Scritti vari (Ardigò)/Polemiche/La psicologia positiva e i problemi della filosofia/Dialogo III

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La psicologia positiva e i problemi della filosofia.

Dialogo III. - Il filosofo e un ignorante.


Ignorante — Sublime filosofo, permettete che mi inchini alla acutezza del vostro ingegno, e più ancora alla maestosa vostra magniloquenza.

Filosofo — Parlate da senno o mi burlate?

Ignorante — Da sennissimo. Quelle vostre metafore sono gemme inapprezzabili. L’altro giorno le corna, oggi le zucche, e il vescovo che va a cresimarle nella mellonaja (1). Ma queste sono meraviglie più meravigliose che non le sette antiche meraviglie del mondo. Resto solo maravigliato come abbiate trovato sul Vessillo nel nostro dialogo, che io pubblicai a benefizio degli ignoranti miei pari, il nome del Vescovo, che non c’è un jota.

Filosofo — Ci vuol tanto a capirlo? Viene fuori dal Seminario. Dunque...

Ignorante — Ah! Ho capito: voi da buon filosofo positivista, che fabbrica tutto sopra le sole sensazioni, che [p. 100 modifica]vengono dai cinque sensi, l’avete fiutato (col naso, s’intende), come certi sillabici hanno fiutato quel bravo uomo, che siete voi (Provincia, n. 67).

Filosofo — Ho detto in generale, non ho inteso parlar di me.

Ignorante — Oh! siete troppo modesto! Però avete addotte tutte le particolarità necessarie, affinchè ognuno, leggendo, richiami al pensiero infallibilmente la persona (ivi) di cui intendevate parlare, e quindi mi perdonerete se... Non vi ho poi fatto disonore, se ho creduto che siate il bravo uomo cresciuto in mezzo ai Mantovani a loro insaputa e loro malgrado, benchè neghi che vi abbiano perseguitato. E poichè vi stimo un bravo uomo, vorrei sapere come avete fatto colla vostra psicologia a scoprire l’autore del nostro dialogo.

Filosofo. — Voi non sapete nemmeno che cosa voglia dire psicologia.

Ignorante — Verissimo, perchè sono ignorante, e perciò vi prego di istruirmi.

Filosofo — La faccenda è lunga: convien prendere le cose dall’alto.

Ignorante — Anche dalla cima della cupola di S. Andrea, se volete.

Filosofo — La cognizione è vera per sè stessa.

Ignorante — Quando non sia uno sproposito.

Filosofo — Non può mica esserlo, perchè ciò che si chiama rappresentazione, o idea, non è una appartenenza di un soggetto.

Ignorante — La non c’entra nella mai testa: io mi rappresento il sole; e questa immagine non ha valore come cognizione, nè dipende dalla somiglianza del suo oggetto, cioè del sole?

Filosofo — No, perchè è una realtà in se stessa, e per essere concepita come tale non ha bisogno di essere riferita nè ad un soggetto, di cui sia il modo di esìstere, nè ad un oggetto, di cui sia l’immagine.

Ignorante — Se ho capito bene questa vostra filosofia [p. 101 modifica]trascendentale, la faccenda cammina così. Ecco il ritratto che si dice di Napoleone I. È desso proprio il suo ritratto? Per saperlo non c’è bisogno nè di un soggetto che lo possa o voglia sapere, nè che sia stato al mondo Napoleone I, per verificare se ne sia proprio l’immagine. Vi veggo le mie buone difficoltà.

Filosofo — La cognizione consiste nel semplice fatto di essere data, e questo è sempre vero.

Ignorante — E come farò a conoscere che quello sia il vero ritratto, se manca il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto? Mi sarà dunque impossibile conoscere anche qualunque altra verità.

Filosofo — Ma non vi ho detto che la cognizione è vera per sè stessa; che la sua verità non consiste in una supposta corrispondenza con un termine opposto; corrispondenza che, essendo indimostrabile, induce necessariamente lo scetticismo?

Ignorante — Ma scusate, signor Filosofo; ma se ho qui una figura, che si dice essere il vosto ritratto, e insieme la vostra graziosa persona (che Dio salvi ad multos annos), non potrò dire se il ritratto vi somigli, o no? E la sua corrispondenza col suo originale sarà indimostrabile? Oh! andate là che siete proprio un originale!

Filosofo — Voi intendete le cose troppo materialmente.

Ignorante — E come volete che faccia altrimenti, se la sensazione, unica fonte, secondo voi, di cognizione, non mi dà altro.

Filosofo — Dovete capire che la cognizione, e quindi la sua verità consiste nel semplice fatto di essere data.

Ignorante — Quindi se uno mi dice che il sole è nero, che il circolo è quadrato, che voi siete un matto, siccome è un fatto che queste cognizioni mi sono date (da un altro matto, vedete), conviene che concluda che sono vere.

Filosofo — Ma voi mi mancate di rispetto, e non posso scusarvi che col darvi dell’ignorante.

Ignorante — Grazie! Questo è proprio in [p. 102 modifica]corrispondenza coll’oggetto che sono io; e quindi voi ritornate così a ragionare all’antica.

Filosofo — Mai più, mai più. I filosofi fin’ora non hanno capito che cosa sia verità volendola riferire a certe loro pretese idee assolute, necessarie, universali, eterne, ecc. ecc.

Ignorante — Roba troppo fina. Io ho bisogno di cose chiare, come a dire: due e due quattro; quattro e quattro otto; eccetera.

Filosofo — Benissimo! Premetto dunque che tutti gli atti psichici...

Ignorante - Che, che! Che cosa sono questi atti psichici?

Filosofo — Tutte le cognizioni particolari o astratte, voleri, affetti, ecc. tutti, nessuno eccettuato, sono, o sensazioni o ricordanze di sensazioni. E perciò dipendono totalmente dalla qualità, dalla forma, dall’atteggiamento di qualche organo.

Ignorante — Dunque supposto un altro organismo, p. e. un naso più grasso o più piccolo, un occhio nero, o cilestro, un orecchio più corto come il vostro, o più lungo come il mio, il pensiero dell’uomo sarebbe affatto diverso.

Filosofo — È quello che, senza le vostre scurrilità da ignorante, dico anch’io. Con un altro organismo le cose al nostro pensiero si presenterebbero diversamente; come all’occhio, se gli mettiamo avanti un vetro colorato, si colorano diversamente gli oggetti che osserva.

Ignorante — Chiara, come due e due fanno quattro. Dunque con un certo organismo due e due fanno quattro, quattro e quattro faranno otto; e con un altro organismo due e due faranno sei, e quattro e quattro faranno dodici. Coll’organismo di una forma il circolo sarà rotondo, e con uno diverso il circolo sarà quadrato. L’occhio rivolto alla destra mi mostra la neve bianca, in un altro atteggiamento, volto p. e. a sinistra, me la fa comparire rossa. E siccome la cognizione è vera per sè stessa, e non vi è bisogno di riferirla ad un oggetto, come sarebbe p. e. confrontare [p. 103 modifica]i computi coll’abbaco, posso dire che tre via quattro fanno quindici, e tre via cinque fanno venti, e lasciar che l’abbaco gridi finchè vuole all’errore, poichè se sono veri i suoi computi fatti coll’organismo di chi lo inventò, sono veri anche i miei fatti con quell’organismo che mi fè madre natura, o per dir meglio coll’organismo atteggiato alla forma della vostra positiva psicologia; che Dio me ne scampi in eterno.

Filosofo — Sapete la cosa com’è? Voi avete un organismo che capisce tutto al rovescio.

Ignorante — Grazie anche di questo.

Filosofo — Io vi dirò una cosa che parerà assurda, o almeno stranissima, ma che pure è vera.

Ignorante — Attenti!

Filosofo — Coll’organismo diversamente disposto potremmo chiamare esterne quelle che adesso chiamiamo sensazioni interne, e viceversa.

Ignorante — Adesso capisco finalmente che cosa sia un filosofo positivista, e mi pare di esserlo divenuto ancor io. Mi sento un forte dolor di ventre, e mi sembra una sensazione interna; ma con un altro organismo la potrei chiamare esterna, p, e. un soffio di vento entrato per la finestra. Tocco e palpo questo pane e sgretolandolo allegramente credo che mi entri per la bocca nello stomaco, e di esterno diventi interno; ma variando il gusto del palato posso affermare che è tutto un interno lavorio della immaginazione, e così mangiare e saziarmi coll’aria che spira. Un ignorante di matematica, come sono io (ed è ben vergogna perchè al presente la matematica si insegna anche ai bimbi degli asili infantili), dice: sette e cinque quindici, e può darsi che questa sensazione interna, cioè questo sproposito, divenga un altro giorno, con altro atteggiamento del cervello, una sensazione esterna, cioè una verità tanto vera quanto la vostra psicologia positiva; con questo solo incomodo che converrà stampar un abbaco per ogni organo secondo il suo presente atteggiamento, colla riserva di mutarlo ad ogni variazione che pel caldo o pel freddo, [p. 104 modifica]per l’umido o per l’asciutto vengono a soffrire questi organi molto delicati. Fortuna che sono state inventate le macchine da stampa a vapore!

Filosofo — Voi non siete buono che di spargere di ridicolo le cose più serie.

Ignorante — Perdonate! Io anzi parlo sul serio di cose da ridere, e dico che la vostra scienza nuova è una nuova panacea per guarire tutti i matti dell’ospedale, che non si dovranno più stimar matti, ma filosofi positivisti. State a sentire; questi si crede imperatore del Giappone, quest’altro figlio del cielo, un terzo ricco come Rotschild, un altro inventore dell’arte di volare. Tutte queste sono sensazioni interne, ma però tutte vere, perchè la loro verità non dipende dalla corrispondenza col loro oggetto: e queste da interne possono diventare esterne, e sempre verissime: e quindi verissimo che il primo è imperatore del Giappone, il secondo figlio del cielo, il terzo un riccone sfondato e il quarto lo vedremo volar per aria; e tutto questo in grazia della psicologia come scienza positiva.

Filosofo — Poche parole e saranno le ultime (Provincia, n. 62). Voi non siete buono che d’ingiuriare.

Ignorante - Domando perdono.

Filosofo — No, no: la cosa sta così. Se io fossi vendicativo vi farei mettere in prigione.

Ignorante — Ed io, se fossi ministro della pubblica istruzione, vi manderei a insegnare la filosofia al manicomio.

(Dal n. 18, Mantova 1 settembre 1872, del giornale Il Vessillo Cattolico).


La psicologia positiva e il vescovo signor Rota.

Monsignor Rota ci regala un terzo dialogo sulla mia psicologia. Mi permettono i lettori della Provincia di dirne qualche cosa malgrado l’intenzione già espressa di non [p. 105 modifica]parlar più? Sarà credo non inutile affatto per la causa santa della scienza e della moralità.

Dunque, neanco nel terzo dialogo non ha saputo rispondere a nessuna (dico nessuna) delle precedenti mie domande e argomentazioni.

Nemmeno a quella ultima umilissima delle zucche. Rispetto alla quale ha creduto (molto ingenuamente in vero) di cavarsela, dicendo che, se volesse rispondere, gli sarebbe facilissimo, anzi troppo facile, di farlo. La cavatina, signor vescovo, non gioverà a salvarla. Non ha risposto, perchè non lo può. Nè lei, nè nessuno. E mi smentisca, se è in grado.

Dunque constato di nuovo: Non può rispondere.

Io, per me, la consiglierei, nel frangente, a chiamare in suo ajuto il signor Arciprete di Montagano, Agostino Tagliaferri, del quale in calce al Vessillo di Domenica, è annunciata la seconda edizione di un Esame del mio libro, e che io servirò poi a suo tempo, insieme con qualche altro. Provi, signor Vescovo, se, con quell’ajuto, potesse cavarsi d’impaccio.

Ma, se non risponde a niente, che cosa contiene il terzo dialogo?

In primo luogo delle carezze episcopali e rotiane al mio indirizzo.

In secondo luogo, un nuovo saggio, ed insigne, di lealtà.

In terzo luogo, dei nuovi ragionamenti che, come di solito, il signor vescovo Rota ha fatto per imbrogliare vieppiù sè stesso.

Delle carezze non dirò niente. Si sa che quando si è baciati troppo amorosamente non si ha piacere di essere veduti, stante l’offesa che ne verrebbe al pudore. Dirò solo dei ragionamenti e della lealtà.

I ragionamenti si possono ridurre a tre. Uno, sulle sensazioni interne ed esterne; un altro sulla verità della [p. 106 modifica]cognizione obiettiva; e un terzo, sulla corrispondenza tra la forma dell’organismo e quella del pensiero.

Una domanda per ciascun ragionamento.

1°: Che significano presso i psicologi, anche ultraortodossi, le espressioni, sensazione interna e sensazione esterna? Ed in che rapporto stanno, l’una e l’altra, colla organizzazione, nell’uomo e negli altri animali, secondo i dati positivi della fisiologia umana e comparata?

2.°- Giusta l’insegnamento di tutti quanti i filosofi di vaglia (compresi, s’intende, anche gli ultraortodossi), ciò che si dice — la cosa — , nel confronto che si fa di essa colla sua idea, è forse altro dalla mera percezione, che è quanto dire da un semplice pensiero?

3.°- L’organizzazione fisiologico-psichica dell’uomo porta, che egli abbia il pensiero del numero, della figura geometrica e via discorrendo. E quindi, che due e due faccia quattro e non cinque, e che il circolo sia il circolo e non il quadrato. E ciò perchè è appunto in siffatte ragioni che consiste l’avere il pensiero dei numeri e delle figure geometriche. Quella stessa organizzazione pel numero, per la quale arrivate a dire, due, vi costringe a dire, due e due quattro. Quella stessa organizzazione per la figura geometrica, per la quale arrivate a concepire il circolo, vi costringe a concepirlo come circolo e non come quadrato. Facciamo ora, col dialogista, l’ipotesi, che si cambi quella organizzazione; e che gliene sottentri un’altra, che non comporti più che si abbia, nè il pensiero del numero, nè quello della figura geometrica. In questo caso, come si potrà fare la supposizione tanto furba del dialogo, che si pensi — due per due fa cinque — dove non si ha più il pensiero, nè del due nè del cinque; e — il circolo è quadrato — dove non si ha più il pensiero, nè del circolo nè del quadrato?

Ora a Lei, signor Rota. Può o non può dare delle risposte a queste tre domande?

Non può? In questo caso si dovrebbe conchiudere che giudica ciò che non conosce. [p. 107 modifica]Può? Ma allora, siccome le risposte stesse fanno da sè svanire le obiezioni, si dovrebbe dire che ella usa dolosamente la finzione di ritenermi colpevole di spropositi, che sa che non ho commesso.

È questo un piccolo dilemma, col quale lego le mani e i piedi del signor vescovo Rota. Provi, e veda se può romperlo e muoversi.

Vengo ora alla terza cosa: al saggio della lealtà.

Nel dialogo in discorso sono accusato di avere proclamato me stesso (nel n. 56 della Provincia) un bravo uomo. E l’accusa è fondata sulla affermazione del dialogista, che io addussi tutte le particolarità necessarie, affinchè ognuno leggendo richiami al pensiero infallibilmente la mia persona.

Ecco le particolarità più salienti da me addotte: Persecuzione, condanna delle dottrine per parte di concilii, e poi che gli stessi persecutori si facciano belli e si gloriino della persona perseguitata.

Sta per me la circostanza della persecuzione? Il dialogista si affretta a dire di no. E la circostanza della condanna per parte di concili? Un onore così grande non m’è mai stato fatto, che mi sappia. E la circostanza che monsignor Rota e la sua compagnia mi citino con compiacenza e mi lodino? Non mi pare neanco questa.

Arrogi poi che nello stesso articolo, per togliere ogni dubbio, dichiaro espressamente, che il bravo uomo, di cui parlo, è il Rosmini, citato dal Moriconi.

Dunque è palese e indubitabile che non lo dico di me. Dunque l’accusa non è vera; e la si fa, sapendo che non è vera.

Signor Rota,

(E mi rivolgo a lei, come ho detto un’altra volta, perchè è lei, e nessun altro, il padrone del Vessillo).

Che un vescovo, scrivendo di filosofia contro un [p. 108 modifica]positivista, non riesca ad altro che a confutare se stesso, ciò può far ridere la gente dotta;

Che un vescovo provochi con ingiurie volgari, senza spirito, e riboccanti di fiele chi è condotto dallo studio a pensare diversamente da lui, e non pensa del resto menomamente a molestarlo, ciò può far piangere i più cristiani;

Ma che poi un vescovo dimentichi il precetto divino di non fare falsa testimonianza, ciò, se ne assicuri, fa schifo a qualunque abbia ancora nella coscienza qualche cosa di umano.

Prof. Roberto Ardigò


(La Provincia del 3 settembre 1872).


Note

  1. A schiarimento di questa figura rettorica riportiamo un brano della Provincia n. 67, ove un filosofo positivista credendosi toccato nel vivo dai nostri dialoghi, di cui per sua gentilezza fa autore il nostro Vescovo, s’argomenta di confutare le nostre ragioni con questo stringentissimo ragionamento: Quello (unico) che si contiene nel suo secondo dialogo (e così riportando il resto dell’articolo fino alla fine). Si ommette la firma per compassione.
    Poverino! Per tutta risposta gli diremo, che ha dimenticato l’inspiravit in faciem ejus spiraculum vitae, et factus est homo in animam viventem, della S. Scrittura, che non disse Dio nè ai cavoli nè alle zucche. Bisogna poi essere ben crassioris minervae per credere che chi ammette l’anima ragionevole nell’uomo, non possa rispondere ai ridicoli sofismi del filosofo positivista senza ammetterla anche nelle zucche.