Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro IV/Capo I

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LIBRO QUARTO.

REPUBBLICA PARTENOPEA, DAL GENNAIO AL GIUGNO DEL 1799.


CAPO PRIMO.

Leggi e provvedimenti per ordinare lo stato a repubblica.

I. Allo ingresso del generale Championnet la gioja non fu piena; l'adombravano le fresche memorie della guerra, e lo spettacolo di cadaveri non ancora sepolti; ma nella quiete della notte i magistrati della città, disperdendo i segni della mestizia, prepararono lieto il vegnente giorno. Il dolore delie seguite morti era cessato, perciocchè tanto dura ne commilitoni quanto il pericolo, e nella genia de’ lazzari non lascia lutto nè bruno, A’ primi albori molti giovani ardenti di libertà chiamando il popolo a concioni, discorrevano i benefizii della repubblica; e per quanto avevano ingegno e loquela, persuadevano i premii, i debiti, le virtù di cittadino. Poi numerando i falli e le ingiustizie del re fuggitivo, rammentavano le involate ricchezze, i vascelli bruciati per lasciar le marine senza difesa da' nemici e da' pirati, la guerra mossa e fuggita, concitate le armi civili e disertate, nessun ordine per lo avvenire, il popolo abbandonato al ferro de' nemici stranieri e delle discordie domestiche. I quali ricordi veri e vicini afforzavano gli argomenti e la eloquenza di libertà; voce gradita a’ cuori umani, sorgente ed istinto di allegrezza. Vi fu dunque gioja piena, universale, manifesta.

Nel qual tempo fu bandito editto del generale Championnet, che a nome e per la potenza della repubblica francese, volendo usare le ragioni della conquista in pro del popolo, dichiarava che lo stato di Napoli si ordinerebbe a repubblica indipendente; che un assembica di cittadini, intesa a comporre il novello statuto, reggerebbe il governo con libere forme; e ch'egli, per la potestà che gli davano il grado e la felicità nelle armi; aveva nominato le persone, che assembrate in quel medesimo giorno nell’edifizio di san Lorenzo riceverebbero dal suo decreto e dal suo labbro l’autorità di governo. Erano i nominati venticinque, che uniti si [p. 211 modifica]appellavano governo provvisorio, diviso in sei parti, detti comitati, i quali prendevano il nome dagli uffizii, Centrale, dello Interno, della Guerra, della Finanza, della Giustizia e Polizia, e della Legislazione. Quindi andò con pompa militare, accompagnato da gente infinita e festosa, in san Lorenzo, casa di onorate memorie per la città; e nella gran sala, dove giù stavano i governanti, egli da seggio nobilissimo così parlò:

«Cittadini! voi reggerete la repubblica napoletana temporaneamente; il governo stabile sarà eletto dal popolo. Voi medesimi, costituenti e costituiti, governando con le regole che avete in mira per il novello statuto, abbrevierete lo stento che apportano le nuove leggi; e per questo pubblico benefizio vi ho affidato ad un tempo i carichi di legislatori e di reggenti. Voi dunque avete autorità sconfinata, debito uguale; pensate ch’è in vostre mani un gran bene della vostra patria, o un gran male, la vostra gloria, o il disonore. Io vi ho eletto, ma la fama vi ha scelto; voi risponderete con la eccellenza delle vostre opere alle commendazioni pubbliche, le quali vi dicono dotati di alto ingegno, di cuor puro e amanti caldi e sinceri della patria.

Nel costituire la repubblica napoletana, agguagliatela, quanto comportano bisogni e costumi, alle costituzioni della repubblica francese, madre delle repubbliche nuove e della nuova civiltà. E nel reggerla, voi rendetela della Francese amica, collegata, compagna, una medesima. Non sperate felicità separati da lei; pensate che i suoi sospiri sarieno vostri martorii; e che s’ella vacilla, voi cadrete.

L’esercito francese, che per pegno della vostra libertà ha preso nome di esercito napoletano, sosterrà le vostre ragioni, ajuterà le opere vostre o le fatiche, pugnerà con voi o per voi. E difendendovi, noi dimandiano null’altro premio che L’amor vostro.»

II. La sala era piena di popolo. Al bel discorso udironsi plausi ed augurii all’oratore, alla repubblica francese, alla napoletana; e furono viste su gli occhi a molti lacrime di tenerezza e di contento. Declinato il romore, uno de’ rappresentanti, Carlo Laubert, napoletano, già cherico dell’ordine degli Scolopii, fuggitivo per libertà in Francia, tornato con l’esercito, rispose:

«Cittadino generale, certamente dono della Francia è la nostra libertà, ma istrumenti del benefizio sono stati l’esercito e ’l suo capo; con minor valore, o minor sapienza, o minor virtù, voi non avreste vinto esercito sterminato, dispersi popoli di furor ciechi, espugnate le rocche, superato il disagio del cammino e del verno. Sieno perciò da noi rese grazie alla repubblica francese; [p. 212 modifica]grazie agli eserciti suoi; grazie, generale, a voi venuto come angelo di libertà e di pace.

In questa terra, da’ petti nostri, uscirono i primi desiderii di miglior governo, i primi palpiti di libertà, i voti più caldi per la felicità della Francia; in questa terra da’ petti nostri fu dato il primo sangue alla tirannide; qui furono i ceppi più gravi, i martorii più lunghi, gli strazii più fieri. Noi eravamo degni di libertà; ma senza i falli della tirannia, ed il divino flagello che discaccia le coscienze agitate dalle perversità della vita, noi saremmo ancora sotto il giogo di Acton, della regina, di Castelcicala, di tutti i satelliti del dispotismo. Nè bastavano i loro misfatti, però che la pazienza de’ popoli è infinita; si volevano co’ misfatti gli errori, ed armi pronte e virtù punitrice.

Voi, generale, ci avete portato il governo per gli uomini, la repubblica; sarà debito nostro conservarla. Ma voi pensate ch’ella bisognerà, come tenera cosa che oggi nasce, di assistenza e di consiglio; ella è opera vostra, consigliatela, sostenetela. Se vedremo non esser noi eguali al carico sublime che ci avete imposto, lo renderemo in vostre mani; però che in tanta grandezza di opere e di speranze, scomparsi, agli occhi nostri, noi stessi, non abbiamo in prospetto che la felicità della patria. Dedicati ad essa, per essa io giuro; e ’l governo provvisorio da voi eletto, innanzi a voi, al popolo ed a Dio, ripeterà il sacramento.» Per altre ventiquattro voci, si udì, lo giuro.

Si partì con ugual pompa e maggiore applauso il generale Championnet, L’altro rappresentante, Mario Pagano, volto al popolo disse:

«Sì, cittadini, siamo liberi; godiamo della libertà ma ricordando che ella siede sopra sgabello d’armi, di tributi e di virtù, e che le armi in repubblica non riposano, nè i tributi scemano, sè la virtù non eccede. A questi tre obbietti intenderanmo le costituzioni e le leggi del governo, Voi, però che libero è il dire, ajutate gl’ingegni nostri; noi accetteremo con gratitudine i consigli, li seguiremo, se buoni.

Ma udite, giovani ardenti di libertà che qui vi palesate per l’allegrezza che vi brilla negli occhi, udite gli avvisi d’uomo incanutito, più che per anni, ne’ pensieri di patria e negli stenti delle prigioni, correte all’armi, e siate nell’armi obbedienti al comando. Tutte le virtù adornano le repubbliche, ma la virtù che più splende sta ne’ campi; il senno, l’eloquenza, l’ingegno avanzano gli stati; il valore guerriero li conserva. Le repubbliche de’ primi popoli, però che in repubblica le società cominciano, erano rozze, ignoranti, barbare, ma durevoli perchè guerriere. Le repubbliche di civiltà corrotta presto caddero; benchè [p. 213 modifica]abbondassero buone leggi, statuti, oratori, tutti i sostegni e gl’incitamenti alla virtù; ma le infingarde, avevano tollerato che le armi cadessero.

Perciò in voi più che in noi stanno le speranze di libertà. Il governo provvisorio, nel dirsi legittimo e costituito intende da questo istante a’ debiti suoi, e voi, strenui giovani, correte da questo istante a’ debiti vostri, date ì vostri nomi alle bandiere di libertà, che ravviserete da’ tre colori.»

L’adunanza sciolta, succederono alla contentezza pubblica molte private; il generale Championnet, che abitava la già casa de’ re, allora della nazionale, convitò i primi dell’esercito e i maggiori del governo e della città; altri de’ rappresentanti bandirono altri conviti; gioja più grande fu nelle case di coloro che avevano patito dalla tirannide e per fino nella plebe si videro feste, e si udirono voti per la repubblica. Solamente mancavano a’ conviti ed alla gioja i parenti degli uccisi per causa di maestà; più compianti e ammirati perchè lontani. E in quel giorno stesso gli editti del governo correvano le province, avvisando le succedute cose, e dando provvedimenti di stato. Fu prescritto che sino agli ordini nuovi reggessero gli antichi, uniformati alle regole generali di repubblica; e che rimanessero temporariamente le medesime autorità, i magistrati, gli uffizii. Però cessato il timore di alcun danno, terminata la guerra; volendo le province imitare la città capo dello stato, ogni paese, ogni terra diede segni di giubilo. Nel giorno appresso, con cerimonia da baccanti più che cittadina, alzarono nelle piazze di Napoli gli alberi di libertà, emblemi allora di reggimento repubblicano; tra calde orazioni, danze sfrenate, giuramenti e nozze come in luogo sacro. E finalmente il generale Championnet con solenne pompa, conducendo seco altri generali ed uffiziali dell’esercito, andarono al duomo per rendere grazie della finita guerra, adorarne le reliquie di san Gennaro, e invocar favori al nuovo stato. Tutto nella chiesa e nella cappella era preparato per la sacra funzione; e popolo infinito stava intento a riguardare le ampolle per trarne augurio di felicità o di sventure. Ma compiuto il miracolo in più breve tempo che ogni altra volta, il generale offrì al santuario mitria ricca d’oro e di gemme; gli uffiziali stettero devoti e come credenti a’ misteri; e la plebe stimò que’ mutamenti di stato voler di Dio.

III. Compiute le feste e chetato il romore della novità, la mente di ognuno, riposata, si fissò alle succedute cose per trarne regole di ambizione e di vita. La quale istoria morale del popolo, compagna e precorritrice della storia dei fatti, voglio esporre in questo luogo come chiarimento delle cose mirabili che narrerò. La libertà politica era scienza di pochi dotti, appresa dai libri moderni e dalle [p. 214 modifica]sentenze della presente libertà francese; perciò sconfinata quanto il genio della rivoluzione, e quanto filosofia ideale non applicata alle società. Gli umani difetti, le colpe umane, le stesse virtù, che per natural cammino cadono in vizii; le ambizioni, l’eroismo, necessarii alle repubbliche, ma che di loro natura trascendono in pericolo dello stato; in somma, tutte le necessità che accerchiano l’umana condizione, travisate o sconosciute dalle dottrine astratte, creavano certa idea di libertà politica troppo lontana dal vero. E maggiore ignoranza era nella pratica. Qui non mai parlamento nazionale o congreghe di cittadini (da’ tempi antichissimi e scordati della buona casa sveva) per trattare i negozii dello stato; qui sempre i diritti di proprietà conculcati dalle volontà del fisco. dalle gravezze feudali, dalle decime della chiesa, dalle fantasie della prepotenza; qui le persone soggette all’imperio de’ dominatori e de’ baroni, agli abusi del processo inquisitorio, alla potenza de’ delatori e delle spie, alle leve arbitrarie per la milizia, ed alle angarie della feudalità; qui non libere le arti nè i mestieri nè le industrie; qualunque volontà impedita. Il solo segno di libertà rimaneva ne’ parlamenti popolari per la scelta degli ufficiali del municipio; libertà sola e sterile perchè tra infinite servitù.

Mancavano dunque le persuasioni di libertà; peggio, della uguaglianza. La libertà viene da matura, così che bisognano ripetuti sforzi del dispotismo, e pieno abbandono del pensiero per dimenticarne il sentimento; l’uguaglianza nasce da civiltà, e per lungo uso della ragione; che non sono concetti di natura, il debole uguale al forte, il povere al ricco, l’impotente al potentissimo: nelle tribù rozze dell’antichità erano gli uomini liberi ma inuguali. E dopo le dette cose, riandando la storia del popolo napoletano, non l’antichissima e dimenticata delle repubbliche greche, ma la più recente, come che vecchia e continua di sette secoli, che ha formato gli universali costumi, non si troverà negli ordini civili pratica o segno di eguaglianza; bensì monarchia, sacerdozio, feudalità, immunità, privilegi, servitù domestica, vassallaggio ed altre innumerevoli difformità sociali. Perciò in quell’anno 1799 non era sentita dalla coscienza, e nemmeno concepita dall’intelletto del popolo l’uguaglianza politica; solamente l’ultima plebaglia finse d’intendere in quella voce l’uguale divisione delle ricchezze e de’ possessi.

Dalle quali cose discende che i maggiori prestigi della rivoluzione francese, libertà ed uguaglianza, erano per il nostro popolo non pregiati nè visti. Queste sole differenze tra le rivoluzioni di Francia e di Napoli bastavano per suggerire differenti regole di governo; ma ve n’erano altre non meno gravi. Aveva la Francia operato il rivolgimento; l’aveva Napoli patito; il passaggio tra gli estremi di monarchia dispotica e repubblica era stato in Francia [p. 215 modifica]opera di tre anni; in Napoli, di un giorno; i bisogni politici furono in Francia manifesti da’ tumulti; in Napoli erano ignoti o mancavano; soddisfare in Francia a quei bisogni era mezzo e riuscita alle imprese; in Napoli occorreva indovinare i desiderii, anzi destarli nel popolo, per aver poscia il merito di appagarli. Il re in Francia era spento; erano spenti i sostenitori di monarchia, o fuggitivi; il re di Napoli regnava nella vicina Sicilia, rimanevano tra noi tutti i partigiani del passato. La baronia, contraria; i nobili partigiani di repubblica (figli, non capi delle famiglie), poco validi a muovere gli armigeri de’ feudi; i preti impauriti dagli strazii del clero francese, i frati temendo lo spoglio de’ conventi; i curiali, la rivocazione di quella congerie di codici eh era per essi talento e fortuna. E infine a noi mancavano (e abbondavano in Francia) le difese della libertà, che sono le virtù guerriere e le cittadine ambizioni; e a noi mancava la legittimità del rivolgimento; perciocchè non veniva da parlamenti, stati-generali, assemblee, autorità costituite, moto uniforme di popolo; ma da sola conquista e non compiuta: condizione che allontanava dal nuovo governo gli animi paurosi e metodici.

IV. Ma benchè le regole dovessero variare da quelle di Francia, noi le vedremo uniformi; sia necessità di tempi o ebbrezza delle fortune francesi o, come più eredo, in tanta copia ne’ rappresentanti nostri d’ingegno o di sapienza, scarsità dell’ingegno delle rivoluzioni, e della sapienza de’ nuovi stati. Que’ rappresentanti erano settarii antichi di libertà, afflitti la più parte nelle prigioni di stato, ed oggi appellati Patriotti per nome preso di Francia, onde schivare l’altro di giacobino, infamato da’ mali fatti di Robespierre. Fu primo pensiero del governo spedire alla repubblica francese oratori di gratitudine per gli avuti benefizii, ed ambasciatori di amicizia e di alleanza; scegliendo a quegli offici il principe d’Angri, grande di casato e di ricchezza; ed il principe Moliterno, anch’egli nobile e fornito di pregi giù belli, cioè buona fama ed alcun fatto nelle armi, lontano da’ club, capo sincero del popolo nella ultima guerra contro i Francesi, e quando la plebe imperversò, fuggitivo non traditore, ma dava sospetto al giovine governo, così che, onorandolo pel carico di ambasciatore, lo discacciò. Il duca di Roccaromana, propenso a femminili lascivie, avendo scarse le forze alle ambizioni del dominio, restò scordato negl’inizii della repubblica. I sensi che prima spuntarono in quel governo furono dunque i sospetti; innati a reggimento libero, stimoli alla virtù ne’ grandi stati, alle discordie nei piccoli, e perciò dove sostegno e dove precipizio di libertà.

Un decreto divise lo stato in dipartimenti e cantoni, abolendo La divisione per province, e mutando i nomi per altri antichi di memorate memorie. In esso i fiumi, le montagne, le foreste, i termini di natura, si vedevano capricciosamente messi nel seno de’ [p. 216 modifica]dipartimenti o de’ cantoni, e talvolta delle comunità: scambiati i nomi; creduto città un monte e fatto capo di cantone; il territorio di una comunità spartito in due cantoni; certi fiumi addoppiati, scordate certe terre; in somma, tanti errori che si restò all’antico, e solo effetto della legge fu il mal credito de’ legislatori.

Ma buona legge sciolse i fidecommessi, libertà desiderata per i libri del Filangieri, del Pagano, di altri sapienti; e produttrice di effetti buoni, quanto comportavano le sollecitudini di quello stato. Molte comunità avevano lite co’ baroni; molte più rodevano i freni del vassallaggio; e perciò quelle, e queste, ed altre tirate dagli esempii, invadendo a modo popolare i dominii feudali, e spartendoli a’ cittadini, vendicavano con gli eccessi delle rivoluzioni gli odii proprii e degli avi. Piacque al governo quel moto, e dichiarando abolita la feudalità, distrutte le giurisdizioni baronali, congedati gli armigeri, vietati i servigi personali, rimesse le decime, le prestazioni, tutti i pagamenti col nome di diritti, promise legge nuova, giusta per i comuni e per i già baroni; senza vendicare, come natura umana consiglierebbe, le ingiurie patite da’ feudatarii. Dopo la quale promessa, il governo attese all’adempimento; ma intrigato nelle vicendevoli ragioni, non mirando che alla giustizia ideale, trovando intoppo quando ne’ possessi e quando ne’ titoli, quella legge, lungamente discussa, non fu mai fornita; e di tutti i rappresentanti maggior sostenitore de baroni fu quello stesso Mario Pagano, avverso a loro nelle dottrine, scrittore filosofo, pusillanimo consigliere, ottimo legislatore in repubblica fatta, impotente come gli altri ventiquattro del governo a fondar nuova repubblica.

Altro indizio di popolare avversione si manifestò per le cacce regie; avvegnachè i cittadini al sentirsi liberi, uccisero le bestie, svanirono i confini; e spregiando le ragioni della proprietà, recidevano i boschi, piantavano a frutto ne’ campi, dividevano come di conquista le terre. Così che il governo dichiarò le cacce, già regie ora libere, terreni dello stato; le guardie, sciolte. Per altri editti prometteva la soppressione de’ conventi, la riduzione de’ vescovadi, la incamerazione delle sterminate ricchezze della chiesa: benefizii non sentiti dall’universale, come dimostrava il rispetto mantenuto intero ne’ tumulti o cresciuto alla chiesa ed al clero. L’abolizione de titoli di nobiltà, l’atterramento delle immagini e de’ fregi de’ passati re, il nome di nazionali alle cose già regie, il nome di tiranno alla persona del re Ferdinando, furono subbietti di altre leggi, volute dal proprio sdegno, o imitate ne’ fatti della Francia.

Provvedevano nel tempo stesso alle altre parti del politico reggimento. La finanza disordinata, come ho mostrato nel precedente libro, venuta in peggio da’ succeduti sconvolgimenti, più inquieta per la urgenza de’ bisogni e de’ casi, fu la maggior cura del [p. 217 modifica]governo. Legge inattesa dichiarò debito della nazione il vuoto de’ banchi, e ne promise il pagamento; con profferta benevola ma non giusta nè finanziera, imperciocchè mancavano le ricchezze a riempiere quelle voragini, ed in tanto moto delle carle bancali, confuse le fila della giustizia, non cerano creditori del fallimento i possessori delle polizze. Per altra legge fu prescritto a’ tributarii di versare subitamente nell’erario del fisco le taglie dovute alla passata finanza, e le correnti; rimanendo intere le imposte pubbliche sino a quando nuovi statuti le ordinerebbero in meglio.

Fu intanto abolita la gabella sul pesce con gradimento de’ marinari della città, che si fecero amici alla repubblica. Ma le abolizioni, nel regno, delle gabelle sul grano e del testatico (indebitamente credute comunali) produssero effetti contrarii; avvegnachè pagando con esse le taglie fiscali, mantener queste, abolir quelle, faceva scompiglio e impossibilità. I tributarii, assicurati dalla legge, negavano gli usati pagamenti; i pubblicani, sostenuti d’ altra legge, li pretendevano; perciò lamenti e discordie nelle comunità.

V. Tra mezzo a’ quali disordini e povertà comparve comandamento del generale Championnet, che donando alla città le somme pattovite per la tregua, imponeva taglia di guerra di due milioni e mezzo di ducati, e di altri quindici milioni su le province; quantità per sè grandi, impossibili nelle condizioni presenti dello stato e nel prefisso tempo di due mesi. Pure il governo, vinto da necessità, intese a distribuire il danno; e non potendo trar norma dagli ordini dell’antica finanza, perchè mancavano tutte le regole della statistica, tassò i dipartimenti, le comunità, le persone per propri giudizii ; ne’ quali prevalendo il maligno genio di parte, si videro aggravate le province più salde alla fedeltà, e gli uomini più tenaci a’ giuramenti. E intanto, per agevolare la tassa, fu dichiarato che in luogo di moneta si riceverebbero a peso i metalli preziosi, cd a stima le gemme; cosicchè vedevasi con pubblica pietà spogliar le case degli ultimi segni di ricchezza, e le spose disabbellirsi degli ornamenti, e le madri togliere a’ bambini le preziosità degli amuleti, e i fregi di religione o di augurio. La gravezza, il modo, la iniquità scontentavano il popolo.

Cinque del governo andarono deputati del disconforto pubblico al generale Championnet; ed il prescelto oratore Giuseppe Abbamonti, parlandogli sensi di carità e di giustizia, lo pregava di rivocare il comando, ineseguibile allora, facile tostochè la repubblica prendesse forza ed impero; ragioni, lodi, lusinghe adornavano la verità del discorso, quando il generale, rompendone il filo, e ripetendo barbaro motto di barbaro antenato, rispose: « Sventure a’ vinti.» Era tra i cinque Gabriele Manthonè già capitano di artiglieria, gigante d’animo e di persona, amante di patria e [p. 218 modifica]spregiatore d’ogni gente straniera, il quale, sconoscendo le forme di ambasceria, fattosi oratore di circostanza, così disse: «Tu, cittadino generale, hai presto scordato che non siamo, tu vincitore, noi vinti; che qui sei venuto non per battaglie e vittorie, ma per gli ajuti nostri e per accordi; che noi ti demmo i castelli; che noi tradimmo, per santo amore di patria, i tuoi nemici; che i tuoi deboli battaglioni non bastavano a debellare questa immensa città; nè basterebbero a mantenerla, se noi ci staccassimo dalle tue parti. Esci, per farne prova, dalle mura, e ritorna se puoi; quando sarai tornato, imporrai debitamente taglia di guerra, e ti si addiranno sul labbro il comando di conquistatore, e l’empio motto, poichè il piace, di Brenno.» Il generale accommiatando la deputazione, disse: risolverebbe. Nacquero da quel punto in lui sospetti, e nei repubblicani disamore a’ Francesi.

Il generale, al vegnente giorno, confermando le taglie, ordinò il disarmamento del popolo; uomini fatti liberi e disarmati sono il dileggio della libertà. Solamente si permetteva la composizione delle guardie civiche; prescrivendo che fossero scelti a quell’onore i patriolti più chiari e più fidi; sì che il governo emanò legge tanto stretta, che pochi cittadini entravano nelle milizie armate, molti nel ruolo dei tributarii: nella città di Napoli quattro sole compagnie, seicento uomini, erano gli scelti; innumerevoli i taglieggiati, la legge, invalida per forza d’armi o per sentimento di libertà, parve finanziera ed avara. La stessa prudenza o sospetto del generate francese, e le sentenze dei dottrinarii napoletani facevano trasandare le milizie stipendiate; essere soldati in repubblica, dicevano i dottrinarii, tutti gli uomini liberi; essere gli eserciti mercenarii stromento di tirannide; Roma, quando veramente libera, conscrivere i combattenti ad occasione di guerra; non mancar guerrieri alle repubbliche: ed altre loquacità di tribuna, o dottrine di fantastiche virtù. Correvano le strade accattando il vivere buon numero di Dalmati, già soldati del re, abbandonati su questa terra straniera; correvano le province, vivendo d’arti peggiori, le già squadre degli armigeri baronali, delle udienze, dei vescovi, e grande numero dei soldati mantenuti sino allora dagli stipendii della milizia. Era dunque facile formare nuovo esercito di venticinquemila soldati, e trarre da’ pericoli della patria venticinque migliaja di bisognosi e predoni. Ma la repubblica vergognava di essere difesa da genti straniere o venali, ed aspettava il giorno della battaglia per battere dei calcagni la terra e vederne uscire guerrieri armati.

VI. Soprastava male più grande; la penuria. I raccolti dell’anno precedente furono scarsi; la guerra esterna e la civile avevano consumato immensa quantità di grano; la grassa Sicilia ricusava di mandarne, e le navi che scioglievano da’ porti della Puglia e della [p. 219 modifica]Calabria erano prodate da’ navilii siciliani ed inglesi. Crebbe il prezzo al pane; tanto più sentito per i perduti guadagni della plebe, per il gran numero di servi congedati, per le industrie sospese, per la malvagità di quelle genti che speravano nelle disperazioni del popolo. Ma i governanti stavano sereni, confidando nello zelo de partigiani ricchi di granaglie, ne’ compensi di governo libero, nella rassegnazione e nel merito di patir male per amar la patria. Erano Virtù dei reggitori, che, poco esperti della mala indole umana, Le credevano universali; e però intendendo che bastasse a tutti i disegni far certo il popolo della bontà di quel reggimento, spedivano patriotti a sciami per concionare e persuadere. Motivo di mestizia e di sdegno era quindi udire ne’ mercati, vuoti di ricchezze e di negozii, oratore imberbe discorrere i benefizii della repubblica; e con eloquenza spesso non propria ma voltata dalle arringhe francesi, nè mai sentita da volgari uditori pieni di contrarie dottrine, presumere di acquetare i lamenti e i bisogni della plebe. Oratore fra tutti più saggio e più inteso era quel Michele il Pazzo, capo del popolo ne’ tumulti della città, pacificatore all’arrivo di Championnet, e, mutate le cose, alzato al grado di colonnello francese, e spesso mandato ambasciatore alle torme de’ popolari. Arringava in plebeo, solo idioma ch’ ei sapesse; da poggiolo o scranna per mostrarsi in alto, non preparato; permettendo la disputa o le risposte. Diceva un giorno: «Il pane è caro perchè il tiranno fa predare le navi cariche di grano, che ci verrebbero da Barberia, che dobbiamo far noi? Odiarlo, sostenergli guerra, morir tutti piuttosto che rivederlo nostro re; ed in questa penuria guadagnar la giornata faticando per non dargli la contentezza di sentirci afflitti.»

Ed altre volte:

«Il governo d’oggi non è di repubblica, la repubblica si sta facendo: ma quando sarà fatta, noi idioti la conosceremo ne’ godimenti, o nelle sofferenze. Sanno i saccenti perchè mutano le stagioni, noi sappiamo di aver caldo o freddo. Abbiamo sofferto dal tiranno guerra, fame, peste, terremuoto; se dicono che godremo sotto la repubblica, diamo tempo a provarlo.

Chi vuol far presto semina il campo a ravanelli, e mangia radici; chi vuol mangiar pane semina a grano e aspetta un anno. Così è della repubblica; per le cose che durano bisogna tempo e fatica. Aspettiamo.»

Dimandato da uno del popolo che volesse dir cittadino, rispose: «Non lo so, ma dev’essere nome buono, perchè i capezzoni (così chiama il i capi dell stato) l’han preso per sè stessi. cittadino, i signori non hanno l’eccellenza, e noi non siamo lazzari; quel nome ci fa uguali.» [p. 220 modifica]

E allora un altro; e che vuol dire questa uguaglianza?

«Poter essere (indicando con le mani se stesso) lazzaro e colonnello. I signori erano colonnelli nel ventre della madre; io lo sono per la uguaglianza allora si nasceva alla grandezza, oggi vi si arriva.»

Non più ne dirò per brevità, sebbene molte altre sentenze di egual senno io abbia inteso da quel plebeo; e spiacemi di averne tarpato il più sottile per non averle riferite nel dialetto parlato, brevissimo e vivace; della quale licenza ho detto in altri luoghi le cagioni.

Alcuni preti e frati, sapienti ancor essi, parlavano al popolo di governo; e tirando dal vangelo le dottrine di eguaglianza politica, e volgarizzando in dialetto napoletano alcuni motti di Gesù Cristo, incitavano e afforzavano l’odio a’ re, l’amore a’ liberi governi, l’obbedienza all’autorità del presente. Spiegavano, come pronostici avverati di profeti, la fuga di Ferdinando, la venuta di genti straniere, il mutato governo; così che messe insieme le profezie, la croce, l’uguaglianza, la libertà, la repubblica, mostrandosi con vesti sacerdotali, e parlando linguaggio superstiziosamente creduto, insinuavano alla plebe sensi favorevoli per il nuovo stato. Ma pure altri cherici da’ confessionali inspiravano sensi contrarii; e giovani dissennati guastavano le buone opere de’ sapienti per dottrine di sfrenata coscienza; predicando libero il credere, libero il culto di religione, non premii celestiali alla virtù, non pene alle colpe; nullo il futuro come di belve.

VII. Le cure de’ reggitori, fermate ne’ primi tempi alla sola città, si estesero alle province; ma seguendo le istesse regole mandavano commissarii per dipartimenti, commissarii per cantoni, con pienezza di potere quando convenisse alla esecuzione delle leggi, e a’ casi urgenti di quiete pubblica, o di guerra. Insieme a’ quali si partivano molti altri col nome di democratizzatori, senza facoltà o stipendii, col carico di persuadere e ridurre alle forme repubblicane le città e terre delle province; provveduti di lettere patenti del governo, andando a turba per vero zelo o per falso, prevedendone uffizii pubblici e guadagni. Non dirò, perchè facile a immaginare, quanto i commissarii e i democratizzatori paressero ingrati agli abitanti delle province, rozzi, semplici, accorti, nulla curanti le bellezze non sentite di libertà; spregiatori di vota eloquenza, ed usi a fermare le speranze nell’abolizione della feudalità, nella divisione delle terre feudali, nella minorazione dei tributi, nel miglioramento delle amministrazioni e della giustizia. Le quali brame non isfuggivano agli oratori di repubblica, ma le discorrevano variamente, promettendole in lontano, ed unendole alle riforme religiose, alle libertà di coscienza, a’ matrimonii solamente civili, alla nullità de’ testamenti, e ad altre innumerevoli sfrenatezze di morale, riprovate [p. 221 modifica]dagli usi e dalla mente de’ruvidi abitanti delle campagne. La tendenza maggiore de’ discorsi era il pagamento de’ fiscali, ed il ricordo degli ajuti e degli sforzi che debbono i cittadini alla nascente libertà.

Da’ discorsi passando alle opere, andavano i commissarii investigando gli atti e le opinioni dei magistrati; i quali, anziani di età, scelti tra partigiani del passato governo, mal contentavano le passioni estreme di giovani ardenti delle parti contrarie; e perciò ad essi erano surrogati uomini nuovi. Molti onesti abitanti delle province, scontenti del passato per sofferta tirannide o per gli spogli delle ricchezze pubbliche e private, amavano gli ordini novelli e gli secondavano; ma si arrestarono a mezzo corso quando, visto governato lo stato dalle opinioni non dal consiglio, presagirono pericoli e precipizii.

VII. Un solo frastuono di libertà, le accuse pubbliche, non ancora si udiva, ma fu corto il silenzio. Niccolò Palomba volendo accusare Prosdocimo Rotondo, membro tra i venticinque del governo, adunò molti patriotti; ed esponendo le colpe, le pruove, le utilità del giudizio, dimandò assistenza contro d’uomo potente; ma in tempi ne’ quali la potenza vera risedeva nella sovranità del popolo. Applaudito il pensiero, intese le accuse, fu promesso per grida patrocinio all’animoso proponimento. Nuovo il giudizio e non prescritte le forme, andò l’accusatore con grande numero di clienti, e con libello che lesse al governo sedente in atto di legislatore, presente l’accusato e facendo parte dell’augusto consesso. Maravigliarono gli uditori; ed alzandosi dubbio se l’accusa dovesse ammettersi, pregante l’accusato, fu ammessa. Trattava di colpe antiche e non vere: la fama di Rotondo era egregia; quella di Palomba (tranne l’amore per la repubblica) correva macchiata di sospetti e di falli; ma i faziosi tenendo ad argomento di piena libertà quel processo, lodavano a mille voci l’accusalore, e concertavano seco in secrete adunanze le offese; mentre l’accusato dimandava in aperto il giudizio. Parve scandalo al governo il proseguimento di processo iniquo, pericoloso per lo esempio all’autorità inviolabile de’ rappresentanti dello stato; e perciò, seguendo il partito degl’infingardi, lo sospese; concesse a Palomba uffizio grande e bramato di commissario in un dipartimento; e sperò di coprire col silenzio la turpitudine de fatti. Quindi ad un mese, mutate le forme e le persone del governo provvisorio, Prosdocimo Rotondo tornato privato cittadino, valendosi delle ragioni di libertà, dimandò il rinnovamento del giudizio da’ magistrati comuni; e fu assolto. Non egli per magnanimità, e non alcun altro, custode delle leggi, per timidezza, diede accusa di calunnia.

Que’ fatti mostrarono la via degl’impieghi pubblici, la forza delle [p. 222 modifica]adunanze secrete, la debilità del governo. Perciò si udirono ad un tratto mille accuse; non bastando egregia fama, probità di antica vita, viver presente immaculato, a contenere le ambizioni e la protervia de’ tristi. Fu composto tribunale, chiamato censorio, a ricevere le accuse, esaminarle, spingerle in giudizio, e provvedere a’ lamenti degli oppressi (era il motto degli accusatori) ed alla necessaria tutela degli accusati. Sursero al tempo medesimo le società popolari, segrete o manifeste, nelle quali i settarii preparavano le accuse; delle pubbliche due furono più famose, le sale Patriottica e Popolare; le quali, ad esempio de’ clubs francesi, adunavansi quando in pubblico, quando in privato, sotto presidenza, con tribuna, processo delle materie discusse e libro delle decisioni. Le grandi quistioni di politica, le nuove costituzioni dello stato, ie leggi, le ordinanze, la guerra; e poi gli uffizii, gli uffiziali, la vita pubblica, la privata de’ cittadini, erano subietto di esame con libertà o licenza tribunicia; e le profferte sentenze andavano, secondo i casi, al governo sotto forma di messaggi o di consigli, al tribunale censorio per accusa, e al popolo per tumulti. Nessuna coscienza riposava nella sua virtù, nessuna voce maligna era spregevole, ogni nemico potente, qualunque merito, pericoloso. Vedevi mutamenti continui negli officii dello stato, odii acerbi, fazioni operose; il quale romore di accuse, di calunnie, di lamenti, si alzò strepitoso, e non posò che al cadere della repubblica; imperciocchè le sette, sintomi della infermità de’ governi, spengono questi se non sono spente.

IX. Mentre nella sala Patriottica si agitavano le più sottili quistioni sul nuovo statuto, e la stessa libertà francese pareva scarsa per noi, comparve la costituzione della repubblica napoletana, proposta nel comitato legislativo dal rappresentante Mario Pagano. Era la costituzione francese del 1793, con poche variazioni suggerite da modesta libertà. Dispiacque leggere in essa rivocati i parlamenti comunali, tumultuosi veramente ed inutili sotto dispotica signoria ma in repubblica mezzi opportuni alle elezioni ed amministrazioni, che sono i cardini di ogni libera società. Era debole in quella carta il potere giudiziario, nè appieno libero l’amministrativo; si plaudì all’immaginato corpo degli efori, sostenitori della sovranità del popolo. Due principii prevalevano: l’equilibrio de’ poteri astratti senza troppo avvertire all'equilibrio delle forze presenti, ovvero a ciò che in stato libero è forza, cioè costumi, opinioni, virtù del popolo; ed il sospetto contro al potere esecutivo, ed a’ cittadini potenti. Come le leggi bastassero ad impedire i precipizii di stato libero, quando nel seno di lui oprano le cagioni della rovina, mancò alla repubblica napoletana il tempo di sperimentarlo; un anno appresso quelle medesime leggi sospettose non mantennero dalla caduta la [p. 223 modifica]repubblica madre. Avventurosa, almeno, perchè discese nelle mani di un Cesare che durò tre lustri, e le serbò gran parte delle acquistate libertà; misera Napoli che inabissò nelle voragini del dispotismo.

Il governo provvisorio esaminava lo statuto costituzionale, consolando con le speranze future le mestizie presenti, che un certo Faypouli commissario di Francia, venne ad accrescere. Egli portava decreto della sua repubblica, la quale, forte nella ragione della conquista, riconfermava le imposte di guerra; e diceva patrimonio della Francia i beni della corona di Napoli, i palazzi o reggie, i boschi delle cacce, le doti degli ordini di Malta e Costantiniano, beni de monasteri, i feudi allodiali, i banchi, la fabbrica della porcellana, le anticaglie nascoste ancora nel seno di Pompei e di Ercolano. Il generale Championnet, che travagliato dalla universale scontentezza ne prevedeva i pericoli, e non aveva cuore disumano, impedì a Faypoult l’esecuzione del decreto, e ne fece per editto pubblica la nullità; ma insistendo il commissario, e accesa briga, vinse il più forte; Faypoult, discacciato, si partì. Piacque ciò a’ Napoletani, che doppiando l’odio contro i Francesi, presero ad amare Championnet; scusandolo allora delle passate durezze, dicendole necessità, e rammentando (que’ della plebe) la sua religione, il ricco dono a san Gennaro, e certo accidente, il cui principio era ignoto. Avvegnachè nei registri battesimali della chiesa di sant’Anna era un Giovanni Championnè, diverso per genitori e per tempo di natali; ma frattanto il generale fu creduto napoletano, benchè veramente nascesse in Valenza nel Delfinato.

Quindi spiacque leggere nelle gazzette francesi decreto del direttorio, che diceva così: «Visto che il generale Championnet ha impiegato l’autorità e la forza per impedire l’azione del potere da noi confidato al commissario civile Faypoult; e che perciò si è messo in aperta ribellione contro il governo; il cittadino Championnet, generale di divisione, già comandante dell’esercito di Napoli, sarà messo in arresto e tradotto innanzi un consiglio di guerra per essere giudicato del suo delitto.»

Subito Championnet si partì; ebbe il comando dell’esercito il generale Macdonald. Championnet giudicato in Francia ed assoluto ritornato all’impero degli eserciti, accresciuto di gloria, povero di fortuna, morì poco appresso in Antibo; e, se fu vera la fama, di veleno datogli o preso. Molti sospiri mandarono i Napoletani alle sue sventure; tanto più che venne compagno al Macdonald quel medesimo Faypoult, baldanzoso, protervo, inflessibile; vago di vendicare la gioja de’ Napoletani alla sua cacciata, e l’amore che portavano al suo nemico.

X. Giunse in quel mezzo nuova che i Francesi occupavano gli [p. 224 modifica]stati della Toscana, e che il gran duca Ferdinando III con la famiglia ne usciva. Il direttorio francese, insaziabile di conquiste, dopo invasi gli stati di Lucca, dimandò ragione al governo toscano delle ostilità manifestate nel ricevere le schiere napoletane contrarie alla Francia, e nel dare asilo al pontefice Pio VI. Il gran duca rispose che non mai nemicizia nè sdegno contro la repubblica, ma forza, e però necessità de’ più deboli, era stato motivo alla pazienza di ricevere l’armi napoletane nel porto di Livorno, minacciato da forti navigli siculi e inglesi: e in quanto al pontefice, che nessun atto vietando dargli ricovero, era debito di principe cristiano concederlo al capo della cristianità, vecchissimo e misero. Benchè laudabili e vere le discolpe, e di già cominciate le avversità delle armi francesi su l’Adige, così che bisognava raccorre non già dissipare gli eserciti della repubblica, prevalendo l’avidità del direttorio e del generale Scherer duce supremo in Italia, andò contro Firenze una legione francese che il generale Gauthier dirigeva; e giunta presso alle mura, intimò per araldo la resa della città. Ma Ferdinando III, rassegnato alle necessità del tempo, mandò in risposta I editto seguente:

«A miei popoli.

«Vengono in Toscana armi francesi. Noi riguarderemo come prova di fedeltà e di amore de’ nostri l’obbedienza al comando delle autorità, il mantenimento della quiete pubblica, il rispetto a’ Francesi, la diligenza di evitare gli sdegni de’ novelli dominatori. Per le quali cose crescerà, se d’incremento è capace, il nostro affetto verso i nostri popoli.»

Dopo ciò l’armi francesi entrarono a Firenze; il gran duca, nel dì seguente 27 di marzo, ne partì; la quiete non fu turbata. Per i quali successi, vedendo allargati in Italia i dominii e le parti di repubblica, si rallegrò il governo di Napoli. Ultima contentezza; imperciocchè da quel dì non giunse nuova se non mesta.