Sonetti romaneschi/Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola/IV

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Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - IV

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Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - III Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - V

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IV.

Insieme con Pasquino va scomparendo anche il tipo del popolano di Roma e del suo dialetto, che con Pasquino avevano così stretti legami.

“La plebe romana„ (io dicevo nella vecchia Prefazione) "è ignorante al pari d’ogni altra, ma presuntuosa in grado superlativo. Per il trasteverino, che ha piena la testa di confuse tradizioni sulla passata grandezza del suo paese; che vede le pompe asiatiche della Corte pontificia, e una moltitudine grande e sempre nuova di forestieri fermarsi attonita davanti a’ monumenti antichi e poi inginocchiarsi al cospetto del Papa; per lui che non sa nulla della magnificenza delle moderne metropoli, Roma è ancora il caput mundi, l’urbs, la città unica. E però, dotato com’è d’un ingegno naturale non ordinario, egli si stima un gran che per il solo motivo che è romano de Roma,1 e tiene per gente dappoco tutti quelli che non nacquero all’ombra della gran cupola. Chiama provinciali (cioè zotici) i nativi delle altre città d’Italia, siano pur Napoli, Firenze, Milano o Torino; e li tratta dall’alto al basso. Non fa nessuna stima del Papa, e ne dice ira di Dio in ogni occasione opportuna; ma guai se un forestiero ardisce sparlarne in sua presenza! Egli allora diventa un papista fanatico più di Ravaillac, ed è capace di metter mano al coltellaccio; perchè i panni sporchi vuol lavarseli da sé a casa propria, e perchè chi non è romano de Roma non può aver voce in capitolo. Bestemmia, e in modi novissimi, da mattina a sera; ma va alla messa puntualmente tutte le domeniche e le altre feste comandate. Ha i suoi bravi dubbi [p. ccxxix modifica] sull’esistenza di Dio, ma crede al diavolo, alle streghe, agli spiriti, più sicuro che se li avesse toccati con mano. Porta nella stessa tasca coltello e corona.„

Da questo curioso impasto, e dalla natura stessa del reggimento che aveva contribuito a produrlo, derivava in gran parte l’inclinazione e l’attitudine de’ Romaneschi a burlarsi d’ogni cosa. E poiché la lingua (io dicevo ancora) “è sempre lo specchio dell’anima d’un popolo, nel vernacolo romanesco si riflette limpidamente il bernoccolo satirico dei figli di Quirino, e frasi, traslati, proverbi, similitudini sono spesso epigrammi: tutto il dialetto, starei per dire, è una satira ... Se oggi [1868] andate da un vetturino per contrattare una gita in campagna, e gli offrite un compenso che a lui paia non adeguato, vi risponde seriamente: Nun pòzzumus!, traslato e satira a un tempo.„

Ora, tra le carte del Belli, trovo una sua lettera del 15 gennaio 1861, nella quale egli si scusa di non poter fare per Luigi Luciano Bonaparte la traduzione romanesca del Vangelo di San Matteo, perchè questa “lingua abbietta e buffona,„ parlata dalle sole infime classi, “appena riuscirebbe ad altro che ad una irriverenza verso i sacri volumi.„ Vale a dire, che per tradurre nel vero romanesco una cosa seria, bisogna necessariamente metterla più o meno in ridicolo. Che se poi lui, il Belli, s’era “in altri tempi,, lasciato andare a scrivere in dialetto, lo aveva fatto "unicamente,, per "introdurre il nostro popolo a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo così egli stesso i suoi propri usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo, di cui esso occupa il fondo.„ Il qual proposito era già stato più minutamente esposto da lui fin dal 5 ottobre 1831 all’amico suo Francesco Spada, in una lettera da [p. ccxxx modifica] Terni, che poco dopo trascrisse quasi per intero nell’Introduzione a’ Sonetti.

“Vengo carico,, (diceva allo Spada, annunziandogli il suo prossimo ritorno in Roma), "di nuovi versi da plebe. Ne ho sino ad oggi in centocinquantatre sonetti, sessantasei de’ quali scritti da dopo la metà di settembre.2 A guardarli tutti insieme, e unendovi col pensiero quel di più che potrà uscire dai materiali già raccolti, mi pare di vedere che questa serie di poesie vada a prendere un aspetto di qualche cosa, da poter forse davvero restare per un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i costumi, le usanze, le pratiche, la credenza, le superstizioni, i pregiudizi, le notizie, e tutto ciò insomma che la riguarda, ritiene, al mio giudizio, una impronta che la distingue d’assai da qualunque altro carattere di popolo. Nè Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di gran cosa, di una città cioè di sempre solenne ricordanza. Di più, mi sembra non iscompagnarsi da novità la mia idea. Un disegno così colorito non troverà lavoro da confronto che lo precedesse... Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttodì, senza ornamento, senza alterazione, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, se non quelli che il parlatore romanesco usa egli stesso: insomma, cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso; ecco il mio scopo. Il numero poetico deve uscire come per accidente dal casuale accozzamento di correnti e libere parole e frasi, non iscomposte giammai, nè corrette, nè modellate, nè accomodate, con modo diverso da quello che ci può mandare il testimonio delle orecchie. Che se con simigliante corredo di colori nativi giungerò a dipingere tutta la morale e [p. ccxxxi modifica]civile vita e la religiosa del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere, non disprezzabile da chi guarda senza la lente del pregiudizio.     Non casta, non religiosa talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparrà la materia e la forma; ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per dare un modello, ma sì una traduzione di cosa già esistente, e, più, lasciata senza miglioramento.     A te e a Biagini, e con voi agli amici di maggior mia confidenza, io darò a vedere gli ultimi lavori delle mie ore d’ozio, persuaso che la delicatezza e l’amicizia d’entrambi non ne trarrà fuori che la sola lettura.     Ne rideremo poi insieme; e queste risa ci varranno a prepararci l’animo alle possibili sciagure che ci minaccino.„3

Né mai, se si tien conto di quel che il Belli non poteva dire troppo apertamente, un artista concepì disegno più vasto, più novo, più civile, e ne ebbe più chiari nella mente i mezzi e il fine.

Mentre, dunque, gli altri scrittori di dialetto (compresi quelli che prima del Belli tentarono, imbastardendolo, il romanesco) si servono della lingua del popolo, per esprimere, quasi sempre, sentimenti e pensieri propri; il Belli invece se ne serve per esprimere sentimenti e pensieri del popolo stesso, mettendolo addirittura in iscena, e facendo parlar sempre lui, il quale, cosi, viene dipingendo sé medesimo, e tutta la vita romana, come e per quanto è penetrata nel suo angusto ma acuto e arguto cervello.     E il poeta sta sempre all’erta, per non uscir dai confini del pensiero e della lingua popolare. Dimanierachè, se in quel ch’egli dice, tutto non fu detto dal popolo, non c’è però nulla che il popolo non potesse [p. ccxxxii modifica]dire: quindi quella fusione maravigliosamente perfetta, che si ammira in lui, tra la materia e la forma.

Chi ha dimorato in Roma, e legge il noto sonetto: La poverella (composto in vettura, dall’Osteria del Fosso alla Storta, il 13 novembre 1832, gli pare d’aver sentito mille volte chiedersi l’elemosina proprio con quelle stesse parole. Eppure, nessuna accattona ha mai parlato in versi, e molto meno in versi legati in quell’ardua forma! Ma il poeta ha potuto produrre questa illusione, appunto perchè da ciò che anche lui aveva realmente udito, ha indovinato felicemente ciò che in altri casi simili avrebbe potuto udire: dal fatto reale è asceso al probabile, dando sempre rigorosa unità alle sue scene, e scolpendo i caratteri con tanta sicurezza, che spesso fin dalle prime parole si rivelano interi.

Tra gli appunti ch’egli andava prendendo per i sonetti, trovo questi, che, se la memoria non m’inganna, rimasero tutti, come tanti altri, in embrione:

(Disgrazie.) So’ vvisite de Dio. Va bbene. Chi rreprica? Ma si fussi un omo, je direbbe: Sta’ a ccasa tua.

De du’ scianche,
            Una sola era fatta p’er zervizzio.

L’antra je stava accanto, come de guardia, pe’ ffajje fa l’obbrigo suo.

Fischi alle carrozze, prima del convoglio funebre di Piombino:

            Fascéveno la prova generale.

Pe’ aggiusta tutti li guai, tanto ce sarebbe er rimedio: bisognerebbe divide er monno in du’ parte,

            L’Oriente a nnoi e ll'Accidente a llòro.

So’ più galantomo
            De chi ccammina co’ le vostre scianche,

(o altra metafora consimile).
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Chi? io? pe' llei?
Gnente: io so' morto pe' ttutta la vita.

Per errore, un falegname portò una cassa da morto a un vivo:

      Senza de falla ariportà a bbottega,
....ve pò sservi ppe' un' antra vorta:
Questa equi nun è rrobba che sse sprega.

Libbri? Pe' nnoi abbasta che cce sii l' Indovinagrillo e 'r Libbro dell'Arte [il Libro de' sogni].

La serva de Ranuzzi Fonzeca [che va a comprare il pesce]:

Voi guardatel' all'occhi
Sti merluzzetti qui so' ffreschi vivi.
      E abbadate in ner frìggeli, sorella,
Perché ar zenti er brusciore de lo strutto
Ve pònno sarta vvia da la padella.

Li siggnori so' ppiù ggranni de noi. — Si, ma li vedo tene li piedi dove li poso io.

Che bestemmia! Disce che Maria Santissima nun era divota de la Madonna!

Dà la benedizzione co' li piedi (l'impiccato).

                    Quelli li nun zo' ommini: so' ppreti.

Un quadro do pittura, che indóve t'arivorti te guarda.

A Papa Grigorio je volevo bbene, perché me dava er gusto de poténne di male.


Ora, chi potrebbe in questi pensieri distinguere il vero dall’inventato? Tanto è possibile che siano usciti tutti dal cervello del poeta, quanto ch’egli li abbia tutti raccolti per la città. E il medesimo deve dirsi anche di quella parte di forma, dove pare che dal reale sia asceso al probabile. Vediamone un esempio in una delle più spiccate caratteristiche del dialetto.

[p. ccxxxiv modifica]“La sapienza che hanno gl’ignoranti a dire spropositi,, (scrive il nostro autore in un altro appunto, e alludendo, già s’intende, a’ suoi Romaneschi)„ “è incredibile. Se ne ascoltano talora di sì nuovi e preziosi, che tutta la mente di Vico e di Romagnosi non saprebbe giungere a combinare.„ La plebe romana, infatti, essendo forse più superba d’ogn’altra, né volendo rassegnarsi a non capire quel che non sa,4 ha forse più d’ogn’altra il vizio di sforzar le parole che non intende, per farne tutt’una con altre notissime, somiglianti di suono, ma raramente di significato, e creare così etimologie cervellotiche, le quali poi spesso diventano legge nell’uso, e sempre generano ambiguità e controsensi ridicolissimi. Son pochi giorni, per esempio, che una povera donna domandava a me, con tutta serietà, dove stesse il Castro petrolio. E questo vizio, quand’è così effetto d’ignoranza e di superbia, può considerarsi come una resistenza del dialetto contro la lingua, che ogni giorno più va supplantandolo; ma in molti casi è anche effetto di malizia e di spirito satirico. E dall’una e dall’altra categoria di spropositi il Belli cavò straordinario partito. Ma, salvo quelli d’uso normale e molto comune (come riverèa per livrea, ravvicinata a riverire, perchè la portano i servitori; o zampana per zanzara, ravvicinata a zampa, perchè le ha molto lunghe5), [p. ccxxxv modifica]anche qui nessuno potrebbe ormai dire se abbia inventato lui copiato dal vero; reo d’illesa maestà, tremor de tarlerò, Anna Balena, massima der zangue, modo-propio (motu-proprio), dolori aromatichi, dijje un tesprofunni (un deprofundis), medico culista (oculista), farro de Messina, Giove Esattore, istruzzion de fédigo (ostruzion di fegato), brigantiere (brigadiere), biscredente (miscredente), caterinaria (catilinaria), re-bbarbaro (rabarbaro). Monte Paladino, rammaricante (amaricante), padre sputativo, eccetera, eccetera. Ciò che si può dire di certo è che ognuna di queste storpiature è tanto verisimile, che può perfino esser vera, senza che il Belli lo sapesse. Egli, insomma, ricava pensieri e forma dalla realtà effettiva, o da una realtà possibile ad ogni istante; affinchè i suoi versi (come aggiungeva lui stesso, trascrivendo nell’Introduzione la lettera allo Spada), "non paiano quasi suscitare impressioni, ma risvegliare reminiscenze.„

Un anno prima che scrivesse codesta lettera, quando cioè non aveva ancora trovata bene la sua via, né aveva ben chiaro in mente il disegno dell’opera sua, compose un lungo sonetto caudato: Devozzione pe’ vvine ar lotto (20 agosto 1830), in cui, come confessò poi nella prima nota, a una gran parte di vere superstizioni intorno al detto gioco, ne aveva mescolate non solo di verisimili (superflue, anzi dannose, in materia dove il vero abbonda), ma, peggio ancora, molte altre riferentisi ad altri soggetti; sicchè tutto il sonetto gli era riuscito non un ritratto, ma una caricatura del vero. E perciò, il 7 dicembre 1832, lo rifece, riducendolo a soli quattordici versi, di ottantanove che erano. E ridotto cosi, fa certamente rider meno, ma lo si ammira di più, e corrisponde assai meglio all’intento generale dell’opera.6

Una perfetta verisimiglianza s’incontra, dunque, in [p. ccxxxvi modifica]tutti i sonetti, non rifiutati, del grande poeta. Solo in alcuni, e particolarmente di quelli che trattano soggetti politici religiosi (si vedano, per esempio, i due famosissimi: Er Ziggnore ecc., 3 ott. 31, e Li Soprani ecc., 21 genn. 32), il concetto è troppo studiato o troppo alto, e ci si sente un poco la personalità dell’autore. Né deve recar maraviglia che, ciò non ostante, parecchi di questi sonetti fossero e siano tuttora più universalmente famosi e ammirati; perchè, prima di tutto, il difetto da me notato si trova in pochi, e poi è ben naturale che massime ai non romani, paressero più belli questi sonetti in cui il poeta si eleva, qualche volta anche per conto proprio, a un ordine d’idee comuni e ben accette a tutta Italia, che non quegli altri in cui ritrae fedelmente la vita, il sentire e il pensare speciale della plebe romana, e che non offrono un immediato raffronto col vero, se non a chi abbia ben conosciuto quella plebe. Il difetto dunque giovò, anziché nuocere, alla fama del poeta; e, se ne mancassero altre, sarebbe anche una prova incontrastabile che, quand’egli concepiva e scriveva i sonetti politici e religiosi, era tutt’altro che clericale.

L’elezione che il Belli fece del sonetto e della forma dialogica per attuare il suo vasto disegno, non fu di certo fatta a caso. Scelse il sonetto, perchè esso è il più adatto per allogarvi piccole scene, potendo anche allungarsi con la comoda coda, se la scena si allunghi. Scelse la forma dialogica, perchè la richiedeva il soggetto stesso. Il Romano, come tutti i meridionali, non cerca il pensiero nella solitudine e nel silenzio, ma nella compagnia e nella conversazione: e se non può parlar co’ suoi simili, parla col cane, col gatto, con l’asino, col canarino, col tempo cattivo, co’ santi, [p. ccxxxvii modifica]con la Madonna. Anziché studiarsi di recare nella parola i prodotti della riflessione, egli si studia piuttosto di far nascere la riflessione dall’uso della parola.7 Volendo dunque rappresentare un tal popolo, la forma dialogica è quasi una necessità; perchè questo popolo basta lasciarlo parlare, e si rappresenta da sé. A Roma (come, del resto, in tanti altri luoghi), anche la predica religiosa assume spesso codesta forma. Io da bambino ho visto delle vere commedie o farse, rappresentate sopra una specie di palcoscenico costruito in mezzo alla chiesa di San Rocco a Ripetta. Un gesuita, grasso e rubicondo come un caratterista, recitava la parte del [p. ccxxxviii modifica]miscredente, e ne diceva di tutti i colori; mentre un altro gesuita, che pareva un san Luigi Gonzaga, si sbracciava per convertirlo. A certi punti le risate del pubblico andavano alle stelle, proprio come in teatro; e la farsetta finiva, già s’intende, col ravvedimento dell’incredulo.

Ma con quanta varietà il Belli ha saputo servirsi della forma dialogica! la quale, mantenuta in così straordinario numero di componimenti, sarebbe diventata monotona. In un sonetto avete un dialogo tra due o più persone che parlano tutte il romanesco; in un altro invece, uno degl’interlocutori usa l’italiano o, se straniero, qualche cosa che gli somiglia. Ora incontrate un vero e proprio monologo: ora parla una sola persona, ma con altre, e riferisce discorsi di terzi, spesso in lingue straniere o in italiano, romanescamente spropositati. Infine, in molti sonetti parla pure una sola persona; ma (cosa mirabile!) dalle sue parole voi capite subito, senza nessunissimo sforzo, le risposte dell’altro o degli altri interlocutori, e perfino i gesti, le mosse, tutta insomma la controscena. Quest’ultima specie di dialogo, se non può dirsi che l’abbia inventata il Belli, perchè se ne incontra brevissimi e [p. ccxxxix modifica]fuggevoli esempi in molti e molti altri scrittori, è certo però che nessuno ha saputo adoperarla come lui, in componimenti interi, e tanto spesso, e con tanta maravigliosa evidenza. E, adoperata cosi, a me pare la più efficace; perchè tien desta l’attenzione del lettore, solleticandolo continuamente con quel piacere di leggere tra le righe, d’indovinare da sè tante cose: quel piacere che spesso ci fa ammirare le opere de’ grandi artisti, più per quello che sottintendono, che per quello che dicono.

Note

  1. Questa frase, da lui usata per distinguersi dai non romani dimoranti a Roma, potrebbe dirsi una traduzione libera dell’antico Civis romanus sum.
  2. In margine: “Crescono.„
  3. Cinque Lettere e due Note di Viaggio di G. G. Belli, a cura di Luigi Morandi (pubblicato por le nozze Osio-Scanzi); Perugia, 1886; pag. 9-13.
  4. "L’altiero Romanesco, a chi lo interroga di cosa ignorata da lui, non risponde: Non lo so, ma Chi lo sa? Scendendo una volta per la china di Monte Mario, sul cadere del giorno, m’imbattei con Pio IX, che, circondato dalla sua Corte, a lento passo la montava; ed avendomi egli invitato ad accompagnarlo, la montavamo di conserva. Poco dopo gli si appressarono alquanti fanciulli della campagna circostante; ed egli, accoltili benignamente e data loro baciare la mano, cominciò interrogarli della Dottrina Cristiana, chiedendo al più grandicello: Quanti sono i Sacramenti della Chiesa? E quegli franco: E chi lo sa? Ma il papa a lui: Almeno lo sappiamo noi.„ Curci, Op. cit., pag. 199.
  5. Veda, chi vuol fare una risata, il sonetto: Le zzampane, 2 aprile 1846.
  6. Ma io (o i lettori curiosi di far confronti me ne saranno grati) ho pubblicato anche il primo, come ne ho pubblicati anche altri, che paiono sicuramente rifiutati dall’autore. Di tutti però darò l’elenco in fondo a questo discorso.
  7. Cfr. il lungo articolo dello Schuchardt, G. G. Belli und die römische Satire (Beilage zur Allgemeinen Zeitung; anno 1871, dal num. 164 al 167), ripubblicato poi nel volume: Romanisches und Keltisches; Berlino, 1886; pag. 150-179.
          L’illustre tedesco esamina da par suo il volume de’ Duecento Sonetti da me curato per il Barbèra, e in un punto solo di qualche importanza dissente da quanto io dissi intorno al Belli e alla Satira in Roma. Egli ammette che il Belli, quando scriveva i sonetti romaneschi, avesse idee liberali; non crede però che fosse un nemico ardente [glühender Feind] del Papato e del Cattolicismo: suppone piuttosto che avesse un po’ di quella indolenza politica, comune a quasi tutti i Romani, e che somigliasse a’ suoi popolani, com’io li ho descritti, cioè che portano nella stessa tasca coltello e corona, bestemmiano la Madonna e si scappellano alla sua immagine, mettono in ridicolo il Papa e al tempo stesso gli s’inginocchiano davanti. Lo scopo del Belli fu di ritrarre il popolo romano con fedeltà scrupolosa. Dunque, dice lo Schuchardt, i sonetti politici e tutti gli altri non provennero immediatamente dal poeta, bensì dal popolo stesso: se non ci fosse stato chi pensava e parlava a quel modo, il Belli non avrebbe mai scritto quel che scrisse. "Quando il frutto proibito della satira politica gli pendeva ben dappreso sul capo, egli lo coglieva; ma senza arrampicarsi sull’albero.„ È chiaro ohe lo Schuchardt, ragionando così, non tiene nel debito conto l’elemento soggettivo che è in tutti i sonetti del Belli, e che in alcuni de’ politici e religiosi, come ho accennato qui sopra, passa perfino il segno, e rompo un poco quell’armonia tra pensiero e forma, ohe al Belli stava tanto a cuore. Del resto, che egli fosse mai un nemico ardente del Papato e del Cattolicismo, nel senso eccessivo che ha sempre codesto epiteto, io non lo diasi. Dissi anzi che mentre scriveva isonetti, andava puro a confessarsi: "condizionoe equivoca„ (sono le mie precise parole), "che lo portò poi ad aver paura dell’ombra propria.„ Forse però io non feci rilevare con troppa chiarezza che anche i sonetti d’argomento politico o religioso son parte integrale del gran disegno di ritrarre la vita, il sentire e il pensare della plebe romana, in tutte le loro manifestazioni: quel disegno, di cui il russo Gogol, scrittore de’ più capaci a comprenderlo, aveva fin dal 1839 informato il Sainte-Beuve, viaggiando con lui da Roma a Marsiglia; e che il critico francese accennava poi, in questo modo, in uno de’ suoi famosi Lundis (1° dic. 1845): "M. Gogol me dit avoir trouvé à Rome un véritable poéte populaire appelé Belli, qui écrit des Sonnets dans le langage transtévérin, mais des Sonnets faisant suite, et formant poeme. Il m’en parla à fond et de manière à me convaincre du talent originai et supérieur de ce Belli, qui est reste si parfaitement inconnu à tous les voyageurs.„ Premiers Lundis; Paris, 1884; tom. III, pag. 25.