Sette mesi al ministero/II. Cessione del Veneto

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II. Cessione del Veneto

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I. La situazione nel 1866 III. Padova
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CAPITOLO II.

CESSIONE DEL VENETO.


Nomina di Commissario Regio Militare pella consegna del Veneto. — Comunicazioni Ministeriali. - Benevolenza di Cialdini. — Prima andata a Venezia. — Visite. — Preliminari. — Vado a Firenze e ritorno con un arrangiati. — Accordi con Alemann e Mœring. — Lebœuf si mostra antipatico. — Istruzioni discordanti dei Ministri. — Disordini di Chioggia e di Verona. — Lebœuf se ne adonta. — Consegna di Peschiera. — Incidente e protesta. — Consegna di Mantova, Legnago e Verona. — I tre notabili ed i Commissari Regi civili. — Mia lettera a Ricasoli. — Le cose si aggiustano a modo mio con Lebœuf. — Incidenti del plebiscito. — Sempre disaccordo fra i Ministri. — La cessione e retrocessione. — Telegramma del Re. — Ingresso delle truppe in Venezia. — Disordini a Palermo. — Mia destinazione a Padova. — La visita alla tomba di Carlo Alberto.


Il 16 settembre, chiamato a Strà dal comandante supremo dell’esercito, generale Cialdini, udii con molta sorpresa che ero destinato quale Commissario regio militare a ricevere la consegna del Veneto. Cialdini mi disse di rimettere il comando della divisione al generale Escoffier e di recarmi a Venezia, avendone già prevenuto il generale Alemann comandante quella fortezza, ed i generali Mœring e Lebœuf commissari austriaco e francese.

La credenziale al conte Thaon di Revel, luogotenente generale, e firmata Visconti-Venosta, mi dava l’incarico di concertare coi commissari austriaco e francese l’acquisto del materiale e l’occupazione delle fortezze, uscendone gli Austriaci.

Nelle istruzioni annesse — nessun compenso pelle costruzioni militari — acquisto obbligatorio del materiale non trasportabile — facoltativo del trasportabile — nominare commissioni in tutte le fortezze per determinare la qualità, e la valutazione del materiale, operazioni da compiersi prima della pace — se non possibile ciò, provvedesse il [p. 24 modifica]commissario regio, avvertendo che, conchiusa la pace, le nostre truppe devono senza ritardo occupare le fortezze. — Non poter dar luogo a difficoltà, la circostanza che il Commissario francese riceve la consegna dell’austriaco, dovendo rimetterlo al Commissario italiano. — Mi dovevo valere dell’intervento del Commissario francese, del quale mi si diceva:

“Il generale Lebœuf essendo personalmente disposto in modo non sfavorevole, e non ignorando egli essere fermo intendimento dell’Imperatore dei francesi, che sia usato ogni maggior riguardo alla dignità sovrana di S. M. il Re, il sottoscritto non dubita che ogni inconveniente potrà essere con comune soddisfazione evitato.”

Mi si raccomandava di evitare ogni solennità nella chiamata delle RR. Truppe per parte del municipio di Venezia, e di sollecitare la riconsegna del Veneto al Regio Commissario Civile, che sarà designato, da parte dei tre notabili riceventi il Veneto dalla Francia.

Mi si comunicavano pure, confidenzialmente, le istruzioni che si sapevano date dal Governo francese al suo Commissario, il cui testo non era molto rallegrante, perchè mi poneva in una condizione molto inferiore agli altri.

Mi fù pure rimessa una lettera del ministro della guerra Cugia, nella quale mi si diceva che il Governo aveva piena confidenza in me. Cugia aggiungeva che mi asseconderebbe in tutte le mie proposte, e mi raccomandava di tenermi bene con Cialdini.

Quest’ultima raccomandazione mi era facile, stante la benevolenza che mi dimostrò Cialdini il quale mi diceva: “Al punto in cui siamo, credo utile che a risparmio di tempo Ella s’intenda direttamente col Ministero, il quale in fin dei conti vuole però dirigere tutto lui, quindi la mia intervenzione è una ruota di più che ritarda, e non favorisce il disbrigo delle attuali urgenti questioni.”

E poi mi scriveva ancora:

“Le ho già detto di tenersi agli ordini del Governo, e di agire con libertà di azione, giacchè, occorrendo, non mi nego ad essere un mezzo, ma non intendo di divenire un inciampo. Nel modo impasticciato con cui il Ministero fa le cose, la mia intervenzione non potrebbe che [p. 25 modifica]imbrogliare vieppiù la S. V. poichè le mie idee non sono sempre quelle del Governo. Quindi nei casi dubbi Le dò volontieri il consiglio che mi chiede, senza obbligo in Lei di seguirlo. Quando riceve direttamente dai vari ministri ordini od istruzioni, faccia pure, senza credersi obbligato di rendermene conto.„

Egli infatti, mi secondò e favorì in tutto. Sino al punto di rimandare a me i commissari austriaco e francese, se rivolgevano a lui qualche comunicazione o domanda. Ritrovai Cialdini quale mi fù ripetutamente nelle provincie meridionali.

Combinata coi comandanti dell’artiglieria e del genio, e coll’Intendente generale militare la composizione delle varie commissioni, andai a Venezia, in piena assisa di generale, col capitano di Stato Maggiore Bosco di Ruffino, ed i miei due aiutanti di campo, tenenti Filippo Castelbarco-Albani, e Pierino Negrotto-Cambiaso.

Salutato in Canareggio, e lungo tutto il Canal grande, e Riva degli Schiavoni dalla popolazione, lo fui pure dalla sentinella croata posta all’Albergo Danieli, perchè vi alloggiava Mœring.

Andai a far visita al generale Lebœuf. Per cominciare gli dissi subito che l’avevo visto pella prima volta in Crimea, quand’ero addetto al quartier generale francese, ove tutti gli uffiziali parlavan di lui con elogi, ch’egli confermò più che mai nel 1859, quand’era comandante generale dell’artiglieria. Lo trovai loquace, e con un certo fare protettore leggermente urtante, ancorchè addolcito dalle melliflue mie parole. Fattemi conoscere le basi concertate coll’Austria pell’accettazione facoltativa od obbligatoria, aggiunse che in caso di dissenso, dovevasi stare all’arbitraggio della Francia. Mi offriva i suoi buoni uffizi.

Finsi di nulla sapere. Lo ringraziai, e si fissò un convegno pel domani, da tenersi presso di lui, come più anziano. Perchè sebbene il Ministero degli esteri m’avesse fatto Luogotenente generale, non lo era. Ma, seguendo il suggerimento dello scrupoloso generale Valfrè, firmai come generale di divisione, ed era vero poichè comandava una divisione.

La visita ai generali Alemann, Schönhals e Mœring andò benone. Coi due primi trovai antecedenti, con Mœring vi fù corrente di simpatia, e sperai comune antipatia verso Lebœuf. [p. 26 modifica] Viddi Gaspari che rappresentava l'antico municipio, e Michiel il nuovo, e consigliai accordo. M'intesi col dott. Marcello Memmo, membro attivo del Comitato segreto, nonchè il cav. Pellatis, comandante della futura Guardia nazionale.

Rimisi ogni questione al mio ritorno, ma ebbi l'intuizione che dovevo eliminare Vimercati, Pepoli, Pillet e qualch'un altro a Firenze, i quali intendevano intromettersi e dirigere le trattative.

Alla prima adunanza dei Commissari, convinsi con belle parole che l'Italia provveduta di molto materiale d'artiglieria, non desiderava acquistarne, anche a modico prezzo, pella varietà del calibro e carreggio. Fù esclusa ogni indennità pelle costruzioni militari a norma del trattato, e Mœring avendo accennata la cifra di 24 milioni, fù contradetto da Lebœuf in un modo autoritario che lo indispettì.

Si combinò il sistema delle commissioni e sotto-commissioni austro-italiane. Queste dipendenti da Mœring e da me. A noi dovevano rivolgersi per divergenza. Si tacque di Lebœuf, il quale voleva dominare, ed era disposto a favorire l'Austria.

Dissi essere necessario che mi recassi a Firenze per riceverne istruzioni, essendo nuovo a queste trattative. Lo pregai di ritardare la visita delle fortezze ch'egli voleva fare con me e con Mœring. Gita che non si fece, perche Ricasoli non approvò, e con ragione, ch'io accompagnassi Lebœuf.

Tutto il lavoro di queste commissioni progredì perfettamente, e Lebœuf non ebbe mai a ficcarvi il naso.

A Firenze il ministro Visconti-Venosta mi ricevè affabilmente; non poteva darmi istruzioni sulla parte, materiale di guerra, riguardante il Ministero della guerra. Pella parte politica, sebbene le condizioni della cessione si dovessero reputare stabilite dalle trattative di pace, v'era pure molto d'indefinito, la cui soluzione più o meno a noi favorevole, dipendeva dall'accordo dei Commissari. Mi disse belle parole sulla mia accortezza, mi consigliò di non andare da Ricasoli, il quale, irritato di nulla poter precisare, mi darebbe istruzioni compromettenti. Egual consiglio mi diede Cugia, Ministro della guerra. Egli mi disse che le cose non erano state stabilite chiaramente, quindi il [p. 27 modifica]nostro Governo non aveva titolo per respingere le pretensioni che si avanzassero. Napoleone mirava all'effetto. L'Austria era naturalmente indispettita. Ricasoli esacerbato, voleva resistenze e proteste che non erano possibili. Il Ministero si rimetteva completamente alla mia saviezza, prudenza ed avvertenza: — Cavatela con Lebœuf e Mœring ed avrai reso un gran servizio al paese. — Conclusione dei due ministri, arrangiati!

Questo parole di Cugia dopo quelle di Visconti-Venosta mi decisero ad incaricare Cugia di dichiarare al Ministero, che avrei fatto del mio meglio per riuscire.

Se andava bene, non c'era che dire. Se male, mi sconfessassero. Desioso e riconoscente delle informazioni ed istruzioni che mi sarebbero date, chiedeva anticipatamente venia, se non li seguiva, visto l'andamento delle cose. Così mi era regolato a Napoli e nell'Umbria, così farei a Venezia.

Ritornato a Venezia, scartai completamente Vimercati, feci nascere uno screzio tra Pillet e Lebœuf. Con Mœring dichiarai francamente d'intendermela con lui per far presto ed il meglio possibile. Me lo feci amico, interessandolo a trattare il matrimonio del nostro Principe Ereditario coll'Arciduchessa Matilde, figlia dell'Arciduca Alberto, di cui egli era creatura.

Ad Alemann dichiarai che l'assicurava contro ogni movimento o dimostrazione della popolazione, se mi lasciava fare, mi concedeva di costituire una specie di guardia civica, e ritirava i suoi poliziotti. Sapevo che l'intenso suo desiderio era di poter partire quietamente da Venezia senza lasciare rancori personali. E così fù.

Con Lebœuf conveniva lasciarlo parlare. Egli s'innebbriava delle proprie dichiarazioni protettrici. Rilevavo però le parole che gli sfuggivano quando mi faceva comodo di constatarle.

Gonfio e prepotente, Lebœuf aveva dichiarato che nessun soldato italiano doveva entrare nelle piazze, prima che queste fossero evacuate dagli Austriaci, e si fosse fatto il plebiscito. Mœring conveniva con Lebœuf. L'affare era grave pelle conseguenze inevitabili di disordine. Come mi aveva ben detto Visconti-Venosta, il trattato lasciava molto a [p. 28 modifica]definirsi, e poteva anche prestarsi all'interpretazione del francese. Nulla dissi in contrario, osservai solo che tale esclusione assoluta rendeva impossibile la consegna del materiale. Come mai ritirare il materiale ceduto all'Italia, esportare il rimanente, se Austriaci ed Italiani non devono incontrarsi? Non avanzavo pretesa alcuna, ma dovevo dichiarare che non avremmo pagato se non quello che ci sarebbe stato effettivamente consegnato, e declinavo ogni responsabilità per tutte le sottrazioni, devastazioni che avrebbero sofferto i magazzeni nell'intervallo di tempo in cui rimarebbero senza custodia. Mi pareva indispensabile che distaccamenti italiani anticipassero, come dopo, distaccamenti austriaci ritardassero, se volevasi fare le cose bene. Le mie osservazioni essere nell'interesse dell'Austria, poichè a noi sarebbe rimasto tanto meno da pagare.

Non volli accennare al lasso di tempo, cioè l'operazione del plebiscito, durante il quale le piazze sarebbero rimaste senza custodia. Era troppo chiaro che se non si voleva gl'italiani, gli Austriaci dovevano pure partire prima del plebiscito. Mi riservavo.

Mœring fu presto con me, e si conchiuse dopo dispettosa opposizione di Lebœuf, che compagnie d'artiglieria e genio coi loro uffiziali, ed armati entrerebbero per prendere la consegna, come in pari condizione rimarrebbero gli Austriaci per dare la consegna.

Allora Lebœuf disse che avrebbe enunciata questa disposizione nella convenzione che stava trattando con Mœring. Risposi esplicitamente che non accettavo condizione alcuna pattuita in una convenzione fatta senza il mio intervento, e consideravo il mio Governo libero da qualunque obbligo vi fosse espresso a suo riguardo.

Non lasciai sospettare ch'io conoscessi le condizioni gravose di spese che si voleva addossare all'Italia, e come si volesse regolare l'intervallo di tempo tra l'uscita austriaca e l'ingresso italiano, la così detta indipendenza del Veneto.

Ne feci le meraviglie quando questa convenzione mi fù comunicata ufficiosamente, per cui fù lasciata da parte.

Il 1.° ottobre ne firmammo una nella quale era regolato il trasporto delle truppe, del materiale, e la qualificazione di questo in [p. 29 modifica]trasportabile o non trasportabile. La firmai con piacere, perchè, senza dirlo, escludeva completamente Lebœuf.

Se non mi fossi assunta tutta la responsabilità, ed avessi chiesto istruzioni a Firenze, sarebbe occorso un bel pasticcio.

Ricasoli non voleva assolutamente che avessi riguardi per Lebœuf: Visconti-Venosta diceva di lavorare d'accordo con lui contro l'Austriaco: Cugia trovava utile di acquistare la maggior quantità di materiale, perchè si aveva a prezzo conveniente e la spesa non figurerebbe nel suo bilancio: Scialoja voleva che si riducessero gli acquisti all'assoluto minimum obbligatorio, perchè non si avevano denari: Nigra consigliava riguardi alla Francia: Menabrea all'Austria. Agendo da me, poco mi preoccupavo di tali divergenze. Non potevo prevedere, che mentre io cercavo di ridurre il più possibile la categoria del materiale non trasportabile il cui acquisto era obbligatorio per l'Italia, il nostro ministro a Vienna combinava senz'altro la fissazione di una somma da pagarsi in corpo (en bloc) pel materiale non trasportabile, cosicchè tutte le mie difese in proposito diventarono offese al nostro erario! La divergenza era all'ordine del giorno del nostro Governo.

Il Ministro degli Esteri, comunicandomi questa bella novità concordata a Vienna, aggiungeva che non rimaneva che a concertare lo sgombro e la consegna delle fortezze! Il non rimane altro mi fece sorridere, e non avrebbero riso i Ministri se avessi loro chiesto istruzioni per fare questa operazione che era proprio il pelare la coda del gatto.

Ne ridemmo con Mœring per esserci fatti avvocati della parte avversa. Lebœuf ci era diventato antipatico, Mœring lo chiamava Jupiter. Pel materiale si concordarono con Mœring dei cœfficienti per ogni qualità e condizione, e così avuti i verbali si potè determinare l'importo del pagamento.

Mœring aveva dei momenti di rabbia, perchè il suo Governo ben lungi dal lasciarlo libero di fare, come lo ero io, l'inceppava e ritardava pedantescamente.

Ero perfettamente d'accordo con Alemann. Così ottenni l'istituzione della Guardia nazionale, dapprima nè vestita nè armata, poi che [p. 30 modifica]fosse armata con fucili nostri che feci venire da Padova. Ma mi ero fatto garante che Venezia avrebbe mantenuta la più perfetta tranquillità. Inutile di ripetere qui le istruzioni le più opposte ch'io riceveva dai ministri. Mi confermai sempre più nel proposto di regolarmi secondo le circostanze. Queste mi furono favorevoli per un incidente inaspettato.

Temevansi gravi disordini tra la popolazione di Chioggia ed un battaglione di Croati colà presidiante. Alemann venne da me la sera del 4 ottobre per pregarmi d'interpormi onde evitare ogni colluttazione fra la truppa e la popolazione.

Accettai e l'indomani mattina, in assisa italiana, col mio Stato Maggiore, montai a bordo del vaporino di Alemann e m'avviai a Chioggia. Il maggiore Jakcin, comandante quel presidio, doveva mettersi ai miei ordini. Passai in rivista il battaglione, consegnato provvisoriamente in caserma. Accolto dalla popolazione con entusiasmo, arringai e publicai un manifesto, per dire che Vittorio Emanuele voleva l'ordine. Consigliava la concordia, affidandomi al senno e patriottismo dei Chioggiotti. La pace era firmata. Fra pochi giorni la bandiera nazionale sventolerebbe dominante. Non conveniva comprometterla con malsana improntitudine. Fui ascoltato ed obbedito. Le bandiere furono ritirate, e l'ordine confermato.

Il maggiore Jakcin mi fù sempre al seguito, e controfirmò il mio proclama ed il manifesto del sindaco. Mœring m'aspettava allo scalo per ringraziarmi calorosamente ed accompagnarmi da Alemann, il quale riconoscentissimo aveva già date tutte le concessioni pella Guardia nazionale. E Lebœuf era in Venezia ed aveva la nave Provence a sua disposizione!

Temevansi pure disordini a Verona pelle provocazioni dei militari austriaci, e l'indole insofferente degli abitanti. Il generale Jacobs che vi comandava, agiva in modo ben diverso di Alemann. Aveva autorizzato la formazione della Guardia nazionale ed un parziale armamento, e poi non voleva lasciarla funzionare; aveva permesso di esporre la bandiera nazionale, e poi la lasciava insultare.

Se fossi stato prevenuto di quest'ultima circostanza, avrei mandato [p. 31 modifica]l'ordine di ritirare tutte le bandiere, come avevo fatto per Venezia e Mantova.

Avvertii che attesa l'importanza delle Piazze, sarei venuto a Verona per informarmi del materiale, ma raccomandai caldamente che non mi si facesse veruna dimostrazione. Saputosi il mio arrivo per qualche indiscrezione, dalla stazione di Porta Vescovo sino all'Albergo delle Due Torri, fui fatto segno a continua dimostrazione colle grida di: — Viva Vittorio Emanuele, Viva il generale italiano, — e dalle finestre sventolavano le bandiere nazionali.

Non ebbi tempo di allargare le raccomandazioni di calma ed ordine; che alcuni uffiziali, all'ora della ritirata in Piazza Brà, volendo prepotentemente imporne alla popolazione in fermento, furono ricambiati con grida. Chiamarono la truppa per reprimere, ordinarono il fuoco, ed una donna incinta che stava dentro un caffè della piazza fù uccisa, e parecchi i feriti.

Jacobs promulgò subito lo stato d'assedio con frasi minacciose.

Seppi tardi la triste scena di piazza Brà, ed uscii subito per vedere se c'era qualcosa a fare. Le strade eran deserte. M'imbattei in Jacobs, il quale colla scorta di una compagnia di Jägers veniva a cercar di me.

Jacobs piangeva di rabbia pell'uccisione della donna, il sangue sparso, e la posizione critica nella quale si trovava. Mi chiese se avrei accettato l'immediata rimessione della piazza, guarentendo il militare e famiglia da ogni insulto o disordine. Aveva già telegrafato all'Arciduca Alberto per averne il consenso, ed aspettava la risposta. Accettai con animo tranquillo.

Poco dopo Jacobs mi mandava copia dell'autorizzazione dell'Arciduca Alberto: “Se il generale Revel guarentisce assoluto rispetto alle persone ed alle proprietà di qualunque genere, austriache.

Subito dopo venne altro telegramma del Ministero della guerra da Vienna approvante rimessione. Concertare dettagli con generale Revel. Notificare a generale Mœring.

Telegrafammo tutti due a Mœring. Io parlavo solo di fortezza sperando con quell'ambiguità di farla all'insaputa di Lebœuf. Mœring [p. 32 modifica]rispose che aderiva, ma che Lebœuf protestava violentemente contro tale cessione, fatta senza di lui! Egli, secondo i diplomatici, doveva usare ogni maggior riguardo alla dignità sovrana del Re d'Italia, ed invece si oppose furiosamente a tale transazione che sarebbe stato il massimo dei maggiori riguardi.

Combinai col podestà Betta, andando al municipio e parlando coi priori di alcune professioni, per assicurare la tranquillità pubblica. Lebœuf per vendicarsi mi scriveva che per ordine del suo Ministero, doveva pregarmi di sospendere l'ingresso dei nostri distaccamenti, e divagava sopra articoli di giornali relativi alla presa di possesso di Venezia.

Gli telegrafai che protestavo pel contrordine chiesto, e più ancora pel ritardo della cessione, la quale, secondo i patti, doveva cominciare il 7. E gli scrissi che non badavo alla stampa. Ero certo ch'egli trovava, al pari di me, irragionevole il sospendere l'ingresso dei distaccamenti, riconosciuto dai 3 Commissari indispensabile, e ne avrebbe persuaso il suo Ministero. Partendo da Verona ebbi cura di far conoscere il veto apposto da Lebœuf alla consegna della fortezza, onde moderare gli entusiasmi pella Francia. Ebbi un bel fare per trattenere i Volontari dal venir commettere disordini nelle città del Veneto. Pepoli ed Allievi li favorivano con fogli di via. Ottenni da Cialdini alcune restrizioni, e da Ricasoli, reluttante, consigli di riserbo ai Regi Commissari, e difesa di fogli di via a chi non era nativo della città.

Anche pei disordini di Verona, Ricasoli mi diede ragione, scrivendo che se avesse ricevuta mia lettera, non avrebbe scritto in tali termini al podestà di Verona. Questa resipiscenza non solita nel Barone mi lusingò non poco.

Deciso ad agire scrissi a Pepoli che, d'accordo col Governo (?), non dasse più fogli di via ai Volontari da Padova a Venezia, ma un'indennità di soggiorno. Egualmente d'accordo supposto col Governo a Cialdini perchè mandasse guardie alle ultime stazioni ferroviarie, onde non lasciar proseguire chi vestiva la camicia rossa, la quale era un uniforme di cui si poteva proibire l'uso indebito. [p. 33 modifica] A Venezia tenni il broncio a Lebœuf, e non volli assistere alla prima cessione di fortezze che si doveva fare il 9. Mandai però il capitano Bosco perchè mi riferisse com'era andata la cosa.

Lebœuf per fare atto d'autorità variò l'ingresso delle truppe nostre ritardandolo dall'una alle sette, mentre la consegna al Municipio si fece all'una.

Colsi l'occasione per protestare. Declinavo ogni responsabilità della mancanza di riguardo alla Francia per parte delle popolazioni, se egli si permetteva di variare il prestabilito.

Di ritorno il 10 Lebœuf venne subito da me per chiarire anche da parte sua la situazione, come disse alludendo alla mia protesta. Si dilungò sulle difficoltà della sua posizione, e sulle istruzioni avute di usare ogni riguardo a Mœring, che voleva farmelo credere autore del ritardo. Mi parve opportuno cominciare a smascherare alcuna delle mie batterie. Gli dissi ch'io pensavo diversamente, cioè ch'egli, avvece di conciliare, poneva dei bastoni nelle ruote ai miei accordi colle autorità austriache. Se Mœring giuocava un doppio giuoco, dovevasi smascherare. Per conto mio avevo sempre trovati arrendevoli i generali austriaci, ed era lui che intralciava colla sua opposizione i miei accordi con Alemann per la costituzione ed armamento della Guardia nazionale, per Chioggia, e per l'astensione della polizia austriaca, con Mœring pella classificazione e consegna del materiale ed ingresso del personale indispensabile, con Jacobs pella rimessione della fortezza di Verona. Finivo: “Non posso conoscere quanto voi, le idee dell'Imperatore, ma ho però ragione di credere ch'esse tendano alla massima conciliazione.„

Lebœuf rimase sconcertato da questa verità, sebbene detta velatamente. Si scusò sulle sue istruzioni che non poteva comunicare pel riguardo dovuto ai Sovrani d'Italia e d'Austria. Si scorgeva che era molto sorpreso dell'accordo amichevole ch'io avevo saputo crearmi coi generali austriaci. Mi disse che voleva andar d'accordo in tutto con me. “Non domando meglio, gli dissi, tale m'avete sempre trovato, e tale sarò sempre. Se non vi lasciate fuorviare da erronee insinuazioni.„

Propose che Mantova e Legnago si consegnassero il giorno 11, [p. 34 modifica]Palmanova il 13, promettendomi che non si fraporrebbe indugio all'azione del Municipio, dopo la consegna della città. Vedendomi tuttora riservato, egli soggiunse che, contenti i generali austriaci, facessi pure entrare i distaccamenti d'artiglieria e genio. ‟Benissimo, gli dissi stringendogli la mano, si può quindi fissare la consegna di Verona pel 16?„

Ed acconsentì. Lo accompagnai fino alla porta dell'albergo, tenendo la conversazione molto animata onde aver l'aria di accompagnarlo giù della scala per distrazione. Alla porta trovò il posto di Guardia nazionale che gli rese gli onori. Salutò enfaticamente e montò in gondola tutto glorioso, però giunto a casa avrà riflettuto alle verità che gli avevo detto.

Ma le vere difficoltà non mi venivano dall'estero, ma dall'interno. Cugia mi scriveva ‟come mi manca assolutamente il tempo di scriverti, ti mando l'autografo del Barone che ti servirà di regola„.

Ecco la lettera di Ricasoli:

‟Il nostro collega degli Esteri mi rimette i due telegrammi di Vimercati1, che qui Le unisco, e prego ritornarmi appena li avrà considerati.

‟Due cose ancora non veggo ben avviate:

‟Quanto al momento della publicazione del Plebiscito, fa d'uopo dipenda da ragione d'ordine innanzi ogni altra cosa. Sono i Municipi che devono apparecchiare ed eseguire il Plebiscito, e per questo fatto io sono perfettamente tranquillo per le sei provincie che già sono rette a nome del Governo italiano.

‟Vi sono tre provincie ancora, Venezia, Verona, e Mantova che sono oggi in uno stato prossimo all'anarchico. Vi occorre la installazione dei Commissari italiani, e la composizione immediata di Municipi di buona fattura, cosa che non può aversi se nonchè col mezzo dei Commissari. Per queste ragioni credo che non si possa convocare il Plebiscito, se non che immediatamente dopo l'ingresso delle truppe nostre nelle tre città, e l'arrivo dei Regi Commissari. — È necessario che il generale Revel sia istruito di ciò onde possa procurare che le [p. 35 modifica]cose procedano per la via regolare, e prevenire che non siano per difetto d'accortezza portate fuori delle rotaie. — Su queste dimostrazioni impazienti occorre premere più che si può. — Insultare gli Austriaci dietro le spalle è da vili. — Ogni insulto ai loro stemmi, che saranno certamente tolti dal posto da loro medesimi quando ne sia il momento; ogni ingiuria alle loro persone, insomma ogni cosa che sia a offesa di persona e nome austriaco, sarebbe oggi atto indegnissimo, e conviene fare di tutto onde sia evitato. — Io sono certo che il generale austriaco si presterà ad ogni cosa utile onde evitare cose che non debbano essere neppure da lui desiderate. Inoltre si baderà bene che il Commissario francese abbia ad usufruire largamente della sua ridicola posizione; e nulla possa intervenire per renderlo anco minimamente serio: perciò vorrei che il generale Revel spiegasse l'azione la più larga e la più efficace sulle persone più influenti di Venezia, onde il popolo si mantenga disposto e saggio, e nessuna manifestazione si faccia, finchè ancor resta un Austriaco sia a Venezia, sia a Verona, sia a Mantova. E appena gli Austriaci partiti non si faccia sfregi alla loro memoria, che sarebbe atto codardo. Per evitare questo o almeno togliere occasione a questi atti, gioverà che il generalo Revel se la intenda col generale austriaco onde togliere, e rimuovere a momento opportuno gli stemmi ed altre memorie del Governo che ora va a cessare, e che sarebbero d'occasione a qualche popolare eccesso. — Se ci riesce condurre a fine questo momento senza che ne avvenga qualche scandaluccio, sarà un miracolo! Io credo che il generale Revel potrà fare moltissimo.

‟Ricevo in questo punto la sua lettera. Mi dispiace che le truppe non possano entrare ancora; non bisogna però sdarsi, e conviene tentare tutte le vie per annullare la presenza del Lebœuf ed io publicherò anco prima il Plebiscito, se ciò potesse valere a questo fine; ma finchè non abbiamo i Commissari a Venezia, a Verona e Mantova, temo inconvenienti. Credo però che più si stringeranno relazioni tra i due generali austriaco e italiano: più che l'austriaco vedrà l'impegno nostro di far partire le truppe austriache con decoro, e più annulleremo la presenza stupida e inutile del Commissario francese vero [p. 36 modifica]camorrista su larga scala, che vuol profittare dell’altrui fatiche senza aver fatto uno zero.

“Riverisco distintamente.

Ricasoli.„


Cugia mi mandava pure copia di una lettera di Nigra al ministro Visconti-Venosta. Questa conteneva una nota di nomi proposti da Leboeuf fra i quali scegliere i tre Notabili. Si raccomandava che il generale Revel andasse completamente d’accordo con Leboeuf. Questi aveva scritto al suo Governo che l’evacuazione impiegherebbe 12 giorni.

Mi parve che il migliore, o per meglio dire l’unico mezzo per far procedere le cose era di scrivere direttamente e chiaramente a Ricasoli come io vedevo la situazione.


Eccellenza,

“La situazione è talmente grave, e così indefinita, che non c’è tempo da perdere per provvedere. Mi permetta quindi di esporle chiaramente, senza frasi, le mie osservazioni.

“Conoscevo i maneggi di Vimercati, Popoli, e Pillet per far nominare i loro favoriti e notabili per ricevere il Veneto. La nota venuta da Parigi contiene nomi rispettabili, ma a me pare nociva tale scelta.

“Senza far loro torto, si può temere che una volta detentori del Veneto, un po’ di vanità li offuschi, si lascino indurre a formare una specie di Governo provvisorio sotto la tutela di Leboeuf che si crederebbe autorizzato a rimanere per poter rispondere all’Imperatore che la di lui volontà fu rispettata. Stando tutti tre a Venezia, padroni nominali del Veneto, scelti da Leboeuf e da lui festeggiati, sapranno regolarsi a modo?

“Per evitare tale complicazione, la mia idea sarebbe di dire a Vimercati che è chiamato a Firenze, onde liberarmi de’ suoi maneggi inopportuni, scrivere a Pepoli, che d’intesa del Governo, non si occupi dei Notabili. Per mezzo del Comitato segreto, e specialmente del Memmo, farei sapere a quelli che presumibilmente riceveranno l’invito di Leboeuf, [p. 37 modifica]di declinarlo per motivi personali, chè tale è la volontà di Vittorio Emanuele. Ormai conosco abbastanza Leboeuf per essere certo che nel suo imbarazzo mi pregherà confidenzialmente di aiutarlo. Allora da lui pregato, gli esprimerò l’opinione che i Veneti non possono essere meglio rappresentati che dai capi dei tre principali Municipi: Venezia, Verona e Mantova, e lo consiglierò d’invitare quei signori. Se egli si mostra titubante per tema di rifiuto, mi offrirò quale intermediario. Intanto Michiel, Betta e Emikelder, da me prevenuti, accetteranno. Appena fatta la consegna, ciascuno di quei tre Notabili, ridiventa podestà e corre a disporre pel plebiscito, ed a Leboeuf non rimane che far fagotto. Così sarebbe secondato il desiderio in proposito di V. E., ma conviene ch’io sia il solo a trattare questa facenda.

“In quanto ai Commissari Regi Civili, mi perdoni V. E. se Le dico con tutta convinzione che la loro nomina publicata, e peggio ancora il loro arrivo a Venezia, Verona e Mantova, sarebbe cosa molto dannosa pella riuscita delle trattative.

“Non faccio torto a nessuno poichè ignoro chi saranno, ma è certo che onorati di tale distinzione vorranno farsi conoscere dai loro governandi, e questi si rivolgeranno di preferenza a chi deve governarli, e così perdo ogni influenza sulle popolazioni. Non già ch’io vi tenga per amor proprio. No certo. Ma per poter intendermela coi colleghi conviene ch’essi mi ritengano quale rappresentante del mio Governo, e così le popolazioni.

“Leboeuf che forzatamente mi tollera perchè suo eguale e nominato come da trattato, si adonterebbe di questi Commissari Regi che vogliono governare un paese attualmente austriaco, e che diventerà francese, prima di essere italiano. Sarà felice di fare l’altitonante.

“Se V. E. mi dimostrerà la medesima fiducia della quale mi onorò quand’ero al Ministero della guerra in Napoli, e più tardi nell’Umbria; ho buona fiducia di condurre le cose assai presto, benino, e far fare topica a Leboeuf, senza che si possa muovere il menomo reclamo. La prego farmi conoscere come Ella accolga queste mie osservazioni sulla situazione. Se le approva camminerò diritto. In caso contrario obbedirò, eseguirò gli ordini ed istruzioni che riceverò dal Ministero, al [p. 38 modifica]medesimo riferirò ogni cosa, ma naturalmente nulla farò di mia iniziativa. La gravità del momento sia di scusa al mio schietto scrivere. Se non fosse troppo ardire, aggiungerei che m'ispirai al modo di V.E. di dire le cose con parola franca.„

Ricasoli mi rispose: "Approvo lo ideato operare di V.S. Si afforzi del mio concorso.

"Ricasoli.„


Vimercati partì per Firenze, Memmo dispose per gli avvertimenti, e non si parlò più dei commissari. A proposito delle perturbazioni di Chioggia e Verona, mi scriveva: "Fo plauso a quanto Ella fa per conciliare i diversi umori e condurli a cooperare d'accordo. L'opera sua non è senza difficoltà ma confido nel suo senno, e sono certo che arriveremo presto alla fine con soddisfazione comune.„

M'ero fatto una posizione eccezionale. Alloggiato al miglior albergo, Hotel de la Ville, sul Canal grande. Avevo un posto della Guardia nazionale alla porta. Uscivo sempre in uniforme. I miei gondolieri portavano la coccarda nazionale. Davo pranzi. 2 Tutti ricorrevano a me, convinti che il Governo mi accordava tutto. Era naturale, poichè facevo senza chiedere. Ma non erano pochi i grattacapi. Da Vienna manifestavano sospetti sul rispetto ai morti seppelliti nel Veneto, sulle bande dei Volontari, ed altre denunzie, ma Alemann e Mœring rispondevano sempre che col generale Revel nulla c'era a temere. Arrivavano i reclami di vari comuni per le insistenze ardite dei reduci, degl'individui in licenza o congedo, volontari, disertori precoci dalle file austriache. Col municipio di Venezia ebbi specialmente la questione dei cava-fanghi che conveniva far lavorare per impiegare gli operai. I Tabacchi. L'isola di S. Giorgio. In una parola tutte le questioni pendenti si riportavano a me, e siccome io non accennavo all'azione del [p. 39 modifica]Governo, i generali austriaci erano felici di lasciarmi fare senza compromettersi. A modo di esempio, dovevansi scarcerare i detenuti politici, stante l'amnistia, Ministero e Legazione avevano scritto ma nulla erasi ottenuto. Andai da Alemann, e due giorni dopo erano rilasciati per ordine telegrafico. Chi sa poi se fossero tutti politici. Alemann temeva andassero ad eccitare perturbazioni. Lo assicurai che ciò non avverebbe, e la mia buona stella mi diede ragione. La difficoltà maggiore era coi pseudo-austriaci, cioè gl1 impiegati italiani del Governo austriaco.

Una sera, avevamo finito di pranzare, mi arriva Alemann con un borghese. Era concitato e veniva per lagnarsi direttamente con me delle ingiurie ed insulti usati al signor Ramponi, lì presente, chiesi ad Alemann cosa era questo signore — un commissario di polizia. — Probabilmente veneziano? — sì. — Proseguendo in francese come usava con Alemann, gli espressi il mio rammarico dell'accaduto, ed avrei fatto dare riparazioni se il signor Ramponi poteva e voleva darmi le indicazioni necessarie. Poi volgendomi al Ramponi, fingendo che Alemann non capisse l'italiano, gli dissi che mi stupivo ch'egli osasse rimanere in Venezia, ove aveva recato tanto danno ai suoi concittadini. Guai per lui se gl'italiani volevano portarsi con lui, come egli si era comportato con loro. Venisse pure a darmi le indicazioni richieste al generale, ma gli dichiaravo che il suo richiamo passato, e quello che fosse per fare mi toglievano ogni stima per lui. Il meglio per lui era di lasciar Venezia al più presto.

Rivoltandomi quindi ad Alemann gli dissi in francese, che aspettavo dal Ramponi le indicazioni chiestegli, e l'accertavo che non gli avrebbe più portata lagnanza. Ramponi annichilito non fiatava. Alemann, che forse non aveva capito le mie parole pronunciate con molta precipitazione, vedendo l'altro calmo, si mostrò soddisfatto, mi strinse amichevolmente e se n'andò, mentre Ramponi si ritirava dal suo canto.

Ridemmo coi miei uffìziali di questa scena bilingue.

Molte furono queste recriminazioni d'impiegati italo-austriaci, ma tutto finiva bene dopo una mia conferenza con Alemann.

La cessione delle fortezze si fece nel modo seguente per Peschiera [p. 40 modifica]Mantova e Legnago. Lebœuf e Mœring vi andarono. Al Municipio Mœring dichiarava a Lebœuf che gli consegnava la piazza, e questi la consegnava immediatamente al Podestà, il quale mandava subito a pregare il comandante italiano di entrare colla sua truppa.

Il ritardo di Peschiera non si ripetè a Mantova e Legnago. Cialdini aveva disposto che vi fossero le truppe pronte ad entrare. Il loro ingresso fù acclamatissimo, ricevute dalla popolazione con entusiastiche dimostrazioni ed incontrate dalle autorità civili. Si cantò il Tedeum. Il tratto fra i nostri e gli Austriaci partenti e con quelli che rimanevano fù cortesissimo.

Per Verona, un telegramma di Mœring del 10 ottobre mi diceva che il comandante di quella fortezza ricevette ordine di non far partire le truppe, se non contro garanzia precisa pei distaccamenti austriaci e materiale.

Era una vera assurdità degna della burocrazia austriaca. Risposi che guarentivo a nome del Governo e sul mio onore. "Questa guarentigia solenne è ancora confermata dal fatto che il generale Baltin, comandante la fortezza di Peschiera, vi rimase e vi rimane tuttora, dopo la rimessione della piazza, con 30 uffiziali, oltre i distaccamenti pel trasporto del materiale, tutti furono e sono rispettati, e mi si telegrafa ordine perfetto.„ Mœring mi parlava un giorno a proposito di queste preoccupazioni e timori esternati dal suo Governo "che volete! abbiamo delle vostre bande di Volontari, la stessa opinione che gl'italiani hanno dei nostri battaglioni croati. Il Governo nostro teme il contatto dei suoi colle autorità municipali, e comitati insurrezionali. Quali mezzi hanno le autorità civili di repressione? al minimo tentativo di difendere i nostri, sarebbero annullati coll'accusa di austriacanti! Voi invece potete ordinare. Abbiamo piena fiducia in voi. Perciò vi chiediamo la vostra garanzia, e se la date non abbiamo più timore alcuno. L'Arciduca Alberto mi ha scritto di non fidarsi che del generale di Revel.„

Dal canto mio gli dissi: "Esaminate la posizione vostra e di Alemann rispetto a quella di Lebœuf. Il contegno delle popolazioni verso gli uffiziali francesi ed i vostri. Dovrete esserne contenti.„ Il giorno 13 si [p. 41 modifica]rimetteva Palmanova colle medesime formalità. Il giorno 15 gli Austriaci lasciarono Chioggia, il 16 Mestre, e le nostre truppe rimpiazzavano subito le partenti.

M'ero tenuto infuori da queste funzioni, non parendomi di avervi un posto conveniente, ma per Verona pensai prudente andarvi per riparare a qualunque equivoco.

Appena giuntovi alle 8 di sera, trovandomi allo stesso albergo, ebbimo una conferenza che riferii al ministro Visconti-Venosta:

"Il generale Lebœuf mi parlò lungamente del Decreto Reale col quale si vuol determinare il Plebiscito. Crede che ciò sarà considerato a Parigi, come contrario agli accordi presi. Gli osservai che se non si faceva presto, vi sarebbe Plebiscito per acclamazione, oppure che se ne asterrebbero per rispetto a quello del 1848. Saper egli quanto facevo per impedire tal cosa. L'attuale moderazione esemplare delle popolazioni produrrà un'esplosione tanto più violenta. Nelle provincie unite un decreto è indispensabile. Non si farebbe pubblicazione nelle altre. L'azione dei Notabili deve trasmettersi ai Municipi. Mi rilesse, per la centesima volta, le sue istruzioni che lasciano ai Notabili il determinare il Plebiscito. Gli risposi che, cosi volendo, non si troverebbero i Notabili, o trovandoli non vi sarebbe più Plebiscito. Mi ripete ancora che non voleva che la Francia rimanesse soffocata tra due porte.

"Evidentemente egli desidera di essere rassicurato, non compromettersi, e che ce l'intendiamo con Parigi. Vogliate presentare la situazione all'Imperatore come molto tesa. Se non si fa prontamente il Plebiscito, non si farà più. Le popolazioni vi si rifiuteranno come cosa inutile, perchè già fatta nel 1848. So potete dirmi che siete intesi con Parigi, Lebœuf non dirà più verbo. È in una posizione veramente ambigua. Per soddisfare la sua vanità, chieggo di essere autorizzato a fargli fare dai Notabili una risposta insignificante al discorso ch'egli pronunzierà a nome dell'Imperatore, il quale rimarrà ignoto, perchè non lo lascierà publicare dai giornali di Venezia. Mi risponda prontamente.„

Il Ministro mi telegrafava: "II Ministro dell'Interno ha creduto indispensabile publicare, non un decreto, ma semplici istruzioni ai [p. 42 modifica]Municipi veneti onde il Plebiscito si voti regolarmente senza acclamazioni e con una formola seria e sicura. Sarebbe fissato il giorno 21. Tale publicazione non toglie che il Plebiscito si faccia secondo le istruzioni del Commissario francese. Lo scopo suo è di facilitare l'esecuzione e dare al Plebiscito un carattere serio. Procurate di presentare sotto questo aspetto al Commissario francese la publicazione fatta sul giornale. È urgente che non si sollevino incidenti lamentevoli.

Rispondevo: "Se prevenuto pubblicazione, avrei cercato predisporre Lebœuf. Cercherò conciliare. Importantissimo che nulla si pubblichi con data anteriore al 19.„

Ricasoli nella sua lettera a Cugia, aveva bensì parlato di pubblicare all'uopo il Plebiscito, ma non credei fermarmi a tale idea. In quella lettera egli parlava pure di nominare nuovi municipi, ma poi il 6 ottobre scriveva: "... Conservare gli attuali municipi è stata opera saggia...„ Speravo ugual mutamento pel Plebiscito. Alle 11 ant. del 16 Mœring e Jacobs rimisero Verona a Lebœuf, e questi successivamente la consegnò al podestà De Betta. Il Podestà venne con vettura di gala all'albergo per pregarmi di far entrare le nostre truppe. Andammo fuori Porta Vescovo, dove il generale Medici aspettava l'ordine, colla sua colonna, e rientrammo in città di passo alla testa delle truppe. Era la 15.a divisione. Seguiva la Legione Vicentina, la cui inopportuna formazione ed intervento all'ingresso di Verona era frutto della debolezza di Medici verso gli antichi Volontari, debolezza probabilmente rinforzata dal dispetto di aver dovuto ritirarsi dal Trentino. Era troppo tardi per farne caso, e nessuno rilevò tale intervenzione.

Il Podestà voleva dare un pranzo municipale agli uffiziali generali e superiori. Sconsigliai la cosa. La convenienza voleva ch'io fossi invitato e voleva non meno che fossero invitati gli altri due commissari, i quali erano stati in comunicazione col municipio. Ma la loro presenza stuonerebbe. Gli invitai invece io, cogli uffiziali delle due Commissioni Dimenticai avvertitamente d'invitare Medici, temevo un suo rabuffo. Quando un uomo moderato e prudente si lascia dominare da risentimento è più pericoloso d'un imprudente.

Prima del pranzo, Lebœuf, cui ero andato a far visita nella sua [p. 43 modifica]sala, si mostrò preoccupato della questione dei Notabili, e mi pregò per amicizia di assisterlo per aggiustare la faccenda.

Gli risposi: "Come commissario militare, io non ci ho che vedere in quell'atto diplomatico. Come Italiano, penso che si dovrebbe dichiarare che il Plebiscito fù già votato nel 1848, e ringraziare l'Imperatore, il quale col suo possente intervento, ne ha resa possibile l'effettuazione. Come Revel, che vi stima e vi è amico, vi dirò francamente che non capisco tutti quelli andirivieni che fate fare a Vimercati e Pillet. Qual'è la base sulla quale poggiate il vostro criterio per scegliere i Notabili?

— Avere delle persone notabili che rappresentano il Veneto, mi interruppe Lebœuf.

— Benissimo. Ma come potete essere sicuro della buona scelta? chi ve ne dà informazioni sicure, certe, coscienziose, e che non si rinchiudano in una città, ma comprendano tutto il Veneto? Cosa arriverà se fra queste tre persone, vi capita un ambizioso imbroglione, il quale per darsi importanza provocherà complicazioni? Voi sapete meglio di me che, quando si ha un posto da dare, quelli che fan più ressa per averlo, sono i meno idonei.

— Ma qui non si tratta di domande, caro Revel, ma di rifiuti. Nessuno vuol accettare l'invito.

— Ebbene, sentite, se la pensate come me, vi levo d'imbarazzo. Mi ammetterete che è nel desiderio dell' Imperatore e nel vostro, che questi tre Notabili rappresentino il Veneto. Come pure che le tre città di Venezia, Verona e Mantova costituiscano la parte la più importante del Veneto. Di più, queste tre città saranno state le ultime a ricevere le autorità italiane, quindi le meno esposte ad influenze prepotenti, e le più libere del loro voto. Chiamate i rappresentanti di queste tre città, e sono naturalmente tali i capi dei loro municipi, a loro retrocedete il Veneto, e così farete l'atto in modo solenne, rispettando il principio d'autorità e senza avere da temere qualche improntitudine offensiva pell'Austria dalla parte dei Notabili, qualora vi fosse tra questi qualche austrofobo; poichè questi signori appartengono a municipi esistenti durante il dominio austriaco. Così opererete in modo sicuro, ed anche riguardoso pell'Austria. [p. 44 modifica]Lebœuf fù colpito da queste mie parole, e mi chiese: — Ma questi tre rappresentanti accetteranno?

— Vi guarentisco che De Betta, Emikelder, e Michiel accetteranno. Potete parlare, scrivere, o far parlare a De Betta, ora che siete in Verona, e v'accerto che avrete risposta assenziente, e così pure per Emikelder se gli mandate una lettera da un aiutante di campo. Per Michiel, arrivando a Venezia mandatelo a chiamare, verrà da voi e vi dirà di sì.

Lebœuf mi ringraziò, ma era un po' sconcertato di vedermi così sicuro in un affare nel quale egli aveva incontrato tante difficoltà. Riflettei più tardi che io ero stato troppo reciso, ma non c'era tempo da perdere, ed era necessario cogliere la palla al balzo, poichè ero stato pregato da lui e per sua iniziativa, di trattare quest'affare dei Notabili.

Mandai subito per espresso una lettera ad Emikelder. Con De Betta eravamo già intesi. Quanto a Michiel, gliene avrei parlato appena giunto a Venezia, e gli telegrafai di venire da me dopo l'arrivo del convoglio serale.

Feci visita a Jacobs, ma non lo trovai. Medici s'impuntò a non voler usare una cortesia a Lebœuf e Mœring.

Partendo la sera, trovammo alla stazione un reggimento austriaco che stava aspettando un treno pel Tirolo. Quando giunse Mœring la truppa gli rese gli onori, e la musica suonò l'inno imperiale. Mœring andò ad abbracciare il comandante, disse un affettuoso addio ai suoi cari figli, e ci raggiunse cogli occhi umidi. Era una scena commovente.

Nel vagone Lebœuf ruminava le mie parole, e saltò su colla difficoltà che Michiel ed Emikelder non erano podestà. Gli osservai che a Venezia non v'era podestà, quel di Mantova era assente, quindi gli assessori anziani rappresentavano il municipio. Mœring appoggiò le mie parole, nel desiderio di farla finita.

Debitamente affumicati alla stazione di Mestre, a causa del colera invadente, ci separammo a quella di Venezia.

Questa paura del colera presentiva grave difficoltà all'ingresso della mia divisione destinata, perchè più vicina e sotto i miei ordini. V'erano stati alcuni casi nel 44.° reggimento, ma anche a Venezia ve n'erano [p. 45 modifica]stati ancorchè non se ne parlasse. V'era doppio pericolo, sanitario se le truppe partivano, di disordine se si lasciava la città senza truppe.

Ripetei a Venezia quanto avevo già fatto a Napoli nel 1861 pel tifo nei capitolati di Gaeta che bisognava ricoverare in Napoli.

Ricorsi al dott. Giacinto Namias, il più rispettato dei medici della città. Gli esposi genuinamente la situazione ed i vari pericoli emergenti, e gli comunicai i rapporti sanitari della Divisione.

Bima a Napoli dichiarò alla commissione sanitaria che il tifo non era nè petecchiale, nè contagioso. Namias dopo maturo esame, espresse il parere che i casi di colera non erano asiatici, ma sporadici; che il morbo era nel suo declinare, e quindi poco pericoloso.

I giornali annunziarono che il dott. Namias per incarico del generale di Revel, accompagnato dal dott. Bixio, aveva visitati tutti i locali militari che riceverebbero la truppa; aveva disposto per tutte le precauzioni necessarie e preventive; erasi preparato un conveniente locale di segregazione ed osservazione, qualora si avverasse qualche sospetto; gli accantonamenti attuali delle truppe erano stati disinfettati, e si farebbero suffumicazioni preventive al momento della partenza.

Gli uomini più influenti furono da me addottrinati convenientemente, e gli animi rimasero tranquilli. Come Dio volle, non vi fù nè paura, nè pericolo, nè danno. Mentre a Napoli morirono di tifo curanti e curati, ma non se ne fece parola.

Noterò che non ero indifferente nella questione, poichè avevo con me la mia famiglia che mi aveva raggiunto dalla Mira.

Avvedutamente nominossi uua commissione, la quale ben a ragione, pubblicava: Non valere lo spargimento del cloruro di calce, se non si distruggevano le fetide esalazioni col ripulire abiti ed alloggi.

Ricasoli mi autorizzò a versare L. 2000 alla Giunta pei lavori ordinati dalla Commissione.

Questa paura del colera produsse anche difficoltà pel rimpatrio dei soldati appartenenti al Veneto che stavano nei reggimenti austriaci. Il ritorno di tanta gente, in un momento in cui si temeva l'incrudelire di una epidemia, era pericoloso. Il Governo nostro voleva differirlo, ma l'Arciduca Alberto nauseato dall'indisciplina di questi individui, che [p. 46 modifica]si dicevano liberati da ogni disciplina, non volle concederlo per quelli che venivano dal Tirolo, e prorogandolo solo di due giorni per quelli diretti ad Udine. E questo l'ottenni per l'intermedio di Mœring, poichè il Governo di Vienna aveva negato assolutamente ogni ritardo.

Stabilii due Commissioni, una a Peschiera pei provenienti dal Tirolo e l'altra ad Udine, onde regolare la direzione a darsi ai vari drapelli.

Ma la Direzione generale delle Leve che la sapeva più lunga di tutti, scriveva con serenità burocratica "questi individui lasciati in libertà dal Governo austriaco dovranno nel giungere alla frontiera essere avviati ai Comuni cui appartengono e considerati in congedo illimitato. Ai Comuni si dovrà mandare il relativo elenco degl'individui nel quale saranno notate le generalità„.

Il Travet scriveva tale balordaggine come se si fosse trattato di mandare da Susa gli individui a Orbassano od a Gassino.

Telegrafai a Cugia che si trattava d'un numero di poco inferiore a 50,000 uomini, che i Comuni non potevano fare un tal lavoro, meno ancora la divisione dei contingenti alla frontiera, se non v'era una Commissione. Proponevo e mandavo il personale delle due Commissioni, e come sempre Cugia approvò, e la circolare della prelodata direzione generale delle Leve passò agli archivi.

Con Mœring disponendo per quelli che si trovavano già nel Veneto, dovemmo pure dare norme speciali pei gendarmi e guardie di polizia, onde non lasciarli esposti ai rancori delle popolazioni. Dal Ministero si fecero pure osservazioni sulle giornate di mantenimento di questi individui, dal qual giorno si dovevano corrispondere al Governo austriaco. Menabrea doveva aggiustare la cosa a Vienna, ma disse di non aver nulla prestabilito.

Dovemmo dunque Mœring e me definire la questione. Stabilimmo che gl'individui erano 47,102. — La spesa pelle giornate di presenza 303,385 fiorini, i quali uniti al valore del materiale davano un totale di 4,871,291.89. Decidessero poi i Governi sul valore dei fiorini.

Sarebbe stato un vero caleidoscopio l'analizzare tutti i telegrammi, dispacci, reclami, lettere e domande verbali che affluivano da ogni [p. 47 modifica]parte al Commissario Regio Militare. Ero senza ufficio, non mi sgomentai e tentai di provvedere a tutto alla meglio. Ricorrere a Mininisteri era inutile. Essi disponevano come se il Veneto fosse già consegnato.

10 ottobre: "Municipi autorizzati pagare soldo dovuto garibaldini, purchè constatino che lo sono realmente, saranno rimborsati. Dopo ciò Autorità locale può prendere verso di loro misure che crede opportune per tutela ordine publico.„ E queste autorità dipendevano da Alemann o Jacobs!

12 ottobre: "Questo Ministero (di marina) previene V.S. che manderà legni da guerra a Venezia!„ Telegrafai subito di non farlo. Lebœuf avrebbe sparato i cannoni della sua Provence.

E cosi via dicendo. Però mi si diede sempre ragione, e dai Ministri piena approvazione.

Meno male se poi non avessero agito ciascheduno per conto suo. Quando la sera del 16, di ritorno da Verona, giunsi all'albergo, vi trovai 1300 copio del Manifesto Reale che il mio amico d'Afflitto mi mandava da Treviso, per farli affiggere se credevo.

Telegrafai subito a Cugia: "Ricevuto manifesto, ignorandone esistenza non potei preparare generale francese. Temo protesta motivo data, e nessuna menzione in esso della Francia. Voglia V.E. tener a calcolo, difficoltà della mia posizione„.

M'arriva un telegramma dall'Interno che mi annunzia che il Plebiscito Veneto sarebbe stato ricevuto in forma solenne, e provvedessi, onde i palazzi demaniali restassero sgombri dalla presenza degli Austriaci, fatta la cessione!

Altro che cessione! Il 17 alle 8 ore del mattino, mi vedo arrivare Lebœuf con in mano un giornale, nel quale era stampato tutto il Decreto Reale. Era fuori di sè, non parlava, non gridava, ed urlava che era una violazione del trattato, un insulto alla Francia, e protestava che, senza un ordine reciso del suo Imperatore, non cedeva il Veneto.

Cercai calmarlo, dicendogli esservi equivoco, non trattarsi che di disposizioni preparatorie, e la situazione esser talmente tesa che bisognava finirla. Non voleva acclamazione nè astensione, per antivenirlo [p. 48 modifica]conveniva preparare gli animi. Aggiunsi d'osservare quanto avessi fatto, secondo le istruzioni del mio Governo, per tener calme le popolazioni, facilitare lo sgombro, render possibile la soluzione dei Notabili e di Plebiscito.

Non voleva intendere ragione (ed aveva ragione), e quando gli facevo intravvedere i gravi disordini che potevano succedere, ed anche le dimostrazioni offensive all'Imperatore, mi rispose che avrebbe fatto sbarcare dalla Provence un distaccamento di marina.

— Volete dunque rischiare una zuffa?

— Ebbene mi ritirerò sulla Provence.

— E se vi si lascia?

Tnsomma nè buone nè cattive, nulla volle intendere.

Telegrafai subito a Firenze la scena con Lebœuf. Deciso a non publicare il Decreto, ne tolsi l'intestazione e la chiusa, e fatto chiamare Michiel, gli diedi il rimanente, onde lo si inserisse in un proclama da pubblicarsi il 19 dopo eseguita la cessione. Scrissi ancora a Lebœuf per esporgli le gravi conseguenze di un ritardo. Mi rispose:

"Mou cher General. J'apprecie vos sentiments personels et tout votre desir d'èviter des froissements au moment ou notre tàche, si heureusement accomplie jusqu'à ce jour, allait se terminer. Mais vous comprendrez que j'ai des devoirs à remplir. Croyez bien que je regrette de ne pouvoir faire pour vous ce que vous me demandez.„

Poco dopo il suo ufficiale d'ordinanza mi portava una protesta ufficiale di Lebœuf, il quale: visto l'incarico avuto: vista la pubblicazione fatta dal Governo italiano contraria alle stipulazioni: viste le istruzioni del suo Governo: mi dichiarava che non avrebbe fatto l'atto di cessione del Veneto, senza aver ricevuto nuovi ordini dall'Imperatore, (17 ottobre) e mi chiedeva ricevuta della protesta.

Telegrafai la protesta. Il Ministro degli Esteri mi riscontrava: "Nessun decreto reale fù publicato. Non capisco la causa di quest'equivoco. Non vi sono che istruzioni alle municipalità pelle modalità che devono essere stabilite anticipatamente per motivi che il Commissario francese pareva avere apprezzati. Voglia chiarire. Non è il caso qui (confusione di cifre) e telegrafi d'urgenza.„ [p. 49 modifica]

Il Ministro della Guerra: “Ministro dell’Interno dà le seguenti spiegazioni: Decreto non fù mandato per essere pubblicato che dopo la cessione Lebœuf, per ora basta farlo conoscere privatamente ai Veneti: che nella relazione non si doveva parlare della Francia, perchè è un atto interno, quindi di nulla è innovato di ciò che era prima convenuto.”

Altro telegramma degli Esteri: “Vi ripeto che nessun decreto fù pubblicato. Pregate Lebœuf di dirvi di quale decreto si tratti. La Gazzetta Ufficiale del 14 publicò, nella sua parte non ufficiale, un estratto sommario d’istruzioni ai Municipi, e m’affrettai di telegrafarvelo lo stesso giorno (cioè il 15); non vi furono altre publicazioni.”

Ed è appunto a questo telegramma del 15 che riscontrai la sera stessa per informare sulle gravi conseguenze che poteva avere tale publicazione.

Susseguiva altro telegramma degli Esteri: “Imparo adesso che alcuni esemplari d’un Decreto Reale pel Plebiscito furono distribuiti ai Commissari Regi Civili. Questo Decreto non ebbe corso. Fù soppresso in seguito alle osservazioni che feci subito al Ministro dell’Interno. Non fù promulgato, non è apparso negli atti del Governo, dunque non esiste e non ha mai esistito che allo stato di progetto. Non fù publicato precisamente perchè dichiarai al Ministro dell’Interno che avrebbe potuto sollevare opposizioni da parte del Commissario francese, e far sorgere all’ultim’ora un incidente il cui scopo e portata non sarebbe da alcuno compreso in Europa.”

Avanti ai miei occhi stava il Regio Decreto, 7 ottobre, firmato Vittorio Emanuele, che fissava il 21 e 22 stesso mese pella votazione del Plebiscito. Non solo lo leggevo stampato nel giornale, ma sapevo che era affisso in tutta la provincia attigua di Treviso; me ne avevano mandate 1300 copie per Venezia ed Estuario; Lebœuf me ne aveva portato una copia; e si voleva che dicessi al Commissario francese ch’egli si sognava un Regio Decreto che non esisteva! Se invece di essere sopra una riva del Canal Grande, mi fossi trovato sulle rive dell’Arno, avrei chiesto al Governo, chi doveva far ballare i burattini? In tanta confusione governativa, solo, in Venezia, coll’urgenza di [p. 50 modifica]provvedere, mi decisi ad agire in nome mio, ed aprir l'adito a Lebœuf di uscire dall'impaccio in cui si trovava. L'essenziale era di finirla, e da Firenze ben lungi di ricevere istruzioni chiare, non mi giungevano che telegrammi confusi e contraddicenti.

Scrissi a Lebœuf ed accusata ricevuta della protesta, continuavo la posizione eccezionale di queste provincie rende indispensabile una pronta soluzione, e questa situazione ha dovuto essere fatta presente all'apprezzamento di S.M. l'Imperatore dei Francesi.

"Il Governo Italiano, fedele ai patti, vuole il Plebiscito; ed è per assicurarne l'esecuzione che furono pubblicate norme regolamentari, confuse erroneamente col Decreto emanato a Torino, per conoscenza delle antiche provincie e del Parlamento. Tali norme saranno bensì comunicate ai Municipi per uniformare la votazione, ma ne fu precoce e non autorizzata la publicazione.

"Il Decreto Reale d'altronde non essendo stato publicato nelle provincie non ancora annesse all'Italia, non potrebbe avere carattere alcuno di opposizione all'azione che verrà da Voi deferita ai Notabili.

"Io posso quindi dichiararvi che il Governo del Re, mio augusto Sovrano, non ha inteso nè intende intralciare menomamente l'opera vostra, quale Commissario di S.M. l'Imperatore dei Francesi.

"Possa questa mia dichiarazione sincerarvi che, malgrado qualche dubbiosa apparenza, prodotta da equivoco o malinteso zelo di subalterno, il mio Governo intende rispettare l'azione della Francia, e togliervi ogni timore di venir meno alle vostre istruzioni, col non tardare il compimento del vostro mandato.„

Accennavo a tutti i ritardi ed incagli all'esecuzione del trattato, e concludeva di sperare che avrebbe continuato la sua missione.

Ottenni un mezzo risultato. Lebœuf mi riscontrò che la partenza degli Austriaci non sarebbe ritardata, ma per fare la cessione aspetterebbe gli ordini dell'Imperatore.

Avevo telegrafato un sunto della mia dichiarazione, annunziandone rinvio del testo per corriere e della protesta. Il Ministro mi riscontrava gentilmente che applaudiva alla mia dichiarazione, quand'anche non la conoscesse esattamente. Era stata subito trasmessa a Parigi, [p. 51 modifica]quale atto emanato dal Governo. Napoleone fù probabilmente soddisfatto di potersi dire tale, e Lebœuf di buon mattino del 18, mi annunziava che, preso atto della mia dichiarazione, si felicitava di potermi dire che nulla più si opponeva alla cessione di Venezia e del Veneto. Mi annunziava con biglietto a parte, che non avrebbe tardato a venir da me per combinare tutto.

Fatto conoscere a Firenze, dapprima la stupida restrizione di Lebœuf di far partire gli Austriaci ma non lasciar entrare gl'Italiani, e poi il ritiro della protesta, n'ebbi quantità di telegrammi mal cifrati, discordanti, che volevano prescrivere il modo di far la cessione e pubblicare il Plebiscito. C'era un disaccordo completo.

Cugia mi telegrafava alle 8 del mattino del 18: "Onde tu possa comprendere la posizione delle cose, ecco come sono, Ricasoli voleva publicare il Decreto. Il Consiglio dei ministri deliberò di non publicare Decreto, appunto per non adombrare Francia. Invece publicarsi istruzioni nella formola da usarsi per Plebiscito. Forse stampati già partiti con istruzioni ricasoliane. Sia troppo zelo, e troppo ritardo del contrordine, nacque ciò che sai. Sei sul posto; aggiusta come ti par meglio; ma aggiusta presto.„

Ricasoli mi telegrafava: "Notabili dopo aver accettato con dignitoso silenzio l'oratore, gli faranno profondissima riverenza.„ Però finiva cosi: "V. S. si regoli come crederà più conveniente. V.S. deve supplire al Governo centrale laddove non può esercitare la sua azione.

Cialdini che volli consultare in sì grave circostanza, mi telegrafava: "Telegramma Ricasoli non pare cosa seria nè pratica. V.S. faccia come crede, dia consiglio che le sembri migliore. Lo stesso Ministero lo desidera, giacchè gli lascia la possibilità di rovesciare sulle di Lei spalle, la responsabilità di quanto non piace al publico.„

Avevo appena finito questo cifrare o decifrare che mi arriva Lebœuf. Ero realmente stanco pel lavorare, pella preoccupazione delle disposizioni date, e pella responsabilità che mi sovrastava. Ciò mi dava un'aria di malumore, che parve impressionare Lebœuf solito a trovarmi calmo e sorridente. [p. 52 modifica]

Mi disse che veniva per combinare la funzione dell’indomani e parergli conveniente di farla solenne. Il sito naturale essere il Palazzo Ducale. Si farebbe accompagnare dallo Stato Maggiore della Provence. Mi chiese se aderivo all’intervento della Guardia Nazionale. Sperava che i Notabili gli farebbero una risposta da rassegnare all’Imperatore, ma questo me lo disse con qualche titubanza.

Lasciatolo parlare, quand’ebbe finito, lo presi a testimonio ch’io non m’ero mai opposto alla solennità di questa funzione, solo dissi sempre, che non sarei intervenuto, e lui doveva capire la convenienza della mia astensione. Se avevo ricevute rimostranze dal mio Governo, era unicamente per essermi dimostrato troppo conciliante: “Non vi ho detto, Generale, che il Ministero mi ha scritto d’essersi sentito umiliato dall’anticamera di sei ore, fatto fare da voi alle nostre truppe sugli spalti di Peschiera. Nè vi parlai del rabuffo avuto dal generale Cialdini pella contraddanza fatta ballare ai nostri distaccamenti d’artiglieria e genio, che ora volevate, ed ora proibivate.3 Nè tante altre cose che serbo per me. Ma adesso mi sento esautorato per colpa vostra. Il trattato fù ratificato dal mio Re il 6, e mercè tutti gl’indugi posti da voi all’evacuazione degli Austriaci, al giorno 18 essi sono ancora in Venezia, e voi dichiarate il 17 che non si farà nè la consegna dall’Austria, nè la retrocessione dalla Francia! La popolazione è esasperata pella vostra dichiarazione; il Municipio irritatissimo pella posizione pericolosissima nella quale l’avete lasciato tanto tempo, impedendogli di chiamare le truppe italiane. La Guardia Nazionale, della quale ritardaste l’armamento coll’intermezzo del vostro Pillet, si rifiuterebbe a tale onoranza. Con molta pena abbiamo impedita una dimostrazione di biasimo che si voleva fare ieri sera sotto le finestre del vostro albergo. Sono costretto a declinare qualunque responsabilità se, volendo voi fare la retrocessione in luogo publico, succederà un concorso con fischi e grida insultanti, od una diserzione completa che, lasciandovi nel vuoto, diventerebbe pur essa offensiva. Dirò di più, se vi persistete nella vostra idea del Palazzo Ducale, temo fortemente che i tre [p. 53 modifica]Notabili vi si rifiuteranno, e due di essi abbandoneranno Venezia. Se non mi credete, consultate il vostro console Pillet, il quale pretende conoscere tanto i Veneziani, e sentirete se vi parlerà diversamente da me, ed oserà consigliarvi la funzione solenne?„

Aveva l'apparenza di parlare concitato, ma nell'interno godevo di vedere le cose giunte al punto che volevo e Lebœuf, caduto nelle mie reti, espiare le sue arie protettrici ed urtanti.

Egli dovette convenire dell'inutilità delle mie buoni disposizioni, e rassegnarsi.

— Ma Mœring sarà contento? Mettiamoci al posto di Mœring, non saremmo contenti di fare la cosa più chetamente possibile?

Ne convenne.

Allora mi disse che doveva rivolgere alcune parole ai Notabili, e speravo che ciò non incontrasse ostacolo.

— Dipende da ciò che intendete dire, e ch'io ignoro.

— Voilà mon discours. Tira fuori una carta e me la legge. Non c'era frase contraria al concetto del trattato. Qualcosa però sul modo della votazione che era meglio tacere. Egli aderì subito alla soppressione. Allora gli espressi il concetto della risposta che avrei consigliata ai Notabili.

Lebœuf s'aspettava così poco una risposta, che mi saltò al collo, abbracciandomi con vera gioia.

— Vi devo questo, perchè so da Vimercati che Ricasoli non voleva risposta. Ci separammo ottimi amici.

Telegramma a Cugia: "Domani alle 8, senza alcuna solennità, nell'alloggio Lebœuf, si farà cessione Venezia, retrocessione ai Notabili. Lebœuf pronunzierà allocuzione ai Notabili, comunicatami e corretta secondo le mie osservazioni. Notabili leggeranno alcune frasi di ringraziamento all'alleato del nostro Re nel 1859, e mediatore benevolo nel 1866, rammentando frase dall'Alpi all'Adriatico. Ciò da me combinato coi Notabili. Allocuzione e risposta non saranno rese publiche in alcun modo, Notabili licenziati. Alle 9 sventolerà bandiera nazionale sulle antenne di Piazza S. Marco. Municipio emanerà proclama in cui stabilirà le norme polla votazione, desumendole dal disposto nel Decreto Reale. [p. 54 modifica]Così non si accenna data, e può alludersi a publicazione fatta il giorno stesso in altre città. Truppe riunite stazione di Venezia, mediante convogli successivi da Mestre, entreranno in tre colonne alle ore 10, si riuniranno in Piazza S. Marco. Rivista, stilare, quindi alle caserme già preparate da Municipio. Accordo completo con Commissari francese ed austriaco. Prego comunicare Ministro Interno ed Esteri.

"Revel.„


"Era tentato di porvi la chiusa di una lettera del generale Cialdini spengo il lume per poter dormire, come auguro a Lei.„

Ne fui però impedito dai telegrammi, incessanti, per darmi ordini, suggerimenti. Ormai, ciò che si era inteso non si poteva, nè intendevo modificarlo. Lasciai correre, rispondendo uniformemente: "Mio telegramma Ministro Guerra indica chiaramente andamento fissato, invariabile.„

Alle 7 del 19 Mœring consegnava a Lebœuf il Veneto. Alle 7.30 Lebœuf rimetteva Venezia al Municipio. Alle 8 i tre Notabili entrarono da Lebœuf, il quale rivolse loro l'allocuzione combinata. Quando finì il conte Michiel lesse la risposta. Terminata questa lettura, Lebœuf dichiarò di lasciar libero il Veneto, perchè possa esprimere il suo voto d'annessione al Regno d'Italia. I tre Notabili diedero atto al generale Lebœuf della rimessione del Veneto a sè stesso, e si ritirarono. Emikelder partì per Mantova e De Betta per Verona onde prepararvi il Plebiscito.

Michiel subentrato a Gaspari, che mi aveva presentata la sua dimissione e della Giunta, venne alle 9 con me e Tecchio in P.a S. Marco.

Non dimenticherò l'impressione d'entusiasmo magnetico, che provammo tutti, quando allo scoccare del primo colpo delle ore 9, tre vaste bandiere nazionali furono contemporaneamente issate sulle tre antenne storiche di quella piazza.

Telegrafai al Re: "Sire! in questo momento la bandiera nazionale, fregiata deir augusto stemma di Casa Savoia sventola dalle antenne di Piazza S. Marco, in mezzo agli applausi della popolazione frenetica di gioia.

"Revel.„

[p. 55 modifica]Il Re mi rispondeva immediatamente: "Generale Revel grazie. Sono felice di veder compiuto in oggi le aspirazioni di tanti secoli. L’Italia è una, è libera, sappiano ora gl’Italiani difenderla e conservarla tale.

"Vittorio Emanuele.„


Entrarono le truppe accolte con immenso entusiasmo. Il Municipio aveva tutto disposto pell’acquartieramento e rancio. Diedi un gran pranzo a tutte le autorità. Illuminazione generale. Uffiziali, e specialmente i soldati trattati lautamente dai cittadini. Avevo fissata la ritirata pella mezzanotte, e prescritto di non punire i ritardatari perchè supposti trattenuti dagli inviti. Insomma festa generale.

Alle 8.30 Alemann montava in barca per andare a bordo del vapore. Tutti lo salutarono rispettosamente. Gli strinsi la mano, prima che uscisse di casa, e mi ringraziò caldamente.

Lebœuf parti l’indomani. Nessuno lo salutò. Ero andato verso sera pella visita di commiato. Stava tra il lieto e il mesto. Mi mostrava, mortificato, la Gazzetta di Venezia ove lessi: "Questa mattina in una camera d’albergo si è fatta la cessione del Veneto.„ Tanto laconismo, e nessun’altra pubblicazione l’aveva impressionato!

— Il silenzio è d’oro, massime per prevenire improntitudini di stampa gli dissi. — Accennai leggermente ad uno scambio di decorazioni, sapendo ch’egli ambiva il collare dell’Annunziata. Così ero certo che giungendo a Parigi, avrebbe riferito ogni cosa in modo favorevole per noi. Ci abbracciammo, e mi convinse che si sarebbe mostrato soddisfattissimo, e questo era l’importante; massime dopo che il suo aiutante di campo aveva detto: "Le général de Revel l’a mis dedans.„ L’ha messo nel sacco.

Non darò ulteriori ragguagli, che già pubblicai.

641,757 sì vollero l’annessione, contro 69 e 306 nulli.

Ora dove vuoisi vedere l’umiliazione dell’Italia?

L’Austria cedette il Veneto, assolutamente come un comandante di fortezza la cede, cogli onori della guerra, quando non è più possibile ulteriore resistenza. La Francia figurava come mediatrice dapprima, [p. 56 modifica]e poscia, come si è visto, fù completamente eclissata. L'aspettativa del simulato plebiscito non impedì la nostra occupazione, l'inaugurazione della bandiera nazionale, e l'introduzione delle nostre leggi.

Il Veneto, consegnato ai Notabili alle 8.30 del 19, dileguatisi questi, rimase senza Governo sino alle 8.30 del 27!

Se di tutto questo si fosse potuto menar vanto, la Nazione non si sarebbe così malamente impressionata. Ma non conveniva offendere Napoleone, dimostratosi ripetutamente così benevolo per l'unità dell'Italia, malgrado il malanimo dei Francesi, prodotto da gelosia.

Questa prudenza del silenzio sull'andamento della cessione fece sì che, mentre Re e Ministri encomiavano in tutti i toni, il modo col quale avevo menata la barca, non mi si diede alcun seguo di premiazione. Per me, l'essenziale era di sentirmi di aver fatto il mio dovere.

Mi restrinsi a riassumere i fatti principali di questo evento importante, per far risultare con quale criterio si sarebbe dovuto giudicare la situazione dell'Italia; avendo già nel precedente mio opuscolo La Cessione del Veneto ricordate distesamente tutte le sue fasi.

Molti, che allora erano nel Ministero, nell'armata e nella politica, mi dissero che ignoravano tutti gli incidenti da me ricordati, ed incresceva loro di non averli conosciuti nel tempo.

Accennerò il deplorevole fatto della rivoluzione in Palermo, promossa dai due partiti avversi al Governo, il regionale ed il borbonico, aiutati dalla maffia.

Valendosi che il presidio era meno che debole, pella partenza al campo delle truppe, si formarono bande armate le quali, nella notte del 15 al 16 settembre, irruppero in Palermo saccheggiando le case, e trucidando chi non voleva unirsi a loro. Il prefetto Torelli, ed il sindaco Rudinì lottarono con molta operosità e valore contro quella bordaglia, fattasi padrona per 5 giorni di quasi tutta la città, meno il Castello Reale, le Carceri ed il Porto rimasti in potere della poca truppa aiutata da parte della Guardia Nazionale.

La sera del 19 giunse parte della squadra con poche truppe da sbarco. La sera successiva sbarcava gran parte della divisione Angioletti. Le bande si ritirarono all'infuori. Il generale Cadorna, nominato [p. 57 modifica]Commissario regio, giunse il 22 colla divisione Longoni, e ristabilì energicamente l'ordine nella città e nel contado.

È doloroso il pensare che siasi trovata tanta gente da galera per promuovere la guerra civile, mentre l'esercito alla frontiera, combatteva contro il nemico d'Italia.

Nominato Tenente Generale, per aver comandata una divisione in guerra, fui destinato al Comando della divisione di Padova.

Al fratello (17 novembre): "Il Re mi disse che voleva destinarmi a Venezia, ma Ricasoli aveva già nominato Mezzacapo molto tempo prima, come Giustiniani Sindaco e molti altri impiegati. — Il Barone aveva fretta di farsi vivo nel Veneto, mi disse il Re ridendo. — Ne sono contento. Malgrado la mia ben giusta simpatia pei Veneziani, preferisco il comando di Padova, ove potrò montare a cavallo ed esercitare le truppe. E poi, rimanere secondo là dove l'aveva fatta, direi quasi, da dittatore, mi parve dissonante.

"Cugia mi parlò della missione di Vienna. Declinai la proposta. Il voler considerare come non completa la cessione del Veneto, e le restrizioni complementari usate nelle ultime allocuzioni ufficiali rendono ambigua la posizione del nostro ministro a Vienna, ed io non amo le posizioni dubbiose.

"La mia riuscita in questa missione mi procurò encomi da ogni parte, ma alcuno di essi me li fece a bocca stretta.

"Sa di amaro, che un subordinato, abbia fatto ottimamente, come mi si dovette scrivere, senza la superiore ingerenza e direzione; potrei anzi dire, contro. Andando a Vienna, so benissimo che, almeno per ora, nulla potrei ottenere, sarei accusato d'Austriacismo, mentre il mio parlare sincero spiacerebbe al Governo di Vienna. Nò, nò! meglio a Padova, ed un po' più di quiete.

"Il senatore Giustiniani, al suo ritorno da Torino, mi ha descritta la visita della deputazione Veneta alla tomba di Carlo Alberto a Superga, e narrato come Bottero parlò del nostro padre, ricordando come egli aveva preso possesso di Savoia e Genova, e come un Revel entrava prima in Venezia.

"L'indomani mi portò la Gazzetta del Popolo. Fui commosso da [p. 58 modifica]quella lettura. Riesce ben gradito vedere rendere giustizia al nome della famiglia. Perdono a Bottero tutte le cattive frasi di altra epoca.

“Altra epoca davvero! Come mutansi le situazioni col progredire degli anni! Tecchio e Bottero che si dicono lieti di fare il tuo elogio, e quello del nostro padre. Avesti una gran bella ispirazione di parlare in onore di quel Sovrano, che hai servito con tanta devozione.„





Note

  1. Questi telegrammi si riferivano ai Notabili, ed alla funzione della consegna.
  2. In un gran pranzo dato a tutti i generali ed autorità, pregai Lebœuf di starmi a fronte. Alle frutta portano un stupendo gelato coi colori nazionali. Ne fui seccato, ma pensai di dire ad alta voce ad Alemann, in tedesco: Bauer volle rappresentare le tre potenze, quali virtù teologali, ma ohimè! se la fede e la speranza sono vivaci pel bel rosso e verde, quanto è scolorita la carità! Si direbbe ch'egli dubita che ne sia tra noi. Ripetei lo scherzo in francese a Lebœuf, e la cosa passò in burletta.
  3. Spiritose invenzioni, come dice Goldoni.