Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua/Saggio

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SAGGIO

SOPRA LA NECESSITÀ

DI SCRIVERE

NELLA PROPRIA LINGUA



Di non pochi vantaggi, parte fisici parte morali, vogliono i più dei dotti che, per quanto si spetta alle umane lettere e singolarmente alla eloquenza e alla poesia, godessero gli antichi sopra di noi. Donde si rende in buona parte ragione della eccellenza a cui da essi recate furono quelle facoltà. Tra i quali vantaggi forse non è il meno considerabile quello, che dissipati non venivano, come noi, in varj studj di differente natura, e sopra tutto che dietro ad altre lingue oltre alla propria non ispendevano l’opera ed il tempo.

Appresso a’ Greci una cosa era la lingua volgare e la dotta; non sapevano che dir si volesse una morta favella che da fanciulli, quasi prima della materna si dovesse apprendere; e il dispregio in cui tenevano tutte le nazioni che altra lingua usavano dalla greca era effetto, non è dubbio, del loro orgoglio, ma era forse anche una delle principali cagioni del loro sapere. Invitati a legger poco potevano considerar molto; e quel tempo che non erano [p. 328 modifica]obbligati a consumar dietro alle parole poteano collocarlo nelle cose, o almeno darlo tutto a ben conoscere, a coltivare, ad abbellire la propria lingua, che è il fondamento primo degli studi della eloquenza e della poesia.

Ai Romani convenne, egli è vero, se e’ vollero sentire avanti nelle scienze e in ogni maniera di lettere, apprendere la lingua dei Greci, i quali nel tempo che divennero soggetti di Roma ne divennero anche i maestri. Ma per quanto avessero per le mani gli esemplari di quelli, e in quelli ponessero ogni loro studio, di comporre in lingua greca non si piccavano punto, sdegnando di scrivere in altra lingua fuorché nella propria; in quella lingua trionfale e sovrana che dal Campidoglio dettava leggi all’universo.

I moderni, all’incontro, si trovano costretti di apprendere le varie lingue in cui parlano e scrivono nazioni che hanno tra loro comunione di trattati, di letteratura, di traffici, che non la cedono l’una all’altra né per ingegno, né per imperio; ed hanno da studiare inoltre la lingua latina e la greca, le quali sono come l’erario di ogni nostro sapere 1 [p. 329 modifica]Tanto da noi esige una certa necessità letteraria, dirò così, e politica, che risulta dalla presente constituzione del mondo.

Molte varietà hanno quindi da nascere, per quanto alle lettere si appartiene, tra gli antichi e noi; e tra le altre che, dove quelli scrivevano soltanto nella propria lingua, alcuni de’ nostri debbano preferire di comporre in qualche forestiero linguaggio, come pur fanno, perché da esso loro riputato più gentile o perché è più generalmente inteso del proprio. E coloro che si danno veramente agli studi ed hanno tra noi il titolo di letterati, non degnano depositare i loro pensamenti che dentro al sacrario delle lingue morte, le quali hanno il vanto, dicono essi, di essere intese in tutti i paesi, si trovano fissate dall’autorità degli scrittori, non vanno più soggette a verun cambiamento, e sono in certo modo divenute il linguaggio dell’universo e della eternità.

Per quanto speciose parer possano tali ragioni alla turba dei letterati, i quali si persuadono agevolmente, scrivendo nelle lingue [p. 330 modifica]dotte, di salire in fama a paro degli antichi maestri e di levare nel mondo una più gran vampa di ammirazione del proprio ingegno, sono pure in effetto i mal consigliati coloro che si mettono a scrivere in altra lingua fuorché nella lor propria e nativa. Diversi sono appresso nazioni diverse i pensamenti, i concetti, le fantasie; diversi i modi di apprendere le cose, di ordinarle, di esprimerle. Onde il genio, o vogliam dire la forma di ciascun linguaggio, riesce specificamente diversa da tutti gli altri, come quella che è il risultato della natura del clima, della qualità degli studi, della religione, del governo, della estensione dei traffici, della grandezza dell’imperio, di ciò che constituisce il genio e l’indole di una nazione. A segno che una dissimilitudine grandissima conviene che da tutto ciò ne ridondi tra popolo e popolo, tra lingua e lingua; e i politici tengono per naturalmente nemici quei popoli che parlano lingue diverse.

Gli orientali hanno un metaforeggiare, starei per dire, così caldo quanto è il cielo che sotto al quale son nati. La lingua latina, ch’era nelle bocche d’un popolo di soldati, non è lingua così rotonda e soave come la greca, ma è più ardimentosa e concisa. Orazio paragonò l’una al Falerno, vino gagliardo ed austero; l’altra al vino di Scio, generoso insieme ed amabile2. La nostra favella è maneggevole, [p. 331 modifica]immaginosa, armonica; disinvolta e gentile la francese; così questa come quella prende quasi l’impronta delle nazioni che in esse si esprimono. Gli Spagnuoli, signori di tanto mondo, parlano un linguaggio tutto sostenutezza e gravità. Gl’inglesi hanno moltissime forme di dire tolte dal commercio, dal bel mezzo delle scienze, e singolarmente dalla nautica tanto da essi coltivata. E quella loro lingua egualmente libera, che coloro che in essa parlamentano, soffre meno che qualunque altra la briglia dei fastidiosi grammatici.

Ora perché altri fosse atto a scrivere acconciamente in uno idioma non suo, converrebbe egli fosse un altro Proteo, atto a vestire qualunque più strana forma dipendente da un governo, da un clima, da un sistema di cose, nel quale non è altrimenti nato, e a svestire del tutto la propria sua e natural forma, che vuol pur vincere ad ogni istante, per quanto un faccia, e mostrarsi al di fuori. Come di cosa oltremodo singolare e mirabile si parla tuttavia di quel Greco il quale poteva cogli Ateniesi gareggiare di finezza d’ingegno, di austerità di maniere cogli Spartani, e quasi scordarsi tra gli Asiatici di esser nato in Europa, che sapeva divenir cittadino di ogni paese. Ennio per possedere tre lingue diceva di avere tre cuori 3. Diis geniti potuere. [p. 332 modifica]

Non pochi belli ingegni francesi tentarono nel passato secolo di comporre nella nostra lingua, quando le cose italiane erano di là da’ monti in tanta riputazione, che non era tenuto gentile chi non sapeva delle nostre maniere, non dotto chi non avea gran dimestichezza co’ nostri autori. Venne fatto a quel tempo ad alcuni Francesi di raccozzare a forza d’imitazione un qualche componimento che aveva assai di sembianza e anche di genio italiano. Tali sono tra parecchi altri esempi che addurre se ne potrebbono, le Vite di Lionardo da Vinci e di Leonbatista Alberti scritte da Raffaello Dufresne, e alcune cose singolarmente del Menagio 4. Pochi de’ nostri uomini furono nella nostra lingua più dotti di lui. Ma a niun Francese meglio riuscì di scrivere in italiano quanto all’abate Regnier, il quale all’Accademia della Crusca seppe ordire quell’illustre suo inganno contrafacendo una canzone come se fosse del Petrarca, ed arricchì la Toscana di una versione di Anacreonte, che sopra quelle medesimamente de’ Toscani meritò palma e corona. Se non che, a parlar giustamente, fu il Regnier nella poesia come [p. 333 modifica]il Pussino nella pittura, uomo francese e autore italiano: tanto è lo studio ch’egli pose ne’ nostri scrittori, oltre a quel molto ch’egli potè apprendere nella dimora ch’e’ fece tra noi.

E in ogni modo egli è molto meno difficile a scrivere come si conviene in una lingua non sua ma vivente, che in una che si rimane solamente dipinta in sulle morte carte de’ libri. Perchè in fine nè i principj del pensare, nè gli studj sono tra le varie nazioni di Europa così differenti, nè sono così diseguali gl’imperj, che tra esse non vi abbia molta proporzione ed analogia. Oltrechè di un grandissimo aiuto ti può essere la viva voce di coloro che pur parlano quella lingua in cui tu ti proponi di scrivere.

Dove altrimenti va la faccenda in una lingua morta. E pigliando in esempio la latina, in cui si suole dai dotti più comunemente scrivere, la educazione dei Romani avea per fondamento principj di religione, instituzioni, studj, costumanze e modi in tutto diversi da’ nostri. Donde nascevano espressioni ad essi modi corrispondenti e per niente adattabili alle nostre istituzioni ed usanze. Litare Diis manibus, come disse il Bembo, per celebrare la messa dei morti, interdicere aqua et igni per fulminar la scomunica, Collegium augurum per il Concistoro dei cardinali, sono sconvenevolezze tali, che maggior non sarebbe il mettere indosso a uno de’ nostri dottori la toga romana, il voler porre su’ nostri altari la statua di Venere anadiomene o di Marte vendicatore. [p. 334 modifica]

Non mihi mille placent, non sum desultor Amoris,5


spectatum satis et donatum iam rude quaeris,
Maecenas, iterum antiquo me includere ludo6,

erano immagini vivissime appresso ai Romani per dire che uno non fa il zerbino in amore, che l’altro dopo un lungo servigio domanda il riposo. Appresso di noi, che non siamo soliti assistere allo spettacolo de’ gladiatori e abbiam perduto l’arte dell’antica cavallerizza, non sono intese che per via di comento; sarebbono immagini disconvenienti, se da un moderno poeta si usassero, da fare almeno sulla nostra fantasia così poca impressione, che farieno a un Samoiedo o a un Lappone quei versi del nostro poeta:

          E quale annunziatrice degli albori
               L’aura di maggio movesi ed olezza
               Tutta impregnata dall’erba e da’ fiori.

Dalla grandezza similmente del romano imperio, di tanto superiore in potenza agli imperj del tempo presente, nascevano maniere di esprimersi elevate e grandiose, che male si confanno con le cose di oggidì. Doveano quelle maniere corrispondere a’ concetti di una gente che vedea i loro propri concittadini avere per clienti dei re, che gli vedeva far costruire dodici mila sale per banchettare il popolo, trionfare ad un tempo delle tre parti del mondo: intantochè fu detto da un bello ingegno che [p. 335 modifica]quando leggeva le cose de’ Romani, gli era avviso che un passerotto leggesse la storia delle aquile. Qual nuova disconvenevolezza adunque il vedere i fatti de’ Pieri, de’ Giovanni e de’ Mattei descritti con le frasi di Tito Livio e di Giulio Cesare, udire un pedante arringare i suoi ragazzi con quella gravità che un consolo parlava in Senato, voler suggellare le moderne imprese col regna adsignata, coll'orbis restitutori, col pace terra marique parta Janum clusit, e con altre simili antiche leggende, adattare alla picciolezza delle cose nostre la maestà del linguaggio di quel popolo re?

Ma diamo che tale e tanta sia la discrezione di giudizio in chi compone, ch’egli venga a schivare lo inconveniente della magniloquenza, che è quasi connaturale ai latini scrittori, dov’è colui che possa sedere a scranna e farsi a decidere della Crusca latina, sicché non ci rimanga scrupolo alcuno di aver usato il termine naturale e proprio; che è pur nello scrivere la importantissima cosa di tutte, onde nella mente dell’uditore si viene ad eccitare quella precisa idea che conviene, e non altra, ed equivale alla intonazione perfetta, al toccar giusto nella musica? A ciò fare ci vogliono altri maestri che i semplici libri. E il più delle volte la moltitudine è una miglior guida, che esser nol possono gli scrittori. Il Satirico francese, volendo dimostrare e mordere a un tratto la presunzione di coloro che si piccavano in Francia di scrivere latinamente, introduce in certo suo dialogo Orazio a parlare la lingua francese, da esso lui appresa nell’ozio degli Elisj per via [p. 336 modifica]della lettura degli scrittori e de’ migliori libri che ne dieno le regole. Con tutto il suo ingegno e il suo studio commette in parlando di non piccioli errori; per esempio si serve della parola cité, dicendo la cité de Rome, dove conviene dire la ville de Rome; dice le pont nouveau, e va detto le pont neuf; e cade in simili altri barbarismi, dando di che ridere a un Francese col quale s’intrattiene. Si mette costui a correggerlo; Orazio a difendersi. Replica il Francese, e a tutte le autorità addotte in suo favore dal poeta latino egli va contrapponendo le leggi sovrane dell’uso corrente, che è il vero padron delle lingue,

quem penes arbitrium est, et ius, et norma loquendi.

E Orazio, sconfitto dalle sue proprie armi, ammutolisce, e colle trombe nel sacco se ne torna a raggiungere i suoi compagni nella beatitudine dell’Eliso.

Ma senza andar dietro agli apologhi e alle finzioni, di tale verità ne siamo testimonj noi medesimi in Italia. E non si vede egli bene spesso le scritture di quei nostri italiani i quali, senza voler badare a quella favella che è nelle bocche degli uomini, hanno volti unicamente i loro studj a imitare gli antichi autori di nostra lingua, sono piene di affettazione, di parole insolite e diciamo anche d’improprietà, sono alle persone di gusto uno isfinimento di cuore? E già credettero dover fare, per bene scrivere in italiano, qualche dimora in Firenze l’Ariosto, il Caro, il Chiabrera, il Guarino, il Castiglione e il Bembo, tuttoché nati e cresciuti nel bel mezzo d’Italia. [p. 337 modifica]

Al pericolo di non usare scrivendo per latino le voci proprie, si aggiunge anche quello non punto minore, che nello stile che nasce dall’insieme di esse non vi abbia naturalezza, nè unità. Dal dover noi raccogliere le parole di pochi e morti scrittori quasi gocciole dalle grondaje, dice il Davanzati, tutti differenti di genere e di stile, e non potere attingere al perenne fonte della città, ne viene in conseguenza che si va riducendo insieme un componimento di frasi latine bensì, ma che non è per niente latino: unus et alter assuitur pannus; e il risultato non può essere altro che uno stile rotto, stentato e non di vena. Onde de’ latinanti della età sua ebbe a dire ne’ giudiziosi suoi capricci quel bell’umore del Gelli: Facciano quanto sanno; e’ non si vede mai ne’ loro scritti quel candore, nè quello stile che è ne’ Latini proprj.

Nello stato presente della lingua latina ristretta, come abbiam detto, in picciol numero di autori, non basterebbe già ella a’ Romani stessi per esprimere tutti i loro concetti: e molto meno dovrà bastare a noi, i quali dovremmo in essa esprimere tante nuove cose apparite nel mondo, per quanto si spetta alle arti, alle scienze, ai traffici, ai governi, alle religioni, dopo che è spenta quella lingua. Nè lecito è a noi, essendo ella pur morta, il pensare di potervi aggiugnere nulla di nuovo. Le lingue nascono povere, dice Bernardo Tasso7: e siccome i principi fanno agli uomini [p. 338 modifica]le donazioni e i privilegi degli onori e degli stati, così la liberalità degli ingegni di alto sapere forniti e di purgato giudizio fanno le donazioni e i privilegi alle lingue delle parole, delle locuzioni, delle figure e degli altri ornamenti del dire; e con la loro autorità li confermano per tutti i secoli. In tal maniera quel chiaro ingegno incoraggisce il Caro a voler ampliare, arricchire la nostra lingua, ad aggiugnervi nuovi modi di dire e nuove bellezze. La qual cosa non avrebbe già egli fatto, se trattato si fosse della lingua latina. Noi non abbiamo sopra di essa, che punto a noi non si appartiene, ragione alcuna né diritto. In essa, come in ogni altra lingua morta, conviene esaminare quali sieno le donazioni e i privilegi, che già le furono conceduti dalla munificenza degli antichi: a quelle donazioni e a quei privilegi unicamente bisogna stare, senza che vi sia luogo alla liberalità dei moderni. E qualunque cosa vorremmo noi aggiugnere alle vecchie pergamene, sarebbe rigettato a ragione come interpolato, falso ed apocrifo.

Finalmente, per quanto grandi sieno le difficoltà che incontrano coloro i quali si danno a scrivere in prosa latina, maggiori ancora sono quelle che s’incontrano nei versi. E ciò perché ivi si ricercano modi di dire di somma gagliardia o di somma dilicatezza, e in ogni cosa il fiore ultimo della espressione. Il che non si può ottenere se non hai come schierata dinanzi alla mente la suppellettile tutta e il tesoro delle parole, delle locuzioni e delle metafore della lingua in cui tu scrivi. Anzi [p. 339 modifica]non basta quello che dagli altri fu detto: è necessario formarsi talvolta come una nuova lingua; perché la espressione penetrando addentro nell’animo non sia, come altri disse,8 superficiale, perché si dia sfogo a quell’estro che ha invaso ed agita il poeta. Le quali cose pur sappiamo avre fatte i poeti latini non già in tempo che povera esser trovavasi la romana favella, ma quando sotto al dominio di Augusto pervenuta era al colmo della ricchezza. Per vie maggiormente animare i loro concetti hanno inventato di nuove parole, per dare alla espressione più vivacità e più mossa sonosi serviti di ellenismi come di più pronti atteggiamenti, e brillano a ogni verso metafore da esso loro formate quasi nuovi lampi d’ingegno. Ma qual cosa potranno fare coloro che si danno a poetare in una lingua ristretta dentro a’ confini che vi han posto gli antichi scrittori, che maneggiare non posson a lor talento, dove non è loro permesso niuno ardire, anzi hanno da temere del continuo di non mettere piede in fallo e si trovano esser sempre tra il Calepino e la grammatica, quasi direi tra l’ancudine e il martello? Sarà pur loro forza rintuzzare il proprio entusiasmo, porre i piedi nelle pedate altrui, accrescere la greggia degl’imitatori.

La moderna schiera in effetto de’ poeti latini, quelli eziandio che hanno il maggior grido tra noi, non meritano forse altro titolo [p. 340 modifica]che quello di centonisti, facendo soltanto bella comparsa quando si mostrano rivestiti delle spoglie o delle divise altrui. Assai facilmente le riconosce chiunque è versato nella latina poesia. Anzi bene spesso si può accorgere come le espressioni che negli antichi autori trovansi belle e fatte, guidano esse e formano il sentimento del poeta, in luogo che i pensamenti si tirino dietro le espressioni. E tale autore che in lingua italiana è poeta casto e platonico, diviene licenzioso ed epicureo in lingua latina, trattovi come a forza dalle frasi di Catullo e di Ovidio, suoi maestri e suoi duci.

Che se pure vogliono alcuni esprimere le particolari loro impressioni, rappresentar nettamente le modificazioni del loro animo, troppo male ne riescono. Assecondare il proprio naturale, trovare modi di dire che sieno il nostro caso in una lingua da tanti secoli morta, è impossibile. Perchè avendo, come si è detto, per tante cause variato le cose, non vi possono più rispondere le espressioni. E così, dovendo noi accomodare le immagini ai colori e non i colori alle immagini, ogni cosa riesce languido e fosco.

Guai al divino Ariosto se dava orecchio al Bembo, il quale lo consigliava di lasciar da banda le muse italiane e darsi tutto in braccio a quelle del Lazio. Nè già lo stile di Dante sarebbe così vivo, che si trasforma nelle cose medesime, s’egli avesse disteso il suo poema in latino. E ben si potrebbe dire di lui

che la dritta via era smarrita,

[p. 341 modifica]quando egli avesse proseguito giusta quel suo principio:

Infera regna canam supero contermina mundo.

Che se a cagione del poema latino dell’Affrica fu coronato il Petrarca in Campidoglio, conviene considerare che ciò avvenne in tempi che il raccozzare pochi versi in quella lingua era tenuto a miracolo; e la verità si è che il Petrarca non per altro è famoso, letto e studiato, che per le sue rime volgari.

Degna adunque di somma lode, per quanto in favore della lingua latina vadano predicando gli Aldi, i Romoli Amasei ed altri simili invasati nell’antichità, è la usanza che si va di dì in dì facendo più comune, che ogni scrittore, là dove specialmente gioca la fantasia, scriva nel materno suo linguaggio. In esso solamente gli è conceduto di esercitare tutte le sue forze, di spiegarle con franchezza e disinvoltura; come a quel soldato che non si serve della corazza e de’ braccialetti altrui, ma ha l’armatura fatta al suo dosso. In tal modo solamente potrà nutrire fondata speranza di emulare quei Greci e quei Latini che scrissero essi pure nel proprio loro linguaggio, in quello cioè che si affaceva unicamente a’ loro modi di sentire, di apprendere, di pensare; e potrà con ragione appropriarsi di quelle memorabili parole di Dante,

. . . . . I’ mi son un che quando
Natura spira, noto et a quel modo
che detta dentro, vo significando;

che è il solo mezzo di giugnere alle altezze più sublimi dell’arte.

Note

  1. In early days, mankind had little else to study but a few maxims of life, or rules of conduct; which from their fewness and simplicity, it was easy both to learn and to practise. When arts and sciences began to spread through a larger circle, as they did in Greece, stil people could learn the whole Encyclopedie in their own langage. And even at Rome, when they set about studing Greek, as it was then a living langage, spoken in a neighbouring country, they could have a little more trouble in learning it, then we have in learning French. It was reserved for modern times to have two or three dead langages to learn. So that during the greatest part of that time, in which the Ancients were teaching their children to be Citizens we are teaching ours to be little better than Parrots.
    A New Estimate of Manners and Principles, or a Comparison between ancient and modern Times, in the three great articles of Knowledge, Happiness, and Virtue, part III.

  • . . . at sermo lingua concinnus utraque
    suavior, ut Chio nota si commixta Falerni est.

    Sat. X, Lib. I.
  • Q. Ennius tria corda habere sese dicebat, quod loqui graece, osce et latine sciret.
    Aul. Gel., Noct. Att., Lib. xvi, cap. 17.
  • Assai grazioso tra gli altri è quel suo madrigale:

    O strana sorte e ria!
    E chi lo crederia?
    A te pur sola dissi,
    A te pur sola scrissi
    L’amoroso mio affanno;
    A tutt’altri ’l celai:
    E pur tutti lo sanno,
    Tu sola non lo sai.

  • Ovid., Amorum Eleg. III, Lib. I.
  • Horat., Epist. I, Lib. I.
  • Lettere di Bernardo Tasso al Caro, vol. I, ediz. Com. lettera I del primo volume.
  • Essays de Montaigne, Liv. III, chap. V.