Rime (Berni)/LI. Capitolo del prete da Povigliano

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LI. Capitolo del prete da Povigliano [A Messer Ieronimo Fracastoro]

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Francesco Berni - Rime (XVI secolo)
LI. Capitolo del prete da Povigliano [A Messer Ieronimo Fracastoro]
L. Sonetto della mula LII. Capitolo primo della peste


Udite, Fracastoro, un caso strano,
degno di riso e di compassïone,
3che l'altr'ier m'intravenne a Povigliano.
  
Monsignor vostro amico e mio padrone
era ito quivi acompagnar un frate
6con un branco di bestie e di persone.
  
Fu a' sedici d'agosto, id est di state,
e non bastavan tutte a tanta gente,
9se ben tutte le stanze erano agiate.
  
Il prete della villa, un ser saccente,
venne a far riverenza a monsignore,
12dentro non so, ma fuor tutto ridente.
  
Poi, vòlto a me, per farmi un gran favore,
disse: "Sta sera ne verrete meco,
15che sarete alloggiato da signore:
  
io ho un vin che fa vergogna al greco;
con esso vi darò frutti e confetti,
18da far veder un morto, andar un cieco;
  
fra tre persone arete quattro letti,
grandi, ben fatti, spiumacciati, e voglio
21che mi diciate poi se saran netti".
  
Io che gioir di tal bestie non soglio,
lo licenziai, temendo di non dare,
24come diedi, in mal'ora, in uno scoglio.
  
"In fe' d'Iddio", diss'egli, "io vo' menare
alla mia stanza almanco duo di voi;
27non mi vogliate questo torto fare".
  
"Be'", rispos'io, "messer, parlarem poi;
non fate qui per or questo fracasso;
30forse d'accordo restarem fra noi".
  
La sera doppo cena andammo a spasso,
parlando Adamo et io di varie cose;
33costui faceva a tutti il contrabasso.
  
Tutto Vergilio et Omero ci espose,
disse di voi, parlò del Sannazaro,
36nelle bilancie tutti dua vi pose.

"Non son", diceva, "di lettere ignaro;
son bene in arte metrica erudito".
39Et io diceva: "Basta, l'ho ben caro".
  
Animal non vid'io mai tanto ardito:
non avrebbe a Macrobio et Aristarco,
42né a Quintilïan ceduto un dito.
  
Era ricciuto, questo prete, e l'arco
delle ciglia avea basso, grosso e spesso:
45un ceffo accommodato a far san Marco.
  
Non ci si volse mai levar da presso,
fin che a Adamo e me diede di piglio
48e bisognò per forza andar con esso.

Era discosto più d'un grosso miglio
l'abitazion di questo prete pazzo,
51contra il qual non ci valse arte o consiglio.
  
Io credetti trovar qualche palazzo
murato di diamanti e di turchine,
54avendo udito far tanto schiamazzo;
  
quando Dio volse, vi giungemmo al fine:
entrammo in una porta da soccorso,
57sepolta nell'ortiche e nelle spine.
  
Convenne ivi lasciar l'usato corso
e salir su per una certa scala,
60ove arìa rotto il collo ogni destr'orso.
  
Salita quella, ci trovammo in sala,
che non era, Dio grazia, amattonata,
63ond'il fumo di sotto in essa essala.
  
Io stava come l'uom che pensa e guata
quel ch'egli ha fatto e quel che far conviene,
66poi che gli è stata data una incanata.
  
"Noi non l'abbiam, Adamo, intesa bene:
questa è la casa", diceva io, "dell'Orco;
69pazzi che noi siam stati da catene!".
  
Mentre io mi gratto il capo e mi scontorco,
mi vien veduto a traverso ad un desco
72una carpita di lana di porco:
  
era dipinta ad olio e non a fresco;
voglion certi dottor dir ch'ella fusse
75coperta già d'un qualche barbaresco;
  
poi fu mantello almanco di tre usse,
poi fu schiavina e forse anche spalliera,
78fin che tappeto al fin pur si ridusse.
  
Sopra al desco una rosta impiccata era
da parar mosche a tavola e far vento,
81di quelle da taverna unica e vera;
  
è mosso questo nobil instrumento
da una corda a guisa di campana
84e dà nel naso altrui spesso e nel mento.
  
Or questa sì che mi parve marchiana,
fornimmi in tutto questa di chiarire
87della sua cortesia sporca e villana.
  
"Dove abbiam noi, messer", dissi, "a dormire?".
"Venite meco la signoria vostra",
90rispose il sere; "io vel farò sentire".
  
Io gli vo drieto e 'l buon prete mi mostra
la stanza ch'egli usava per granaio,
93dove i topi facevano una giostra.
  
Vi sarebbe sudato un di gennaio:
quivi era la ricolta e la semenza
96e 'l grano e l'orzo e la paglia e 'l pagliaio.
  
Eravi un destro, senza riverenza,
un camerotto da cesso ordinario,
99dove il messer faceva la credenza;
  
la credenza facea nel necessario,
intendetemi bene, e le scodelle
{{R|102teneva in ordinanza in su l'armario.
  
Stavano intorno pignatte e padelle,
correggiati, rastrelli e forche e pale,
105tre mazzi di cipolle e una pelle.
  
Quivi ci volea por quel don cotale,
e disse: "In questo letto dormirete;
108starete tutti duo da un capezzale".
  
Et io a lui: "Voi non mi ci côrrete",
risposi piano, "albanese messere;
111datemi ber, ch'io mi moio di sete".
  
Ecco apparir di sùbito un bicchiere
che s'era cresimato allora allora,
114sudava tutto e non potea sedere;
  
pareva il vino una minestra mora:
vo' morir, chi lo mette in una cesta,
117s'in capo l'anno non vel trova ancora.
  
Non deste voi bevanda mai molesta
ad un che avesse il morbo o le petecchie
120quanto quell'era ladra e disonesta.
  
In questo, adosso a due pancaccie vecchie
vidi posto un lettuccio, anzi un canile,
123e dissi: "Quivi appoggerò l'orecchie".
  
Il prete grazïoso, almo e gentile
le lenzuola fe' tôr dell'altro letto:
126come fortuna va cangiando stile!
  
Era corto il canil, misero e stretto;
pure, a coprirlo, tutti duo i famigli
129sudarno tre camiscie et un farsetto
  
e le zanne vi posero e gli artigli;
tanto tirâr quei poveri lenzuoli
132che pure a mezzo al fin fecion venigli.
  
Egli eran bianchi come duo paiuoli,
dipinti di marzocchi alla divisa:
135parevan cotti in broda di fagiuoli;
  
la lor sottilità resta indicisa:
tra loro e la descritta già carpita
138cosa nessuna non era divisa.
  
Qual è colui che a perder va la vita,
che s'intertiene e mette tempo in mezzo
141e pensa e guarda pur s'altri l'aita,
  
tal io schifando quell'orrendo lezzo;
pur fu forza il gran calice inghiottirsi,
144e così mi trovai nel letto al rezzo.
  
O Muse, o Febo, o Bacco, o Agatirsi
correte qua, ché cosa sì crudele
147senza l'aiuto vostro non può dirsi;
  
narrate voi le dure mie querele,
raccontate l'abisso che s'aperse
150poi che fûrno levate le candele.
  
Non menò tanta gente in Grecia Serse,
né tanto il popol fu de' Mirmidóni,
153quanta sopra di me se ne scoperse:
  
una turba crudel di cimicioni,
dalla qual, poveretto, io mi schermia,
156alternando a me stesso i mostaccioni.
  
Altra rissa, altra zuffa era la mia,
di quella tua che tu, Properzio, scrivi
159in non so qual, del secondo, elegia.
  
Altro che la tua Cinzia aveva io quivi!
Er'io un torso di pera diventato
162o un di questi bachi mezzi vivi
  
che di formiche adosso abbia un mercato,
tante bocche mi avevan, tanti denti
165trafitto, punto, morso e scorticato.
  
Credo che v'era ancor dell'altre genti,
come dir pulci, piattole e pidocchi,
168non men di lor animose e valenti.
  
Io non poteva schermirmi con gli occhi,
perch'era al buio, ma usava il naso
171per conoscer le spade da li stocchi;
  
e come fece con le man Tomaso,
così con quello io mi certificai
174che l'imaginazion non facea caso.
  
Dio vel dica per me s'io dormi' mai:
l'essercizio fec'io tutta la notte
177che fan per riscaldarsi i marinai.
  
Non così spesso, quando l'anche ha rotte,
dà le volte Tifeo, l'audace et empio,
180scotendo a Arìme le valli e le grotte.
  
Notate qui ch'io pongo questo essempio
levato dall'Eneïda di peso;
183e non vorrei però parer un scempio,
  
perché m'han detto che Vergilio ha preso
un granciporro nel verso d'Omero,
186il qual non ha, con riverenza, inteso;
  
e certo è strana cosa, s'egli è vero,
che di due dizzïoni una facesse.
189Ma lasciam ire e torniam dov'io ero.
  
Eran nel palco certe assaccie fesse
sopra la testa mia fra trave e trave,
192onde calcina parea che cadesse:
  
areste detto che le fosser fave,
che rovinando in sul palco di sotto
195facevano una musica soave;
  
qual era d'asse anch'egli e tutto rotto,
onde il fumo che quindi si stillava
198passando a gli occhi miei faceva motto.
  
Un bambino era in cuna che gridava
et una donna vecchia che tossiva
201e talor per dolcezza bestemmiava.
  
Se a corteggiarmi un pipistrel veniva
o a far la mattinata una civetta,
204la festa mia del tutto si forniva.
  
Della quale io non credo avervi detta
la millesima parte; e poi c'è quella
207del mio compagno, ch'ebbe anco la stretta.
  
Faretevela dir, poi che la è bella:
m'è stato detto ch'ei ve ne ha già scritto
210o vuol scrivervi in greco una novella.
  
Un poco più che durava il conflitto
io diventavo il venerabil Beda,
213se l'epitafio suo l'ha ben descritto.
  
Mi levai che parevo una lampreda,
un'elitropia fina, una murena,
216e chi non mel vol creder non mel creda:
  
di buchi avevo la persona piena,
ero io di macchie rosse tutto tinto,
219parevo io proprio una notte serena.
  
Se avete visto un san Giulian dipinto
uscir d'un pozzo fuor fin al bellico,
222d'aspidi sordi e d'altre serpi cinto,
  
o un san Giobbe in qualche muro antico,
e se non basta antico anco moderno,
225o sant'Anton battuto dal nemico,
  
tal avevan di me fatto governo
con morsi, graffi, stoccate e ferite
228quei veramente diavoli d'inferno.
  
Io vi scongiuro che se mai venite
chiamato a medicar quest'oste nostro,
231dategli ber a pasto acqua di vite,
  
fategli fare un servizial d'inchiostro.