Rime varie (Alfieri, 1912)/CXVI. Mestizia per la lontananza della sua donna e per la propria malattia

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CXVI. Mestizia per la lontananza della sua donna e per la propria malattia

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CXVI. Mestizia per la lontananza della sua donna e per la propria malattia
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CXVI [clvii].1

Mestizia per la lontananza della sua donna

e per la propria malattia.

Non bastava, che lungo intero il verno
Sepolto io stessi in solitudin trista,
Privo di quella cara ed alma vista,
4 Che sola in tregua pon mio pianto eterno?
Mute selve, ov’io sfogo ebbi all’interno
Mio duol, cui speme pur iva frammista;
Ecco, ognuna di voi vita racquista;
8 E nuove fronde, e fior novelli io scerno.
Non, lasso! in me, cui la speranza è tolta
Di riveder tra queste amene piagge
11 Donna, in chi mia ventura2 e vita è accolta.
Gioja non v’ha, che omai piú il cor m’irragge;3
Morte mi s’è d’intorno ad esso4 avvolta,
14 E lenta lenta a sua magion mi tragge.5


Note

  1. Ho detto piú sopra, accennando ai lavori dell’A. nel 1786, che, mentre viveva tutto con l’animo in essi, dové interromperli per un fiero accesso di podagra, che durò 15 giorni: «nel maggio... mercé la gran dieta e il riposo si trovò bastantemente riavuto di forze» (Aut., IV, 16°). Il 24 aprile compose il surriferito sonetto, complemento di un altro sullo stesso argomento, scritto due giorni avanti, e che mandò all’abate di Caluso con una lettera, mancante di data, ma che deve riferirsi a quei giorni (Epist., pag. 127 e seg.).
  2. 11. Mia ventura, il mio bene e il mio male.
  3. 12. M’irragge, mi illumini.
  4. 13. Ad esso, al cuore.
  5. 14. Nessuna esagerazione; il pericolo fu assai grave, come dice l’A. stesso nel passo dell’Autobiografia che precede quello da me sovraccitato.