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Statti pur baldanzosa

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Pier Francesco Paoli

Indice:AA. VV. - Lirici marinisti.djvu Canzoni Letteratura XVIII. A lei che abita in un tugurio Intestazione 2 agosto 2022 100% Da definire

Questa, ch'in cieca parte afflitto io celo Là dove more il sole
Questo testo fa parte della raccolta Poesie di Pier Francesco Paoli
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XVIII

A LEI CHE ABITA IN UN TUGURIO

     Statti pur baldanzosa
in quell’albergo umile,
mia diletta gentile.
Basti a te l'esser degna
che non solo t’inviti
Venere ambiziosa
a passeggiar su la sua conca il mare,
ma su l’eterea mole
ad albergar ne la sua reggia il sole.
Basti a te che conservi,
come dal ciel gli avesti,
in terrena magion pregi celesti.
Son forse vili i fiori,
perché stan su la terra?
son men graditi gli ori,
perché stanzan sotterra?
Forma in quel basso tetto
il tuo volto, il tuo seno,
un praticello ameno,
e la chioma dorata
un tesoro amoroso;
anzi, a gloria d’Amore,
ciò che vantar non puote altro terreno,
quivi con novi orrori
dov’è giá stato l’òr, miransi i fiori.
In quella bassa terra
sarai tu stabil centro
a cui discenderanno,
se benigna il consenti,
a ritrovar quïete i miei tormenti.
Una io dirò che sia
de le cimerie grotte,
ove, notturno amante,

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dopo le sospirate
mie vigilie amorose,
per prolungar la vita,
verrò del sonno a mendicar l’aita.
In quell’ima pendice,
piú che in alto palagio,
trarrò sicuri i giorni,
mentre talor fortuna
con violento sdegno
per le ruine altrui scuote il suo regno.
In quell’ermo ricetto,
con divoti sospiri
adorarò, d’ogni pensier disciolto,
peregrino idolatra, il tuo bel volto.
Godo, mia bella, godo,
che vivi in parte dove
non giunge irato il fulmine di Giove.
Spero ben che terrai
quivi esposto il tuo core,
per mio conforto, ai fulmini d’amore.
Giá non tem’io ch’il Tebro
venga, come talor tumido ei suole,
per inondar quella terrena soglia;
ché ne sarò custode,
ed esalando fiamme
fuor del mio cor geloso,
respingerò l’assaltatore ondoso.
Albergo prezïoso,
mio vago paradiso,
mio leggiadro orïente,
da cui, di balcon privo,
tu, mio bel sole adorno,
quante volte apri l’uscio, apri il mio giorno;
chi potrá dir che ancora
sia superbo tiranno,
se per le tue bellezze,

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che pur tue forze sono,
poco men che sotterra hai posto il trono?
Oh quante volte, oh quante,
mentre chiusa è la porta
de la real magione,
non avendo altro varco
da penetrar le riverite mura,
anelante si duole,
quasi mendico in su la soglia, il sole!
Fra queste del mio cor candide gioie
serpe mortal veleno
che vïatore accorto,
mentre vede, in passando,
il letticciuol ch’è campo
del duello amoroso,
entrerá baldanzoso,
e con sua lieta sorte
vibrerá l’armi e sfideratti a morte.
Deh, per schivar perigli
tieni tu sempre chiusa
a l’arditezze altrui
quella beata porta,
com’io tengo a tutt’ore
aperto ai cenni tuoi
questo misero core;
né t’affanni il pensiero
di rimaner tra l’ombre,
ché può de’ tuoi begli occhi un lampo solo,
non pur far luminoso un picciol tetto,
ma, con vanti piú alteri,
i negri abissi e i torbidi emisperi.
Ché se ciò non t’aggrada,
legge sia la tua voglia;
e s’altri pur tentasse opra sí rea,
tu, in guardia de la fede,
contra il crudo omicida,
senza mostrargli altr’arme, alza le strida.