Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo I/Parte III/Libro I

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LIBRO PRIMO

Letteratura de Romani dalla fondazione di Roma

fino al termine della prima guerra Cartaginese.



Esame delle ragioni per le quali alcuni negano l’ignoranza degli antichi Romani. I. L’abate le Moine d’Orgival in una sua operetta (Considerations sur l’origine et progrès des belles lettres chez les Romains, ec. p. 1, ec.) in cui prende a esaminare l’origine, il progresso e la decadenza degli studi presso i Romani, cerca di liberarli da quella qualunque siasi taccia che potrebbe in lor derivare dall’opinione ricevuta comunemente, che essi per cinque secoli non conoscessero che l’armi e la marra. Di questo libro non troppo vantaggiosamente hanno parlato gli autori del Journal d. Savans (an. 1750, p. 616), e alcuni errori se ne sono notati ancora nelle Memorie di Trevoux (an. 1750, févr. art. 24) e nella Storia letteraria d’Italia (t. 4, p. 253); e singolarmente poco probabile è sembrata questa sua proposizione. Confessa egli medesimo che affermare che ne’ primi secoli di Roma vi ebber uomini dotti, sembra uno strano e improbabile paradosso. E nondimeno egli non teme di affermarlo. Ma le stesse prove ch’egli ne arreca, quando si vogliano esaminare attentamente, giovano a sempre più persuaderci che questo è di fatti uno strano e improbabile paradosso. Egli afferma che Romolo fu istruito in tutte le scienze che al grado di lui, secondo il costume di quel tempo, si convenivano; e il prova coll’autorità di Plutarco, ove dice che Romolo e Remo impararono le lettere ed [p. 190 modifica]altre cose che dirigermi fanciulli erano proprie (in Romulo). Ma io non veggo perchè questo passo di altre scienze intender si debba fuorchè di quelli de primi elementi e degli esercizii del corpo allora usati, che noi ora diremmo arti cavalleresche. Aggiugne, che il formare che fece Romolo i suoi Romani a grandi e magnanime imprese, ci dà motivo di affermare ch’egli non ommettesse le scienze e le arti, che sono il più bello ornamento e la principal gloria d’uno Stato. Ma non si prova che così fosse veramente, e niun indicio ne abbiamo negli antichi monumenti che ci sono rimasti. Nel collegio de’ pontefici da Numa istituito egli ritrova un’accademia di dotti che colle loro veglie e co’ loro scritti potessero istruire quella moltitudine di fuorusciti, cui la severità delle leggi traeva a Roma come ad inviolabile asilo. Eppur sappiamo che Numa stesso se ottenne il nome illustre di filosofo, ciò fu singolarmente e per le savie leggi che a’ Romani prescrisse, e per l'accorgimento finissimo con cui per mezzo di un maestoso apparato di cirimonie, di sacrifizii, di pompe sacre strinse e soggettò quel ferocissimo popolo col possente freno della religione che quanto alla natural filosofia, non abbiam indicio alcuno a provare che Numa fosse in essa versato, se se ne tragga una lieve tintura di astronomia, di cui si valse a regolare non troppo esattamente il calendario. Tale è ancora il sentimento del dotto Bruckero diligentissimo ricercatore delle opinioni degli antichi filosofi. Interim, dic’egli (Hist. Critic. Philosph. t.1, p. 377, ec.), magnum virum [p. 191 modifica]et legislatorem prudentissimum Numam fuisse adeo non negamus, ut facile in Plutarchi sententiam concedamus, praeferndum esse Lycurgo legislatorum fere principi. Verum haec virum quidem prudentem constituunt, qua ex causa Cicero quoque ei sapientiam constituendae patriae, et Plutarchus prudentiam civilem recte tribuunt, non vero philosophum faciunt. “Più favorevole al sapere astronomico di Numa è m. Bailly, il quale osserva ch’ei fu assai più esatto nel regolare il suo calendario, di quel che fossero i Greci a que’ tempi (Hist. de l’Astronom. Ancienne p. 194, 435, ec.); e che anche, secondo alcuni, egli ebbe notizia del vero sistema del mondo, che fu poi adottato dalla scuola pittagorica; la qual lode però egli pensa, e parmi a ragione, che senza bastevole fondamento si attribuisca a Numa„.


Tenui indizii che abbiam della loro letteratura. II. Cicerone stesso, di cui non vi ebbe mai il più zelante scrittore nel sostenere le glorie della sua patria, non ha potuto rinvenire argomenti che con qualche probabilità dimostrassero avere i Romani fino da’ primi secoli coltivate le scienze. Vorrebbe egli pur persuaderci (l. 4 Quaest. Tusc. in Exord.) che la pittagorica filosofia fosse dagli antichi Romani conosciuta ed abbracciata. La vicinanza della Magna Grecia in cui visse Pittagora, e dopo lui tanti e sì illustri filosofi di lui discepoli, dovette certamente, secondo lui, risvegliar ne’ Romani il desiderio di esserne essi pure istruiti. Ma tutti i vestigi che di questa pittagorica filosofia egli ha potuto trovare nell’antica Roma, si riducono all’uso di cantare ne’ conviti a suon [p. 192 modifica]di flauto le preclare geste degli antenati, e qualche genere di poesia che doveva essere usato, poichè nelle leggi delle xii tavole si vietava il valersene a danno altrui, e alla costumanza di accompagnare col suono degli strumenti le cirimonie de’ sacrifizii e i solenni conviti de’ magistrati. Ma ognun vede quanto deboli indicii son questi a provare che lo studio della filosofia fiorisse allor tra’ Romani. Anche per ciò che appartiene all’eloquenza, Cicerone confessa che non pargli di aver mai letto in alcuno scrittore che que’ primi consoli di Roma, benchè eloquentemente parlassero, fosser creduti oratori, o che all’eloquenza fosse proposto qualchesiasi premio; ma solo, soggiugne egli, qualche conghiettura mi muove a sospettarlo (De Cl. Orat. n. 14), La qual conghiettura però non è altra se non quella che adducesi anche dall’ab. le Moine, cioè che leggiamo esservi stati uomini possenti nel favellare, i quali in diverse occasioni seppero persuadere all’esercito, al popolo, a’ magistrati qualunque cosa lor piacque. Conghiettura, la qual proverebbe che studio di eloquenza vi ha ancor tra gli artigiani più vili e tra più pezzenti mendici, molti de’ quali si odono non rare volte usare ne’ lor bisogni singolarmente di una vivissima naturale eloquenza. Ma non è questa di cui si cerca quando si parla dello studio dell’eloquenza; ma sì di quella che coll’arte e co’ precetti si forma, come nella parte precedente si è dimostrato (V. sup. par. 2, c. 2). Appena sembrami degna di esser qui confutata l’altra ragione che a provar l’eloquenza tra gli antichi [p. 193 modifica]Romani adduce l’ab. le Moine, tratta dalle belle parlate dei re, de capitani, de’ magistrati, che Dionigi Alicarnasseo, Livio ed altri hanno nelle loro storie inserito. Vi ha forse chi non sappia essere parer comune tra’ dotti, che quelle parlate furono dagli storici stessi composte come più loro piacque?


Romolo avea loro vietato l'apprendere le scienze. III. Non vi ha dunque argomento alcuno a provare che ne’ primi cinque secoli fiorissero le scienze in Roma, anzi Dionigi Alicarnasseo chiaramente ci mostra che Romolo vietato avea a’ Romani il coltivarle: Romulus, dice egli (l. 2, c. 28), artes sedentarias ac illiberales ... servis et exteris exercendas dedit; et diu apud Romanos haec opera habita sunt ignominiosa, nec ullus indigena ea exercuit; duo vero studia sola ingenuis hominibus reliquit, agricultram et bellicam artem. E che questa legge di Romolo durasse lungamente nel suo vigore, più chiaro ancora vedrassi dalla storia de’ tempi seguenti, ne’ quali vedremo ciascheduna scienza avere la prima origine e cominciare, talvolta ancora non senza contrasto, a introdursi in Roma. Egli è vero che, come detto abbiamo nella prima parte di quest’opera, solevano in questi primi tempi i Romani nell’etrusche lettere istruirsi (V. sup. p. 13). Ma benchè uomini colti fosser gli Etruschi, il veder nondimeno che i Romani la loro superstizione appresero solamente e non il loro sapere, ci dà motivo di credere che la scienza degli augurii, degli auspici e di altre somiglianti superstiziose osservazioni fosse la sola scienza etrusca di cui andassero in cerca i Romani. [p. 194 modifica]
Per quali ragioni non s’introducessero che tardi tra loro. IV. Lo stesso ab. le Moine, dopo avere usato ogni sforzo a mostrare i Romani de’ primi secoli amatori delle scienze, pare che riconosca egli stesso che assai debole e languido fu un tal amore; perciocchè poco dopo così soggiugne (p. 10): Era ben difficile che si scrivesse allora pulitamente, e che si usasse un parlare elegante e colto: lo stato degli affari nol permetteva. Uno stato incerto ancora e ondeggiante, le continue discordie tra ’l senato ed il popolo, il successivo e vario cambiamento di governo di re, di consoli, di tribuni militari; lo spirito di conquista proprio di questa nazione, le continue guerre con popoli più dell’agricoltura solleciti che non degli studi; la necessità di aver sempre l’armi alla mano, e di star notte e giorno in faccia al nemico, tutto ciò impediva ai Romani l’applicarsi unicamente (meglio forse avrebbe detto l’applicarsi punto) alle scienze. A questa ragione, presa dalla dura situazione in cui erano i Romani ne’ primi secoli, un’altra ne aggiugne l’autore di un’opera sopra le Antichità di Roma, stampata in Dublino l’anno 1724, di cui una piccola parte è stata estratta ed inserita nelle Memorie di Trevoux (an. 1751, janv. p. 252, févr. p 466) col titolo: Saggio storico sopra la Letteratura de’ Romani; ove così ragiona: Quando si considerano i cominciamenti del romano impero, la forza che ricevette dapprima dal suo legislatore, e le qualità de’ primi membri che lo composero, niuno si maraviglia al vedere in questo nascente popolo una cotale ferocia interamente opposta alla pulitezza e alle [p. 195 modifica]maniere propie di un popolo ben coltivato Questa rozza barbarie cambiossi insensibilmente in una austera alterigia, per cui i primi eroi di Roma contenti de’ soli soccorsi della natura disprezzarono quelli dell’arte, dalla quale essi non presero cosa alcuna, onde rischiarare la lor ragione e avvivare il natio loro coraggio. Essi non conobbero punto nè il pregio delle opere d’ingegno, nè i vantaggi dello studio, cui considerarono come frivola occupazione, e alla gravità di un cittadino non conveniente. E in un tal pregiudizio più ancor confermolli il vedere che con un esatta militar disciplina e con una singolare costanza soggiogavano altre nazioni che meno ancora di loro versate erano negli studi.


Altre ragioni della loro ignoranza. V. Questa feroce alterigia, nata, per così dire, e cresciuta insieme co’ Romani, fece sì, che benchè vicini essi fossero e agli Etruschi e agli abitatori della Magna Grecia, popoli, come si è detto, colti assai e delle liberali arti sommamente studiosi, sdegnaronsi nondimeno di approfittarsi della favorevole occasione che loro si offeriva di coltivare lo spirito e d’istruirsi nelle scienze. Co’ Greci appena ebbero i Romani ne’ primi secoli commercio alcuno. Tutte le altre straniere nazioni eran da essi considerate come indegne di venire a confronto colla grandezza e colla maestà del loro nome, e troppo avrebbon essi pensato di abbassarsi, se le avesser prese a maestre, e fatti se ne fossero imitatori. Quindi, trattene le cerimonie e i riti appartenenti al culto de’ loro iddii, ne’ quali pare che i Romani da’ popoli d’ogni parte [p. 196 modifica]del mondo raccogliessero quanto vi aveva di più superstizioso, in tutte le altre cose sdegnaronsi essi di sembrar debitori di cosa alcuna ad altrui. Un’altra ragione ancora; secondo la riflession del Bruckero (t.2, p. 6), concorse a rendere i Romani per lungo tempo nemici di ogni sorta di studi. Temevano que’ gravissimi magistrati che se i giovani presi fossero un giorno dall’amor delle lettere, questo non venisse a raffreddare daprima, e poscia ad estinguere interamente quel guerriero vigore che fin allora aveano conservato, e a render loro increscevole quella stentata e faticosa vita che aveano fin allora condotta. Per tutte queste ragioni non furono gli antichi Romani punto solleciti di tutto ciò che a lettere ed a scienze appartiene. Alcuni ben rozzi versi e senza alcuna armonia usati talvolta nelle solenni pompe e ne sagrifizii, certe rusticane e buffonesche poesie recitate sopra i teatri, gli annali scritti da’ pontefici, in cui i più memorabili avvenimenti della Repubblica accennavano col più digiuno e più secco stile che mai si potesse; ecco tutti i monumenti che del sapere degli antichi Romani ci sono rimasti, come confessa lo stesso ab. le Moine (p. 8, ec.). La tragedia, la commedia, il poema, la storia, la rettorica, la filosofia, anzi la gramatica stessa eran nomi sconosciuti tra loro, e in tutte le storie romane noi non troviamo menzione di un solo ne’ primi secoli che in alta stima salisse pel suo sapere. Egli è vero che troviamo scuole in Roma fin dal principio del quarto secolo; perciocchè Dionigi Alicarnasseo (p. 709) racconta che [p. 197 modifica]Appio Claudio, mentre era decemviro, cioè circa l’an. 303, avvenutosi a vedere una fanciulla figliuola di L. Virginio, mentre se ne stava in iscuola leggendo, dum in ludo literario legeret, se ne invaghì; e anzi aggiugne: tunc autem puerorum ludi literarii erant circa forum. Il che pure in somigliante maniera si narra da Livio (l. 3, c. 44)- Ma assicurandoci Svetonio che la gramatica cominciò assai più tardi ad essere coltivata in Roma, pare evidente che queste non fossero scuole che de’ primi elementi, a cui perciò le fanciulle ancora intervenissero, e vi apprendessero a leggere e a scrivere.


La sola giurisprudenza ebbe qualche coltivatore. VI. Il solo studio delle leggi ebbe a quel tempo alcuni coltivatori; poichè avendo Roma le sue leggi, necessariamente essere vi doveva chi facessene attento studio per interpretarle al bisogno. In esse certo doveva esser versato quel famoso Papirio, il quale a’ tempi di Tarquinio il Superbo per volere del senato e del popol romano raccolse e ordinò tutte le leggi che da’ predecessori di lui erano stat promulgate, affinchè non avesse effetto il disegno che formato avea Tarquinio di abolirle tutte, e di reggere a suo capriccio l’impero. Ne fu dunque data a Papirio la commissione, ed egli sì felicemente la adempiè, che le leggi da lui raccolte ebbero il nome di Codice Papiriano. I frammenti che di esso ci sono rimasti, sono stati raccolti dal dotto avvocato Antonio Terrasson nell'erudita sua Storia della Romana Giurisprudenza (part. 1, § 5, 6, ec). Maggiore ancora esser dovette lo studio delle [p. 198 modifica]leggi verso il principio del quarto secol di Roma, quando la solenne deputazione si fece di tre cittadini, acciocchè recandosi ad Atene e alle altre città della Grecia, tutte ne raccogliessero le migliori leggi che vi trovassero pubblicate; e quindi un magistrato di Dieci fu eletto che di tutte queste leggi formasse un corpo, il quale a stabile regolamento servisse della Repubblica, e che fu poi chiamato col nome di Leggi delle xii Tavole. Io non tratterrommi a parlarne più lungamente, poichè e tutti gli scrittori della storia romana e tutti i trattatori della romana giurisprudenza ne han favellato. Ma veggasi singolarmente ciò che ne ha scritto il soprallodato avvocato Terrasson, il quale questo fatto ancora ha difeso (part. 2, § 1) contro Giambattista Vico che lo ha rivocato in dubbio (“Principii di una Scienza nuova intorno alla natura delle nazioni„), e contro M. de Bonamy che senza contradire al fatto ne combatte il più delle circostanze, così che il fatto stesso può rimanere dubbioso (Mémoir. de l’Acad. des Inscript. t.12, p. 27). Una cosa sola io qui osservo a render sempre più evidente che ben rozzi erano ancor i Romani a quel tempo, perciocchè a interpretar le leggi recate di Grecia fu loro d’uopo valersi dell’opera di un certo Ermodoro di Efeso, che allora trovavasi in Roma, e a cui perciò a monumento di gratitudine fu innalzata una statua. Fuit, dice Plinio (l. 34, c. 5), et Hermodori Ephesii (statua) legum, quas Decemviri scribebant, interpretis publice dicata. Questo studio medesimo, sostenuto dalla necessità di [p. 199 modifica]render giustizia nelle civili e nelle criminali cause, sempre si mantenne tra Romani in vigore. Il Terrasson alcuni giureconsulti annovera che a questi tempi fiorirono, e tra essi singolarmente Appio Claudio Centemmano, o, come altri scrivono, Centumalo, Sempronio, e Tiberio Coruncanio che fu console l’anno 473, del quale dice che fu il primo ad aprir pubblica scuola di giurisprudenza. Di lui parla ancor Cicerone con somma lode (Brut. num. 14; Or. pro Domo, n. 54).


Da’ popoli della Grecia Magna ebbero i primi lumi delle scienze. VII. Tal fu lo stato della romana letteratura ne’ primi cinque secoli della Repubblica; e forse più lungo tempo ancora avrebbon i Romani sprezzate, anzi ignorate le scienza, se le stesse loro conquiste non gli avessero in certo modo riscossi. Ella è opinion ricevuta comunemente, che il commercio co’ Greci fosse l’origine dell’amore e della stima in cui cominciarono i Romani ad aver gli studi delle bell’arti. Ma se per Greci intendansi, come intendonsi per lo più, gli abitatori di quella che propriamente si dice Grecia, la quale di tutte le scienze è creduta e detta ordinariamente madre e maestra, opinione alcuna non fu mai più falsa e più insussistente di questa; perciocchè appena aveano allora a Romani avuto ancora con essi commercio alcuno. Una diligente riflessione sulle cose avvenute sul finire del quinto secolo di Roma ci aprirà, io spero, la via a conoscere la prima origine dell’amor delle lettere tra’ Romani, la qual io non so se sia stata ancora da altri attentamente esaminata. Tre popoli erano allor nell’Italia, presso i quali da lungo tempo si [p. 200 modifica]coltivavan le scienze; gli Etruschi, gli abitatori della Magna Grecia, e i popoli della Sicilia. Or se noi ci facciamo a riflettere sulla storia di Roma, noi troviamo che l’anno 473 gli Etruschi, i quali lunghe guerre sostenute aveano contro i Romani, furono interamente domati; e che l’anno 487 ottennero finalmente i Romani medesimi che tutti i popoli della Magna Grecia, molti de’ quali avean fin allora sostenuta valorosamente l’antica lor libertà, ad essi pienamente si soggettassero. Venute queste provincie in poter de’ Romani, molti de’ loro abitatori dovettero naturalmente venire a Roma; e quelli singolarmente che per sapere erano illustri, non potendo più sperare nella soggiogata lor patria que’ pubblici onori di cui prima godevano, dovettero facilmente determinarsi a venire in cerca della lor sorte presso ai nuovi loro signori. Vedremo in fatti tra poco che i primi poeti che conosciuti furono in Roma, furon presso che tutti di alcuna di queste provincie, come Livio Andronico, Nevio, Ennio, Pacuvio ed altri. Questi furon dunque veracemente coloro che il primo amor delle lettere accesero in cuore a’ Romani, i quali veggendo che le nazioni da lor soggiogate aveano in gran pregio le scienze e i loro coltivatori, vergognaronsi di esser da meno di essi, e cominciaron prima a favorire essi pure quelli che per letteratura erano più rinomati; e quindi presero ad amare e a coltivar essi pure quegli studi che onoravano in altrui. La prima guerra Cartaginese, che a questo tempo medesimo, cioè l’anno 489 ebbe cominciamento, ritardò [p. 201 modifica]di alcuni anni l’effetto che la venuta di questi stranieri a Roma cominciava a produrre; ma insieme una nuova occasione diede a’ Romani di concepire stima sempre maggiore delle lettere e de’ letterati. Non aveano essi mai fino allora posto il piede fuori d’Italia. Le loro guerre erano sempre state o con popoli confinanti, o con nazioni straniere bensì e lontane, ma venute a molestarli ne’ loro stati. Ma questa guerra costrinseli a portar l’armi ora in Sicilia, ora in Sardegna, or nell’Affrica stessa. Io non penso che nè la Sardegna nè l’Affrica non giovassero molto a destare in essi l’amor delle scienze. Ma la Sicilia fioriva allora mirabilmente pel coltivamento degli studi e della poesia in particolar modo; perciocchè vivea forse ancora Teocrito, che fiorì, come dicemmo, verso l’olimp. cxxx che coincide appunto co’ tempi di cui parliamo. Le cose dunque che agli sguardi de’ Romani si offrirono in Sicilia, le azioni teatrali che videro ivi rappresentarsi, e gli onori che osservarono rendersi a’ poeti, dovettero nell’animo loro accendere una lodevole emulazione, e determinarli a non essere in questo genere di lodi inferiori a una nazione a cui per ogni altro capo erano di gran lunga superiori. In fatti terminata appena la guerra, il che accadde l’anno di Roma 512, e soggettata pel trattato di pace parte della Sicilia a’ Romani, vidersi tosto poeti in Roma, si videro su’ teatri commedie e tragedie, cominciarono a comporsi poemi; e come le scienze tutte si danno vicendevolmente aiuto e sostegno, gli altri studi ancora, qual più presto, qual meno, vidersi [p. 202 modifica]coltivati felicemente. Da tutte le quali cose egli è, a parer mio, evidente che a mentovati tre popoli italiani, e non già a’ Greci, furon debitori i Romani del rivolgersi che finalmente fecero agli studi. Non negherò già io che il commercio co’ Greci giovasse poscia non poco a perfezionare la romana letteratura; ma a me basta l’osservare che come gli antichi abitatori d’Italia al loro genio medesimo dovettero in parte il felice riuscimento lor nelle scienze e nelle arti, così i Romani da’ popoli d’Italia, e non da que’ della Grecia, appresero primieramente le scienze stesse. Ma è omai a vedere partitamente quali fosser gli studi che prima di tutti ricevuti furono in Roma, quali poscia vi s’introducessero, e quale avanzamento in essi fecero i Romani.