Scritti sulla storia della astronomia antica - Volume II/XIV. - Sui Parapegmi o Calendari astro-meteorologici degli antichi/I

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I. - Come i popoli primitivi, per regolarsi sul corso delle stagioni, dovessero ricorrere alla osservazione immediata dei fenomeni celesti

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I. - Come i popoli primitivi, per regolarsi sul corso delle stagioni, dovessero ricorrere alla osservazione immediata dei fenomeni celesti
XIV. - Sui Parapegmi o Calendari astro-meteorologici degli antichi XIV. - Sui Parapegmi o Calendari astro-meteorologici degli antichi - II

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I Parapegmi o Calendari astrometeorologici dei Greci e dei Romani sono da annoverare fra le reliquie più curiose, se non fra le più importanti, dell’antica scienza; e costituiscono il primo tentativo razionale che sia stato fatto per arrivare ad una previsione approssimativa del tempo. Gli autori che scrissero la storia dell’Astronomia se ne occuparono assai poco, e poco anche ne discorrono quelli, che ai nostri tempi hanno cominciato ad abbozzare la storia della Meteorologia. Lo stesso Van Bebber, il quale nel suo Manuale per lo studio pratico dei fenomeni atmosferici ha dato una storia, così erudita e così piena di fatti, della previsione del tempo presso gli antichi e presso i moderni, fa soltanto pochi cenni di uno dei detti Calendari; nè a questo, nè agli altri sembra attribuire molto interesse1. Io sono d’opinione alquanto diversa; e perciò voglio tentare di esporre brevemente quanto su tali Calendari ho potuto apprendere dai numerosi frammenti che ancora ne restano, e dai passi degli autori classici, che a tale materia si riferiscono.


I. Come i popoli primitivi, per regolarsi su corso delle stagioni, dovessero ricorrere all’osservazione immediata dei fenomeni celesti.


Pochi sanno estimare al giusto l’immenso benefizio, che ogni momento godiamo, dell’aria respirabile, e dell’acqua, non meno necessaria alla vita; così pure pochi si fanno un’idea [p. 238 modifica]adeguata delle agevolezze e dei vantaggi che all’odierno vivere procura il computo uniforme e la divisione regolare dei tempi. Il nostro agricoltore può fin dal primo di gennaio stabilire tutta intiera la serie dei lavori che dovrà eseguire nell’anno entrante e determinarne con molta approssimazione l’ordine e le epoche; il che gli permette d’impiegare nel modo più utile il suo lavoro, e di fare tutte le sue operazioni nel tempo più opportuno. E tutto questo ei non s’avvede neppure di doverlo al suo Calendario, che gli costa pochi centesimi, od anche nulla. Trasportiamoci invece collo spirito nel mondo greco alla fine dei tempi eroici ed alle origini della storia positiva; quando, l’uso della scrittura non essendo ancora importato dalla Fenicia, od essendo tuttavia il segreto di pochi, si tramandavano di padre in figlio, a memoria ed a viva voce, i canti di Omero. Calendario fisso allora non v’era; il tempo si numerava per giorni, e quando i giorni eran troppi, si contavan le lune; delle quali l’esatta relazione coll’anno solare rimase lungo tempo incerta. Gli anni eran contrassegnati dal numero delle estati e degli inverni; e per non deviar troppo nel loro computo delle vicende delle stagioni, i Greci li facevano (come molte altre nazioni dell’Oriente) ora di 12 lune, ora di 13. Quanti giorni poi fossero in un anno solare, i Greci non lo seppero mai bene prima della guerra del Peloponneso. In un sistema così informe e così incerto, dove le date dei solstizi e degli equinozi potevano oscillare quasi di un mese da un anno all’altro (dato pure che le intercalazioni del 13° mese si facessero sempre a dovere) non era certamente possibile avere una norma costante e semplice per fissare le epoche dei lavori agricoli, e di tutte le occupazioni strettamente legate al corso delle stagioni.

Non rimaneva dunque altro espediente che approfittare del Calendario naturale scritto sulla volta celeste dal Sole col suo moto annuo e diurno. Questo si poteva fare in due modi: osservando cioè le diversità che mostra lungo l’anno il corso diurno apparente del Sole sopra l’orizzonte; o notando il diverso aspetto, che in conseguenza del progresso annuale del Sole lungo lo zodiaco presenta il cielo notturno nelle diverse stagioni. A noi il primo di questi modi parrebbe il più diretto ed il più semplice. Stabilito un gnomone, e tracciata pel suo piede una linea non troppo distante dalla direzione del meridiano, questa sarà in ogni giorno dell’anno toccata una volta [p. 239 modifica]dal vertice dell’ombra; onde notando successivamente di giorno in giorno i luoghi ove ciò avviene, non solo si potranno facilmente stabilire con qualche approssimazione le epoche dei due solstizi, ma anche si potrà fissare con segnali lungo quella linea il luogo occupato dal vertice dell’ombra in tante epoche intermedie quante occorrono. Il ritorno periodico di esso vertice al medesimo punto permetterà di stabilire senza troppo grave errore il principio dell’anno in modo invariabile, e di seguire pel corso del medesimo le vicende delle stagioni e dei fenomeni atmosferici.

Un tale sistema di osservazioni esclusivamente solari non fu praticato dai Greci, nè allora nè poi. Le osservazioni gnomoniche e la loro applicazione alle divisioni minori dell’anno suppongono uno studio continuato, nozioni di geometria, e sopratutto uno spirito d’investigazione metodica dei fatti naturali, che in nessun tempo fu molto diffuso nelle classi popolari. Tuttavia è indubitato, che se non le divisioni minori dell’anno, almeno i due punti più fondamentali di esso, cioè i solstizi, in epoca assai remota furono osservati in Grecia. Nell’Odissea il pastore Eumeo, narrando ad Ulisse le proprie avventure, descrive l’isola di Syros sua patria, dove si vedono le conversioni del Sole, ὄθι τροπαὶ ἤελίοιο (libro XV. v. 404). Il qual passo così è tradotto dal Pindemonte:

Cert’isola, se mai parlar ne udisti,
Giace a Delo di sopra, e Siria è detta,
Dove segnati del corrente Sole
I ritorni si veggono.

Si allude qui manifestamente all’osservazione dei solstizi, presa coll’aiuto di un gnomone o di altra cosa equivalente, come la vetta di un monte, il fastigio di un edifizio, una colonna, od anche un semplice foro praticato nella parte superiore di una camera chiusa, al modo dei gnomoni che eressero Cassini in Bologna, e Toscanelli in Firenze. Fu ad ogni modo una struttura durevole e monumentale, perchè di questo apparato solstiziale od eliotropio (come fu detto di poi) l’esistenza si prolungò per più secoli fino ai tempi istorici, come più sotto si vedrà. È stato congetturato con molta verosimiglianza, che questa non fosse un’invenzione dei Greci, ma loro venisse dall’Asia e probabilmente da Babilonia per mezzo dei [p. 240 modifica]navigatori fenici, i quali non avevano ancora perduto allora il loro commercio dell’arcipelago greco. A detta dello stesso Omero il porto di Syros era frequentato dalle navi di Sidone. Erodoto afferma nel libro secondo delle sue Storie, che i Greci ricevettero da Babilonia l’uso del gnomone e dei quadranti solari. E dobbiamo credere che da Babilonia pure venisse il celebre quadrante solare, che secondo la Bibbia esisteva nella reggia di Achaz Re di Giuda (730 av. Cr.).

Sarebbe tuttavia un errore il dedurre da questo passo di Omero, che l’uso di simili gnonomi od eliotropi fosse molto divulgato in Grecia ai tempi del poeta. La menzione speciale ch’egli ne fa, come di una particolarità notabile e caratteristica dell’isola di Syros dimostra che esso era una cosa rara, anzi unica in Grecia. L’osservazione dei solstizi non è poi cosa facile a far bene con un apparato di piccola dimensione e da persone non bene istrutte in questa bisogna. Nelle epoche solstiziali il Sole cambia la sua declinazione con tale lentezza, che all’osservatore non munito di strumenti sembra percorrere per molti giorni lo stesso parallelo; l’ombra dei gnomoni resta per più settimane quasi invariata. «Avvicinandosi il Sole ai tropici (scriveva Polibio istorico nella sua opera perduta Delle abitazioni sotto l’equatore) od allontanandosi da essi, il Sole rimane sempre loro vicinissimo, e la lunghezza del dì e della notte non varia quasi affatto per lo spazio di quaranta giorni». Una indeterminazione di quaranta giorni è cosa grave, anche trattandosi di agricoltura e di navigazione. Ciò malgrado, già nel poemetto d’Esiodo (800 av. C.), intitolato Opere e giorni, troviamo usati i solstizi come base a regole del calendario rustico e nautico. Questo ci porta a credere, che la determinazione di quei punti fondamentali dell’anno non fosse abbandonata alla stima degli agricoltori, ma si eseguisse in qualche luogo e quasi officialmente con una certa esattezza e regolarità. Lo stesso dobbiamo concludere dal fatto, che già in quel tempo appaiono le lune, o mesi, con nomi speciali e con posizione abbastanza stabile rispetto alle stagioni dell’anno. Esiodo nel citato poema (verso 502) nomina il mese Leneo come quello contrassegnato dal massimo freddo e dalle peggiori intemperie. Già dunque allora, come più tardi, si usava combinare in un anno ora 12, ora 13 lune intiere, in modo che alle lune od ai mesi del medesimo nome corrispondesse sempre all’ingrosso la medesima stagione. Qnest’intercalazione della 13a luna si [p. 241 modifica]operava senza dubbio secondo che il bisogno ne era manifesto e senza regole molto esatte; tuttavia non si poteva fare nè bene nè male senza una cognizione alquanto approssimata delle epoche solstiziati. È naturale pensare che per tale effetto i Hieromnemoni o curatori delle pubbliche solennità religiose, che formavano un Comitato a parte nel celebre Consiglio degli Amtictioni, si valessero appunto delle indicazioni date dal monumento astronomico di Syros, o da qualche altro simile.

Note

  1. Van Bebber, Handbuch der ausübeden Witterungskunde, Stuttgart, 1885, vol. I, pp. 47-48.