono richiuse e risuggellate in un altro sacco, affinché se quei dieci occhi non l’avessero osservato bene, si avesse potuto leggerle con l’aiuto di lenti e di microscopii.

E che cosa sono queste carte attendibili descritte nel verbale? La lettera che scrissi al ministro delle finanze quando offeriva allo stato un terzo del mio soldo, stampata nel giornale del governo: la mia rinunzia all’ufficio di capo ripartimento: la dichiarazione che io scrissi quando rinunziai: la lettera che io scrissi al Bozzelli quando rinunziai al terzo del soldo che mi si voleva dare come pensione: la memoria che presentai alla corte nel mio costituto, e che sta nel processo; le mie posizioni a discolpa, presentate alla corte; una lettera al compilatore del giornale la «Libertá italiana», nella quale protestava che io non aveva mai scritto né scriveva alcun giornale: minute tutte di mia mano. Inoltre venti copie del mio Elogio di Giuseppe Marcarelli; sette volumi delle opere di Vincenzo Gioberti; Poche parole su la Costituzione, opuscolo di Achille Corrado, fratello dell’intendente, Dichiarazione del ministero del 1° marzo 1848; Benedizione di Pio IX all’Italia; ed altre carte simili: infine venti copie della mia difesa. Da queste carte dichiarate attendibili si può giudicare delle altre dette inattendibili. Buona cosa è che la parola attendibile non sia registrata in alcun vocabolario, ed essendo una sozzura del tempo le si possa dare ogni significato.

Intanto l’ispettore Campagna aveva detto al direttore Peccheneda che egli aveva fatto la gran preda, tra le mie carte aveva trovato e preso il manoscritto della difesa. Il direttore lesse il [p. 551 modifica] verbale, e non vi trovò registrato il manoscritto: e prestando piú fede al Campagna che ad un vecchio commessario ad un cancelliere, ed a tre ispettori, ordinò si riaprissero i sacchi e si rivedessero le carte alla presenza del Campagna. Il quale dopo molto tempo e molte osservazioni riconobbe che egli aveva creduto manoscritto della difesa la dichiarazione che io scrissi il 13 maggio 1848 quando rinunziai all’uffizio; e tutto che sia un valentissimo e zelantissimo ispettor di polizia confessò ingenuamente di non saper troppo leggere. Richiuse e risuggellate le carte la terza volta, se ne scrisse al procurator generale, il quale rispose tornarsi a rivedere le inattendibili, farsene esatto elenco, e non trovandosi in esse alcuna cosa sospetta, restituirmisi. Cosí è stato fatto e dopo ben quindici giorni l’ho riavute. Le attendibili sono ancora in lazzaretto, ed aspettano che il procurator generale dichiari che un’offerta di danari, due rinunzie, un costituto, le posizioni a discolpa, e la benedizione di un papa non sono carte appestate e si possono rendere al padrone.

Ma perché si è cercato con tanta affannosa premura il manoscritto, mentre io non ho negato che la difesa l’ho scritta io? Questo perché non l’ho potuto sapere, nessuno ha saputo dirmelo, non l’ho potuto indovinare da me. È lecito agli uomini non comuni operare contro il senso comune. Ma per onore della veritá e della umanitá debbo dire che molti impiegati di polizia mi fanno cercar copie della mia difesa, me la lodano, e dicono di volerla gelosamente conservare; e conosco che non parlano ad inganno. Sia lode a Dio, che il buon senso sta anche in molti impiegati di polizia.

3

Vengo a quello che la corte criminale ha deciso. Nei termini di legge io ho presentato per mezzo del mio avvocato le ripulse, le posizioni a discolpa, le nullitá: lo stesso hanno fatto gli altri imputati. La corte ha rigettate le ripulse e le nullitá di tutti: ha ammesso il minor numero di discolpe per gli altri quarantuno: per me ha rigettato tutto, a me solo ha negato tutto; per me solo non v’è difesa giudiziale. Onde io ben feci quando indirizzai le mie parole a tutti gli uomini civili; ed ora credo di ben fare se contro la decisione della corte criminale io mi appello a Dio, che è giudice di tutti i giudici, ed alla pubblica opinione in cui [p. 552 modifica] sta la voce ed il giudizio di Dio. Dirò quello che ho dimandato, e come la gran corte ma l’ha negato.

Ripulsa. Io dicevo: Luigi Iervolino mio accusatore è un ribaldo denunziante che ha il soldo di dodici ducati il mese dalla polizia, come possono attestare i tali testimoni: ed essendo denunziante pagato la legge comanda che non gli si presti fede, e che non possa comparire a deporre nella pubblica discussione. La gran corte nella sua decisione mi ha risposto: «Rigetta la ripulsa, ed ordina sentirsi il testimone ripulsato, per tenersi della sua dichiarazione quel conto che merita». Il procurator generale nella sua nota dei testimoni a carico dá al Iervolino la qualitá di denunziante; la Corte lo dichiara testimone, e non vuole ascoltar me che voglio provare che è denunziante ed è pagato. E non solo il Iervolino, ma tutta quell’altra schiuma di ribaldi, che si sono confessati agenti di polizia nelle loro denunzie scritte, che il procurator generale ha detto denunzianti, sono dichiarati dalla gran corte fiori di galantuomini, testimoni che debbono udirsi; che caritá cristiana a coprirsi i difetti altrui! chi non farebbe la spia! se anche suo malgrado è dichiarato galantuomo!

Ecco le mie dieci posizioni a discolpa.

1. La polizia ha presentato un falso certificato della decisione che la commissione di stato fece sul mio conto nella causa della «giovine Italia». Io per dimostrar falso quel certificato dimandava si richiamasse quel processo; e dimandava ancora che la corte chiedesse dalla polizia i rapporti su la mia condotta politica dal 1842 al 1848. Ma la gran corte vuol credere ciecamente alla polizia, non vuol farmi provare o la falsitá del certificato o il mio errore; non vuol sapere della mia condotta politica, rigetta la posizione.

2. Io sono odiato ed accusato perché creduto sfrenato scrittore ed autore di quante stampe clandestine si sono fatte contro il governo e contro i privati. Per provare che questa posizione è falsa, quindi l’odio ingiusto, e ingiustissima l’accusa, io presentavo alcune proteste da me scritte in certi giornali, ed alcuni miei opuscoli stampati; e chiedeva si leggessero, per vedere se chi ha quei sentimenti, quelle opinioni, e quello stile possa scrivere quel sozzo proclama che a me si attribuisce. La gran corte non vuol leggere niente, non bada a stile, rigetta la posizione.

Con le seguenti quattro posizioni io intendeva provare come in tempi torbidi sono stato moderatamente sereno, e come, da [p. 553 modifica] che il principe diede e giurò una costituzione, io sono stato sempre costituzionale.

3. In marzo 1848 si radunarono in casa del Poerio parecchi uomini ragguardevoli per discutere la nomina di un nuovo ministero; e fra gli altri v’intervenne il conte del Balzo, marito della regina madre, ed il capitano Carrascosa. Il dimani per commissione del Poerio io dovetti parlar lungamente col conte, e di gravi affari. Chiedeva alla corte d’interrogare il conte, per sapere che moderate parole gli dissi, che giusti e santi sentimenti gli manifestai. La corte ha deciso di non incommodare il conte, ed ha rigettata la posizione.

4. Il 13 maggio 1848 io rinunziai al mio ufficio perché abborrivo dalle intemperanze del tempo. Chiedeva si interrogassero testimoni, e si cercasse dal ministero una copia della mia rinunzia: la corte ha rigettata la posizione.

5. In giugno 1848 durante la rivoluzione di Calabria per consiglio ed autoritá di alcuni amici, scrissi, e fu stampato, un manifesto agli elettori per persuaderli ad intervenir nei collegi: e questo era aiutare e secondare il governo. La gran corte ha rigettata la posizione.

6. Il Bozzelli proponeva al re di darmi in pensione un terzo del soldo; ed io in una lettera lo ringraziava, e lo pregava di ringraziare il re, e rifiutava ogni dono. Interrogate il Bozzelli, fatevi dare una copia di quella lettera. La gran corte ha rigettata la posizione.

Eppure con questi fatti io voleva offerire ai giudici una pruova morale che chi opera e scrive a questo modo non può essere un arrabbiato settario, non può cospirare contro la vita del principe, non può consigliare né comandare assassinii. Inutilmente.

7. Luciano Margherita diceva aver inteso dire che in mia casa si radunava un alto consiglio o comitato settario, che era composto di una buona dozzina di persone: il procurator generale nel suo atto di accusa ritiene questo fatto. Io voleva provare che in mia casa non aveva né poteva avere riunioni, e chiedeva si dimandassero i vicini, il padron di casa, gli abitanti nel medesimo palazzo se avesser mai veduto venire in mia casa o uscire altre persone che giovani studenti. Non poteva, perché dovendo dar pane alla mia famiglia tirava una pesantissima carretta di faccende. Faceva il conto sulle dita pel tempo che aveva e diceva: «Il tal giorno all’ora tale io faceva la tale lezione che durava tante ore; [p. 554 modifica] poi ne faceva un’altra, ed un’altra: il tale altro giorno faceva la tale altra lezione per tanto tempo. Dimandate i testimoni che vi nomino su le ore precise delle mie occupazioni. A queste ore faticose aggiungete il tempo necessario per mangiare, dormire e fare tutti i fatti miei; e vedrete che, se anche avessi voluto, non avrei potuto cospirare e tenere riunioni perché di tutta la settimana non mi restava un’ora da respirare».

8. Nell’atto di accusa si dice che io con altri cospirava in carcere, e approvava disegni di assassinii. Onde io diceva: «Chiedete all’ispettore delegato del carcere i rapporti su la mia condotta; chiedete la nota che il custode faceva delle persone che visitavano i detenuti politici, e vi convincerete che io non vedeva altri che le persone di mia famiglia».

«Il procurator generale ha chiesto accogliersi gli articoli 7 e 8, riducendosi in numero dei testimoni nell’articolo 7 e richiedendosi in rapporto dell’ispettore locale di Santa Maria Apparente, per conoscersi se oltre la famiglia Settembrini, accedevano nelle prigioni altre persone di sua intrinsichezza».

«La gran corte — sugli articoli 7 ed 8 — dacché i fatti che si enunciano nelle posizioni suindicate non sono tali che influiscono necessariamente nella causa per dichiararsi pertinente — a maggioranza di voti quattro — dichiara non pertinenti alla causa gli articoli 7 ed 8, e li rigetta».

9. Io voleva provare che il direttore di polizia signor Peccheneda venne molte volte in castel dell’Ovo, interrogò vari imputati, interrogò lungamente il Margherita, e ben quattro volte postillò e fece ricopiare la dichiarazione sottoscritta da costui, la quale tanto mi offende. Però lealmente io chiamava in testimonianza lo stesso signor Peccheneda, l’istruttore, il cancelliere, il comandante del forte, altri uffiziali, ed i custodi. La gran corte ha dichiarato questa posizione non pertinente, e l’ha rigettata.

10. Nella decima posizione io diceva di associarmi all’egregio mio amico e coaccusato signor Michele Pironti per le eccezioni di nullitá da lui prodotte, e largamente ragionate.

«La gran corte — dacché il dedotto nell’articolo 10 non essendo motivato, come era obbligo dell’articolante di produrre in sua difesa, senza riportarsi a ciò che un altro accusato produce per sé; e mancando le spieghe opportune, non può accogliersi tale posizione per dichiararsi pertinente — a voti uniformi — rigetta la domanda contenuta nell’articolo 10 delle posizioni». [p. 555 modifica]

Se mi aveste chiamato io avrei dato le spieghe opportune, ed avrei ben motivata la dimanda, perché avrei detto: che avendo il Pironti, avvocato, ed ex giudice criminale, scritta una memoria sulle eccezioni di nullitá, io o avrei fatto un bene a lui, o avrei detto le stesse cose con diverse parole: onde per non perder tempo, e per non farne perdere alla corte con una lunga scrittura, mi sono associato a lui. Questo motivo mi pare non solo legale, ma naturale, e fatto per buona creanza per evitare seccaggini e lungaggini. Ma se anche avessi spiegato e motivato questo articolo e tutte le eccezioni del mondo, sarebbe stato lo stesso: perché la corte ha rigettate tutte quelle prodotte dal Pironti. Le quali essendo ancora mie debbo qui riferirle.

Eccezioni di nullitá. — Il processo istruito dal commessario Silvestri in castel dell’Ovo è nullo pel luogo, perché il castello non è carcere legale, ma privato ed arbitrario, e non sottoposto alla vigilanza del procurator generale. È nullo per la forma, perché si sono fatti arresti per misure di prevenzione e per incarichi verbali; perché si sono fatti abusi di potere e di sevizie ai detenuti, i quali hanno dimandato di provarli; perché gl’imputati non furono interrogati subito dopo l’arresto come vuole la legge; perché ad essi non furono indicate tutte le loro imputazioni; perché si sono interrogate le mogli contro i mariti, come Maria Giuseppa Cuccaro contro suo marito Giovan Battista Sersale, la quale fu tenuta cinque giorni nelle segrete del forte; i padri contro i figliuoli, come Gaetano Vellucci contro suo figlio Lorenzo 1; le figliuole contro il padre, come Filomena, Clelia ed Almerinda Errichiello fanciulle di 12, 10, ed 8 anni contro il loro genitore Gaetano. È nullo per le persone che vi hanno preso parte, perché attribuendosi agl’imputati il disegno di uccidere il [p. 556 modifica] prefetto di polizia, il commessario Silvestri non poteva avere le due qualitá d’impiegato dipendente dal prefetto e di giudice indipendente; non poteva essere istruttore imparziale, perché non impediva anzi ordinava la nostra illegale detenzione; perché il prefetto abusando della dipendenza dell’istruttore metteva ambo le mani nel processo, ed interrogava egli stesso gl’imputati, egli che nella causa è parte offesa; perché il comandante del forte signor Almeida faceva anche egli interrogatorii, e poi li conferiva con l’istruttore, il quale se ne serviva, e li faceva passare nel processo come dichiarazioni giudiziali.

Secondamente il procurator generale richiedeva, e la gran corte criminale, con decisione del 19 dicembre 1849, ordinava riunirsi cinque processi dell’unitá italiana, e procedersi contro tutti gl’imputati ad un solo giudizio. Or la corte medesima non può contro la legge e contro la stessa sua decisione, tra i piú che dugento imputati dipinti nei cinque processi, sceglierne soli quarantadue, e sottoporli ad accusa. Ma giacché li ha sottoposti ad accusa con la decisione del 9 febbraio 1850, ora non può giudicare deffinitivamente, inappellabilmente, in corte speciale, con esecuzione tra ventiquattr’ore, di questi soli quarantadue, non tenendo conto degli altri, per molti dei quali si è ordinato proseguirsi l’istruzione. Adunque se questi cinque processi non sono interamente compiuti per tutti, come si può giudicar su di essi, come possono servire per elementi di pruova?

Insomma io diceva: «Se la corte vuole essere rigorosamente e legalmente giusta deve dichiarare nullo il processo fatto in castel dell’Ovo: se vuol essere equa deve sospendere il giudizio ed aspettare che si compia l’istruzione per tutti. Cosí farete un giudizio solo, giudicherete con coscienza sicura, e nessuno avrá che dirvi. Se sopra questi incompiuti processi voi mi condannerete e mi farete mozzare il capo, e dimani proseguendo l’istruzione, nasceranno pruove limpidissime della mia innocenza, come mi restituirete quel fiato divino che Dio mi ha dato e voi mi avete tolto? Ogni uomo troverá ragionevoli queste dimande, ma la corte criminale le ha trovate irragionevoli, ed ha ragionato cosí:

«La gran corte — sulle eccezioni di nullitá di atti — osserva che l’alta polizia ordinaria, per effetto del regolamento emanato dopo la nomina della commissione suprema pe’ reati di stato e di setta, attribuiti alla di lei competenza, e devoluti alla competenza della gran corte speciale, è facoltata per mezzo de’ suoi [p. 557 modifica] agenti a compilare i processi, raccogliere tutte le pruove concernenti tali reati. Che per effetto di tali principii la istruzione di cui è parola in detta eccezione è stata compilata dai funzionari competenti, previo ordine dato dal ministro dell’interno.

«Che non essendovi l’elenco delle prigioni, l’alta polizia vigila per la prevenzione, e per tutt’altro che riguarda i detenuti, e quindi ben poteva giusta le sue facoltá detenere nei castelli gl’imputati per reitá di stato, tanto lo è vero che la suprema commissione di stato li deteneva negli stessi forti, e colá compilava la istruzione: essendo questa una eccezione alle regole di procedura penale.

«Che ogni funzionario giudiziario porta seco la presunzione di dritto d’istruire legalmente, e coscienziosamente per la veritá, e senz’alcun riguardo: e vano è tutt’altro che domanda l’accusato in dette eccezioni, che rigettare si debbono». E rigetta tutto.

Rispetto il giudicato; ma dico a chi non lo sa che la suprema commissione nel 1846 fu abolita, i giudizi di stato e di setta furono affidati alle corte criminali, che hanno i loro regolamenti, le loro leggi legali e non eccezionali; e non si può ritener per morta la commissione e per i vivi i suoi regolamenti. Questa commissione essendo mista di magistrati e di militari, si adunava nei castelli, e colá deteneva gl’imputati pel solo tempo che durava la discussione della causa. L’istruzione era fatta dalla polizia, e nelle carceri ordinarie. E questo posso dirlo ed affermarlo bene perché nel 1841 fui giudicato da quella commissione. La corte criminale senza turbare il riposo de’ morti poteva dire, come ha detto: «e vano è tutt’altro che domanda l’accusato in dette eccezioni che rigettare si debbono».

Queste eccezioni sono state discusse per forma coi soli avvocati, a porte chiuse, in segreto, e senza gl’imputati a’ quali la legge permette di esser presenti. Era ammalato l’avvocato di Michele Pironti, e questi chiedeva istantemente di essere ascoltato egli. La corte non ha voluto ascoltarlo, voleva che gli avvocati Castriota e Russo che avevano solamente presentati i discarichi del Pironti, li avessero discussi; ma questi scusandosi di non potere discutere perché non sapevano le accuse e le difese del Pironti, la corte ha comandato a costui di scegliere subito un altro avvocato, egli ha dovuto nominarlo per fargli udire rigettare le sue eccezioni. Adunque per me ripulse no, discolpe no, eccezioni no. [p. 558 modifica]

4

Dieci posizioni a discolpa io aveva presentate, e tutte dieci contro ogni legge, contro ogni sentimento di umanitá, mi sono state ostinatamente e sdegnosamente rigettate. Io solo, non pure fra i quarantadue imputati, ma fra quanti uomini sono stati, sono, e saranno, io solo son privato del diritto di addurre pruove in mia difesa. Quando i giudizi si facevano colla corda, col fuoco, con l’acqua e con la ruota, il processo era breve e segreto, sí; ma se un imputato diceva un fatto in sua discolpa, il giudice lo verificava a suo modo, ma lo verificava. Ed oggi nella civile Europa, ed in Italia, e in Napoli, e regnando Ferdinando II, e da magistrati napolitani, si rigettano tutte le discolpe di un accusato, non si ammettono le pruove che egli presenta, non si ascolta quello che egli dice. Si dirá che non erano pruove. Sia pure; ma almeno burlatemi, almeno ammettetene una e poi fatene quel conto che credete, concedetene una a chi è accusato a morte. Il procurator generale ed un sol giudice volevano che si ammettessero la 7. e l’8.; volevano non si desse un esempio nuovo, inaudito, terribile nella storia dei giudizi, un esempio che fará maravigliare tutti quelli che lo sapranno. Io ringrazio il procurator generale e l’ignoto giudice; e ringrazio ancora gli altri quattro, se per sentimento di giustizia hanno cosí giudicato; se per altra cagione io li perdono.

Io aveva chiesto di voler esser presente alla discussione delle mie discolpe; fu risposto, che io ho la febbre, e non si può discutere con chi ha la febbre. Io non ho febbre, perché non ho delitti, non ho rimorsi, non ho le mani lorde di sangue, non ho oppresso né insultato nessuno; ma sono serenamente tranquillo perché credo in Dio, credo nella virtú, spero nel progresso dell’umanitá, non odio nessuno, perdono i miei nemici, e, ad esempio di Cristo li chiamo fratelli; quantunque essi, abusando di questa santa e generosa parola, mi rispondano con beffa di farisei; «fratello». Vedo bene che l’odio contro di me non piú si nasconde ma procede scoperto e mi toglie per fin la difesa. Sento dire: che la giustizia deve farsi nelle cause comuni, ma nelle cause di stato chi è vinto dev’essere punito. Che dunque mi resta a fare? Abbandonarmi alla giustizia di Dio, e dignitosamente tacere: mi sono difeso al cospetto del mondo, mi giudichi il mondo. Ma vorrò [p. 559 modifica] vedere anche questo, che per un’assertiva di una spia pagata, e per un avere inteso dire di un uomo che poi si è disdetto, otto giudici vorranno dichiararmi reo; e se essi per timore di non perdere il loro uffizio vorranno vendere per cento otto ducati il mese l’anima loro, la loro fama, la fama dei loro figliuoli, il sangue di quarantadue persone, e la sorte della patria.


Note

  1. Fra le carte di Lorenzo Vellucci gli furono trovate alcune lettere scrittegli dal padre, il quale lo rimproverava di aver preso parte nella dimostrazione del 29 gennaio 1849, come gli era stato detto e lo esortava a ritirarsi in paese. Il commessario Silvestri comandava che il vecchio fosse interrogato. Nel vol. 38 sta scritto che fu interrogato: perché non aveva denunziato il figliuolo all’autoritá, che lo avrebbe fatto per forza tornare in paese? Ed ei rispose: «Perché la natura mi vietava di denunziare il sangue mio». Gettare il veleno ed il fuoco nelle famiglie, contaminare gli effetti piú santi, sciogliere tutti i vincoli della societá, offendere Dio e l’umanitá, si chiama zelo, fedeltá, ordine: chi fa queste cose si chiama amico dell’ordine: io che le scrivo per farle abborrire io sono un demagogo, e debbo essere impiccato. Ma la veritá non si può impiccare!