Sonetti romaneschi/Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola/VII

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Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - VII

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Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - VI Introduzione dell'Autore
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VII

Da quando io scrivevo così intorno ai discepoli del Belli, il loro numero s’è accresciuto, e nel romanesco e negli altri dialetti; sicché oramai ce n’è in ogni regione d’Italia.

In romanesco, pochi ma buoni i sonetti del Pascarella; de’ quali però a me paiono, nel loro complesso, riusciti men bene que’ venticinque su Villa Gloria, non tanto perchè urtano spesso contro la realtà storica troppo nota del fatto glorioso, quanto perchè spesso vi è violentato il dialetto, e vi sono qua e là pensieri e immagini non popolari. Buone anche parecchie delle molte, delle troppe cose dello Zanazzo.

Ma tra tutti i discepoli del Belli, il più famoso e il più letto è senza dubbio il Fucini. Se non che, Edmondo De Amicis nega recisamente la derivazione del Fucini dal Belli, affermando d’esser "certissimo„ che il poeta toscano non avesse “ancora letto un solo sonetto del poeta romano, quando giravano già per Firenze più di cinquanta de’ suoi„.1 E così il Belli perderebbe un figliuolo, di cui andava giustamente orgoglioso; e qualcosa perderei anch’io, che credevo quasi d’averlo tenuto a battesimo. Esaminiamo dunque attentamente la fede di nascita. [p. cclxxviii modifica]

I primi sonetti del Fucini portano tutti la data del 1870; e il primissimo fu scritto nell’inverno di quell’anno,2 quando, è vero, non era ancora stata pubblicata la mia edizione de’ Duecento Sonetti del Belli, cbe uscì nella primavera; ma quando era già uscito da un anno, nella Rivista Contemporanea di Torino (diretta a Firenze dal De Gubernatis, e quindi a Firenze molto diffusa), il mio studio sul Belli, con dodici sonetti per saggio; e quasi tutta a Firenze s’era già venduta la prima mia edizione d’una quarantina di sonetti (Sanseverino-Marche, 1869), della quale il primo a chiedermene più d’una copia fu per l’appunto il Sindaco di Firenze, Peruzzi, con cui il Fucini doveva essere non solo in relazioni di ufficio, come impiegato del Municipio, ma anche in qualche dimestichezza, se poco dopo gli fece il famoso sonetto de’ calzoni corti. 3 Non bisogna poi dimenticare che molti sonetti del Belli giravano già almeno da trent’anni per tutta Italia, manoscritti o saputi e recitati a memoria da Romani e da non Romani; e, non volendo tener conto di alcuni pubblicati alla spicciolata qua e là, e di certe raccolte orribilmente spropositate, non bisogna però dimenticare che circa ottocento n’erano stati pubblicati fin dal 1865-66 a Roma nell’edizione Salviucci, alterati quasi tutti, è vero, ma sempre tali da rivelare intero il segreto dell’arte del poeta. Mi consenta dunque il De Amicis d’esser io, alla mia volta, certissimo del contrario di ciò che egli in buona fede, ma troppo ingenuamente, ha affermato.

“Ma questo non monta„, aggiunge il De Amicis: quel che monta è che de’ due poeti, “l’uno non rammenta l’altro, se non in qualche soggetto comune, e nulla più che per caso.„. [p. cclxxix modifica]

Vediamo.

“I sonetti del Fucini„ (cosi lo stesso De Amicis, a pag. 2-4) “sono piccole commedie o piccoli drammi, nei quali due, tre e fin quattro personaggi non solo parlano, ma operano, si muovono, spariscono e ritornano come in una vera commedia. Sono buone donne del popolo, operai, guardie nazionali, pescatori, giurati, studenti, magistrati, bambini, preti, accattoni, monelli, che discorrono delle loro faccende, si lamentano delle tasse, sparlano del governo, giocano al lotto, patiscono la fame, si canzonano, s’insultano, si picchiano, si soccorrono, si consolano; svolgono, insomma, dinanzi a chi legge, in cento sonetti, tutta la vasta e svariatissima tela della vita del popolo, come pochi grossi romanzi popolari lo fanno. “Strafalcioni madornali e verità solenni, scempiaggini grossolane e arguzie finissime, buffonate ignobili e tratti di cuore sublimi, feste clamorose e scene di disperazione che fanno piangere, bestemmie, oscenità, colpi di coltello e serenate amorose: v’è un po’ d’ogni cosa. V’è ritratto il popolo con tutte le sue ingenuità, le diffidenze, le superstizioni, le astuzie, la cocciutaggine; colto con sagacia maravigliosa in tutte le più sfuggevoli espressioni della sua indole, in casa, in piazza, in chiesa, al teatro, in tribunale, nelle tribune del parlamento; sorpreso a sdottorare di politica e di scienza, e a criticar leggi e istituzioni; fatto parlare con tutti i suoi idiotismi, colle sue storpiature, col suo linguaggio sfrenato, strapazzato e potente. E sono anche letterariamente sonetti nuovi. Vi si sentono (espressi con parole imitative che fanno parte del verso) ogni sorta di rumori, come pugni sui cappelli a staio, patte di gente in terra, tonfi di pietre nell’acqua, suoni di campane, scoppj d’applausi, guaiti di cani, fucili che cascano, sottane che si stracciano, vetri che si spezzano. Vi sono versi stupendi presi belli e fatti sulle labbra del popolo, proverbi incastonati in [p. cclxxx modifica] un verso con un garbo ammirabile, e che paion buttati là senza pensarci; fiori di lingua viva, bonnheurs d’expression, come li chiama Vittor Hugo, profusi; non un riempitivo inutile, non un luogo comune, non una slavatura rettorica; tutto sangue; e oltre a questo, una facilità di verso e una spontaneità di rima che non si può immaginare maggiore.„

Or bene, se in questa vivace descrizione al nome del Fucini sostituite quello del Belli, e cambiate tre o quattr’altre parole accidentali, avrete tutta a puntino l’arte del poeta romano, comprese, e come!, quelle voci imitative che al De Amicis paiono una novità. E quindi ogni sonetto del Fucini, nessuno eccettuato e compresi anche quelli italiani foggiati sullo stampo de’ dialettali, rammenta il Belli, e non può non rammentarlo, anche quando il soggetto sia affatto diverso, giacché l’arte è sempre la stessa.

A questa derivazione generica dell’un poeta dall’altro, si deve poi aggiungere che il Fucini è spesso, mentre il Ferretti e il Pascarella non lo sono mai o quasi mai, un vero e proprio imitatore; poiché il modello, spesse volte, lo ha tiranneggiato. Ed eccone qui alcune prove:

M’aricorderò sempre un marvivente,
Che l’aveva davero er cor in petto,
E cche la morte je pareva ggnente...
 Belli, vol. III, pag. 93.
Quelli, davvero, avevan’un ber core,
E la mólte per loro ’un era niente.
 Fucini (1870), pag. 48.


Checco, arrubba un mijjone, e ppe’ le cchiese
Sarai san Checco, e tt’arzeranno un gijjo.
 Belli, II, 356.
Celca d’arrabatta’ quarche miglione,
E poi, se crepi: "È mòlta su’ Eccellenza!„
 Fucini (1870), 59.

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Dico: "Ebbè ddate equa.„ Disce: "Che ccosa?„
Dico: "Che! sti doveri che pportate.„
Nun me s’è mmesso a rride in faccia, Rosa?

(E la variante popolare dell’ultimo verso, più bella del testo, e già da me pubblicata fin dal 1869:

E nun me fa ’na risataccia, eh Rosa?)
 Belli, I, 1.

     Li dissi: ’Un pensi, fa ’na bell’ acquata;
Me lo dice ’r mi’ ’allo, è un gran segnale...
Piglio d* un cane, o ’un fece ’na risata!
 Fucini (1870), 61.

Pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo.
 Belli, II, 49.
Lui rivende’ Ministri a un sórdo ’r mazzo.
 Fucini (1871), 68.

Parla uno della Civica romana del 31:

Eh, ssi avevo la pietra all’acciarino^
Un antro po’ vve la fascevo bella!
 Belli, I, 169,

Parla uno della Guardia nazionale toscana dopo il 59:

Nun vo' ’asi, ho levato ’r furminante.
 Fucini (1871), 75.

Oh Vvergine der Pianto addolorata,
Provedeteme voi che lo potete.
     No, vvisscere mie care, nun piaggnete:
Nun me fate morì cussì accorata.
 Belli, IV, 329.

Apri l’occhini tua... gualdami, Ernesto...
Rispondi, nun mi da’ questo dolore...
Velgine santa! mi si scoppia ’r core;
Sarvàtimelo voi, nun ho che questo.»
 Fucini (1871), 79.

Bbella cratùra! E cche ccos’è? Un maschietto?...
Dio ve lo bbenedichi...
 Belli, IV, 117.

Gesù lo benedïa! bèr mi’ figliolo!
 Fucini (1871), 80.

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     Òra pre nobbi. Òra pre... Attenta, Nanna.
Ta aritorni a zzompà...

     Avemmaria... lavora... grazzia prèna...
Nena, vòi lavora?... ddominu stèco...
Uf!... benedetta tu mujjèrì... Nena!
E bbenedetto er fru... vva cche tte scèco?
 Belli, IV, 132, e II, 219.

     Attento! Aver maria di grazia piena
Dominu steco. Hai visto? l’ha girati...
E benedittus. Gualda, li dimena...
Fruttu sventri. Ora si che l’ha sgranati!
 Fucini (1871), 109.

Ma non si creda ch’io faccia gran conto di queste e altre simili imitazioni parziali. L’importante non è qui: è, come ognuno dovrebbe capire, nel fatto generale e capitalissimo, che il Fucini, come il Marini, come il Ferretti, come il Pascarella e come tutti gli altri, non sarebbero quel che sono, se prima di loro il Belli non fosse stato il Belli.

Eppure, un fatto così evidente fu per il Fucini non solo negato dal De Amicis, ma dissimulato dal Fanfani,4 e, almeno in parte, negato novamente da Gaetano Rocchi5 e da altri. E bisogna vedere a che bellezza di capriole rettoriche si abbandona il Fanfani, per dire con un po’ di convenienza che anzi il Fucini è superiore al Belli!6 Superiorità che, per certi rispetti, tenta di dimostrare anche il Rocchi; e io ammetto che può, secondo i gusti, parere ed anche esser vera, se si confrontano solo alcuni sonetti dell’uno e dell’altro; ma se si confrontano complessivamente, è tale un’eresia da far rizzare i capelli.

Considerata intera, l’opera del Belli è un oceano, mentre quelle de’ suoi discepoli son fiumi, quando non sono torrentelli o rigagnoli. [p. cclxxxiii modifica]

Né io consento col Carducci, il quale, pur giudicando “grandissima l’arte e la potenza del Porta e del Belli,„ aggiunge però, che la loro poesia “nega, deride, distrugge.„7 Lasciando stare il Porta, che ha poco o nulla a vedere col Belli, io dico che la poesia di questo, mentre nega, deride e distrugge, afferma anche, e piange e compiange ed edifica: edifica tanto, che ci rappresenta quasi tutta la vita popolare romana dal 1830 al 48, e insieme quella delle classi superiori, come l’una e l’altra erano vedute e concepite e giudicate ed espresse dal popolo stesso, e come non si trovano in nessun altro libro.

Per me, anzi, il lato debole de’ migliori discepoli del Belli, romani e non romani, non è già il venirgli secondi in un’arte inventata quasi di pianta da lui, ma appunto il non aver essi a rappresentare un’altra Roma, caratteristica e interessante come era quella: la città caput mundi e la città de’ quattro p: preti, principi, pu...... e pulci; una vita tragica e comica insieme; e rappresentarla facendovi aleggiare in mezzo, come più o meno vi aleggiava di fatto, l’altissima e santa idea politica della guerra al Papato, e dell’indipendenza e della libertà della patria: idea che mentre guastò (felìx culpa, del resto) molte opere poetiche e di storia e di critica, rende invece anche oggi, senza alterarla altro che in minima parte, tanto più importante l’opera del Belli. La quale (non è ormai avventatezza il predirlo) sarà sempre riguardata come uno de’ più originali e de’ più insigni monumenti letterari di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

 Roma, 1889.

Luigi Morandi.

Questa edizione contiene i sonetti romaneschi, che il Bolli lasciò, scritti tutti di sua mano, nella cassetta di cui ho parlato qui sopra (pag. ccxliii, ccl), o che sono tutti quelli ch’egli [p. cclxxxiv modifica] compose, salvo forse qualcuno che per caso potesse essere andato perduto. (Cfr, nel presente volume la nota 1 a pag. 65.)„

Ma dodici sonetti, che sarebbero dovuti entrare nel sesto volume, li ho esclusi io di mio arbitrio, perchè m’è parso che, contrariamente a quanto l’autore dice nella sua Introduzione, l’oscenità vi fosse voluta, né avessero quell’intento storico e civile, che è negli altri simili. (Cfr. l’avvertenza premessa a codesto volume.) Chi non ama le porcherie per le porcherie, mi sarà grato di questa esclusione, come di certo me ne sarebbe grato, se rivivesse, l’autore stesso. Ecco tuttavia i titoli e le date di questi sonetti: 1. A Nannarella, Morrovalle, 20 settembre 1831; — 2. Un mistero spiegato, 28 settembre 1831 (imitazione del sonetto del Porta: Gh’è al mond di Cristïan tant ostinaa); — 3. Er presepio, 29 novembre 1831; — 4-11. Le confidenze de le regazze, Roma, 10 dicembre 1832; — 12. Li studi de li regazzi, 4 giugno 1834.

Due altri pure, composti nel 1835 per la principessa russa Zenaide Volkonski, alla quale forse il Gogol dovette la conoscenza del Belli (V. qui sopra, pag. ccxxxviii, nota), li ho esclusi, ma perchè dall’autore medesimo dichiarati, come sono lealmente, insipidi e contrari allo spirito della raccolta.

Non ne ho invece esclusi trentadue, che pure da un No e da un frego sicuramente di mano del Belli, o da altri indizi del pari sicuri, paiono da lui rifiutati: paiono, dico, perchè per alcuni di essi non se ne vede proprio la ragione, mentre si vede assai bene per gli altri, che, essendo quasi tutti de’ primissimi ch’egli scrivesse, hanno naturalmente molti difetti. Ma appunto come documenti delle sue prime mosse, io ho creduto bene di pubblicare anche questi. Ecco però l’elenco di tutti e trentadue, secondo il volume e la pagina in cui si trovano: — in questo volume, pag. 9, 10, 11, 12, 13, 15, 16, 17, 28, 29, 35, 37, 40, 42, 48, 83, 103, 109, 114, 123, 130, 152, 159, 162, 198, 203, 218 e 237; — nel volume sesto, pag. 14, 16, 33 e 89.

Altri settantadue non hanno il No, ma un semplice frego, che in ventitré parrebbe di mano del Belli, e ne’ rimanenti quarantanove è assai più dubbio. Ma basta dare un’occhiata ai ventitré, quasi tutti stupendi, per capir subito che il frego fu fatto con l’intendimento di escludere (forse da un’edizione ideata ma non eseguita, e certamente assai prima di quella del Salviucci, per la quale gli autografi furono in parte malconci con cancellature e castrature e cambiamenti per lo più di mano del Tizzani) sonetti che potessero suscitare [p. cclxxxv modifica] le ire del Governo papale. Ecco, infatti, quali sono: nel volume secondo, pag. 51, 63, 77, 88, 132, 174, 100, 231, 232, 233 e 315; — nel terzo, pag. 158, 192, 222 e 279; — nel quarto, pag. 276, 39f) e 400; — nel quinto, pag. 137 e 180; — nel sesto, pag. 130,179 e 248. E altrettanto è da dire degli altri quarantanove; sicché io mi risparmio anche d’indicarli, e piuttosto ringrazio il mio giovane amico Luigi Ambrosi, che m’ha aiutato a esaminare con tutta diligenza gli autografi sotto questo rispetto.

Circa milletrecento de’ sonetti compresi nella presente edizione erano affatto inediti; e anche gli altri, pubblicati prima, potevano considerarsi come inediti; giacché nell’edizione Salviucci, che ne contiene settecentonovantasette (computatoci anche quello inserito tra le poesie italiane del vol. IV, pag. 79), la lezione originale fu spessissimo alterata e guasta, per contentare la Censura pontificia; nell’edizione Barbèra, che ne contiene dugento (di cui una quindicina apocrifi, e un centocinquanta già compresi nella Salviucci), quantunque io mi sforzassi di restituirli alla vera lezione, ciò non sempre mi venne fatto, perchè allora mi mancavano gli autografi; e finalmente, nella recente edizione Perino fu riprodotta, contro l’espresso divieto del nipote del poeta, l’edizione Salviucci, aggiungendo ai guasti già fattivi l’arbitraria soppressione di quasi tutte le note e molti e gravissimi errori di stampa. Dimanieraché, il vero e intero Belli non si trova che nella presente edizione.

Alle note dell’autore ne ho aggiunte io, tra parentesi quadra, molte e molte migliaia, così storiche come filologiche, dove mancavano affatto, o dove le sue mi parevano insufficienti o sbagliate. Per le filologiche ho seguito il criterio di non ispiegare del romanesco, se non que’ vocaboli e modi che sono del tutto o molto diversi dall’attuale Uso fiorentino; da quello, cioè, che conosco io, o che hanno potuto attestarmi i due vocabolari Giorgini-Broglio e Rigutini-Fanfani, e alcuni amici di Firenze, a cui ho rotto spesso le tasche. Ma poiché l’Italia, che spende vanamente parecchi milioni per un vocabolario inutile come quello della Crusca, non ne ha ancora uno che possa dirsi compiuto dell’Uso fiorentino; è certo che qualche volta io avrò spiegato voci e maniere comuni anche a codesto Uso; ma la colpa non é mia. Il criterio da me adottato è buono; anzi, il solo ragionevole: e lo stesso Belli pare che inclinasse a seguirlo (Cfr. vol. IV, pag. 364, nota 5; e vol. VI, pag. 291, nota 4); ma a lui, co’ vocabolari che c’erano allora, ne mancò, più assai che a me, la possibilità materiale.

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In fondo al vol. VI, ho aggiunto venti de’ suoi sonetti italiani, e otto sonetti romaneschi apocrifi, altri cinque de’ quali si trovano nelle note, dove si trovano anche altri versi italiani suoi, e qualche frammento di sonetto romanesco, o sonetto intero, da lui non destinato a far parte della raccolta.

Quando cito i sonetti indicandone il titolo e la data, s’intende sempre di quelli compresi ne’ primi cinque volumi. Per quelli del sesto, indico sempre volume e pagina.

Le avvertenze intorno al dialetto romanesco e alla sua ortografia, si trovano qui appresso nell’Introduzione dell’autore, e in alcune delle noterelle che io vi ho aggiunte.

L. M.


ERRATA-CORRIGE. — A pag. CLI,rig. 18: riverdirsi, leggi: rinverdirsi.

Note

  1. Prefaz. allo Poesie del Fucini; 6° diz.; Pistoia, 1885; pag. 11.
  2. De Gubernatis, Dizion. biogr. degli Scrittori contemporanei; Firenze, 1879; pag. 472.
  3. Ediz. cit., pag. 87
  4. Il Poeta popolare, nella Nuova Antologia del maggio 1871.
  5. Renato Fucini e i suoi scritti, nella Rassegna Nazionale di Firenze, del 1"novembre 1886. Si vedano, specialmente, le pag. 52 e 55-56.
  6. Veda, chi vuol ridere, dalla pag. 123 alla 126 del cit. articolo.
  7. Prefaz. al Villa Gloria del Passarella; 3a ediz.; Milano, 1887.

Note