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Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro quarto/Capo secondo

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CAPO SECONDO

(Dall’anno 1255 al 1283.)

I. Manfredi invia al Ruffo Gervasio di Martina; poi Corrado di Truichio, e si viene alle armi. I Messinesi mostrano di muovere da Reggio contro il Ruffo. Fatti d’armi in Calabria. II. Quasi tutta la Calabria ubbidisce a Manfredi. I progressi delle armi di Manfredi fanno fastidio a’ Messinesi, che da Reggio e da Calanna aspirano ad altre conquiste in Calabria. I Messinesi assaltano e prendono Seminara; ma nel tornarsi a Reggio sono tagliati e dispersi da’ nemici. III. I Messinesi scoraggiati cedono Calanna, e poi Reggio. Viene in Calabria Federigo Lancia. Stato della Sicilia. La Calabria, da Santa Cristina a Motta Bovalina in fuori, è sotto Manfredi. Anche la Sicilia si va piegando a lui. Dedizione di Santa Cristina e di Motta Bovalina. Manfredi Re di Sicilia. IV. Urbano IV stimola Carlo d’Angiò alla conquista del Regno contro Manfredi. Battaglia di Benevento, e morte di Manfredi. V. Entrata di Carlo d’Angiò in Napoli; e suo governo. Corradino, e sua morte. Governo di Carlo in Sicilia. Vespro Siciliano. Pietro d’Aragona è fatto Re di Sicilia. VI. Carlo in Reggio. Assedio di Messina. VII. Carlo scioglie l’assedio di Messina, e torna a Reggio. Battaglia navale tra Aragonesi ed Angioini. Giacomo d’Aragona assalta Reggio, ma n’è respinto. Gli è tolto l’uffizio di Grande Ammiraglio, e dato a Ruggiero Lauria. Gli Almogaveri. VIII. Carlo da Reggio manda a sfidar Pietro a duello. Questi accetta la sfida, ma poi non si effettua. IX. Carlo schiera il suo esercito tra Reggio e la Catona, e fa suo Luogotenente il figliuolo Carlo, Principe di Taranto. Gli Almogaveri assaltano la Catona, disperdono la gente Angioina, ed uccidono il Conte d’Alansone. Federigo Mosca con altri Aragonesi sbarca a mezzodì di Reggio.


I. Molta parte della nobiltà calabrese, che si era dimostrata ben affetta a Manfredi, temendo la vendetta di Giordano Ruffo, che aveva assai aspreggiato contro i Cosentini, uscì della Calabria (1255). Nè pochi corsero difilati ad Oria, dove Manfredi dimorava, per dargli contezza della scabrosa condizione delle cose. Allora questo principe spedì in Calabria con pieni poteri Gervasio di Martina per abboccarsi col Ruffo, ed accomodar le faccende come si poteva il meglio. Ma giunto in Cosenza gli fu impedito da Giordano il passar più oltre. Perilchè egli se ne ritornò all’Ammendolara, terra di Ruggiero dell’Ammendolara, il quale era stato dal Conte Pietro creato Giustiziere di Calabria. Da costui seppe il Martina come il Conte sfuggisse di aprir pratiche con Manfredi (1255), perchè già trattava di dar la Calabria alla potestà pontificia. Gervasio fece saper questo a Manfredi sollecitamente, cercandogli forze sufficienti a far che stesse a ragione quella provincia che già pericolava. Manfredi, mosso e dalle parole del Martina, e dalle calde istanze di molti nobili cosentini che stavano in corte, vi mandò spacciatamente con una convenevol forza dì fanti e cavalli Corrado di Truichio, affinchè si con[p. 165 modifica]giungesse a Gervasio, e tutti e due si studiassero di conservargli in fede la Calabria. Partì tosto Corrado, e corse ostilmente quel paese.

Il Conte di Catanzaro che ciò vedeva, e sapeva insieme che i Messinesi, messo in acconcio un esercito in Reggio, minacciavano da quell’altro lato la Calabria, dal castello di Calanna ove tuttavia era, mosse alla volta di Catanzaro per tener petto all’esercito di Manfredi che marciava a gran passo. E commise a’ suoi capitani Carnevalerio da Pavia, Fulcone Ruffo e Boemondo da Oppido, che accostandosi da Calanna a Reggio, vietassero a’ Messinesi il farsi più avanti. Intanto il Conte si trasferiva da Catanzaro a Cosenza, ove aspettava che facessero la massa le sue truppe, le quali dovevano arrivarvi da varii punti di quella contrada. Quivi gli fu noto nel punto del suo arrivo, che Giordano suo nipote era stato fatto slealmente prigioniero da’ capitani di Manfredi, mentre con salvocondotto da loro ottenuto recavasi da Cassano a San Marco; e che la sua gente era stata disfatta. La qual cosa come prima fu palese al Conte, non dando tempo che si divulgasse in Cosenza, da’ cui cittadini temeva qualche mal giuoco, diede la volta per Catanzaro. Presa ivi sua roba e famiglia se ne scese a Tropea sua patria; donde messa a ordine in un batter d’occhio una saettia s’argomentava di entrare in mare nella vegnente notte. Ma gli andò fallito il tratto; e montò con tutti i suoi sopra alcune barchette di Salentini che a caso vi passavano, patteggiando il nolo di mille ducati; e fece condursi in Napoli presso il Pontefice, che allora vi stava colla sua corte.

II. L’esercito di Manfredi intanto andava conquistando quasi senza contrasto tutti que’ luoghi; e dopo Nicastro tutte le altre castella e città di Calabria se gli arresero. In Seminara stavano riuniti i capitani del Ruffo Carnevalerio da Pavia, Boemondo da Oppido, e Fulcone Ruffo (1255). Costoro furono tentati da Gervasio di passare a Manfredi; ed il Pavia e l’Oppido vi passaron di fatto. Ma Fulcone, ch’era nipote del Conte, ed aveva sugli occhi il fresco esempio del fratello Giordano imprigionato con tutto il salvocondotto, non ne volle sentire. Ritrattosi perciò in Santa Cristina, ivi e nella Motta Bovalina ch’era altro suo castello, si rafforzò; e si fornì a dovizia di armi e di vettovaglie. Gervasio volle corrergli alle calcagna; ma vedendo non potere aver quelle terre senza molto sciupo di tempo, si piegò per Gerace, che senza briga venne in suo potere. Pose poi il campo nel piano di San Martino; donde aveva opportunità di tenere a bada Fulcone, come pure di accennar minaccioso al castello di Stilo, che fortissimo essendo, veniva difeso da Berardo Tedesco; [p. 166 modifica]a cui, sua vita durante, l’aveva conceduto Re Corrado, quando venne nel Reame.

I progressi in Calabria delle armi di Manfredi turbavano i disegni de’ Messinesi, i quali per assodare la loro indipendenza e farsi più forti, da Reggio e da Calanna (occupata da loro dopo la fuga del Ruffo) avevano eretto l’animo alla conquista di tutta quella parte di Calabria che siede sul Faro. Ragunate perciò molte considerevoli brigate di fanti e di cavalli, commisero a’ lor capitani che rompessero guerra a’ soldati di Manfredi. E mentre Gervasio di Martina, e Corrado di Truichio avevano il campo in San Martino, i Messinesi assaltarono Seminara all’impensata, e presala e saccheggiatala, carichi di preda rifacevano disordinati il cammino per Reggio; come se dietro le spalle non si avessero lasciato alcun nemico. Ma Gervasio intesa questa temerità, divise in tre bande la sua gente; con una delle quali egli medesimo rimase a vigilar Fulcone; coll’altra Corrado andò a corsa per tagliare il passo a’ Messinesi, che ritornavano verso Reggio; colla terza Roberto di Archia si mise a tracciarli, e facevangli ajuto moltissimi Seminaresi, sperando di ricuperar le cose loro predate da’ Messinesi. Nè fallì il tratto di Gervasio; perchè le milizie Messinesi, raggiunte alle terga da Roberto d’Archia sul piano della Corona, e colti di fronte da Corrado di Truichio, furono urtati vigorosamente, e dopo breve battaglia, spezzati e dispersi. Dei quali parte traboccarono uccisi, parte caddero prigionieri; e quanti fuggendo dalla tenzone credettero esser salvi, furono la più parte ammazzati da’ villani per i boschi e lungo le vie; nè tornarono alle case loro che pochissimi. Così gli abitanti di Seminara racquistavano gran parte di quanto era stato loro involato.

III. Questa rotta imprevista fiaccò di maniera i Messinesi, che senz’altro ostacolo cessero Calanna a’ nemici. Alla qual cessione seguì non guari dopo, come per necessaria conseguenza, quella di Reggio. Veniva intanto in Calabria Federigo Lancia, zio di Manfredi per general Capitano, ed aveva il carico di aggiustarvi le cose, e di far passaggio in Sicilia; dove non ubbidendosi ad alcun principe, ogni cosa era travolta nello scompiglio, nelle prepotenze, e nelle guerre civili. Tutta la Calabria stava già sotto Manfredi (1256), fuor solamente Santa Cristina e Motta Bovalina, che Fulcone Ruffo continuava a tenere con gran core e pertinacia. Il Lancia adunque pose un vigoroso assedio alle dette terre, ed intanto maneggiava che molti suoi confidenti si spandessero per la Sicilia, e facessero che questa regione, la quale già sordamente si commoveva a pro di Manfredi, si disponesse a riconoscerlo a faccia scoperta. Ed in effetto non po[p. 167 modifica]che città di Sicilia cominciarono a mettersi in umore, e gli aderenti di Manfredi a levar il capo, ed aprirsi. Fulcone Ruffo però non finiva di resistere agli assalti che con ogni fatta di armi e di macchine davano i nemici alle sue castella. Nè si diede per vinto se non quando ebbe veduto, che voltesi favorevoli a Manfredi le cose dell’isola, anche Messina si era piegata alla prevalente fortuna dello Svevo.

Così Reggio e tutta la Calabria tornava a pacificarsi sotto la potestà di Manfredi (1258): e mentre queste cose ivi si compivano, anche Napoli apriva a questo principe le sue porte. Onde costui credette aggiustato il tempo di condursi nell’isola, dove dando ad intendere che Corradino fosse morto in Alemagna, si appropriò il titolo di Re di Sicilia; facendosene, com’era usanza, coronar nel duomo di Palermo.

IV. Ma in quel che Manfredi Re si avviava per la Puglia, gli venne imbasciata dal Duca di Baviera che Corradino, tutto sano e pieno di vita, si proponeva di vendicarsi il possesso de’ suoi Stati in Sicilia. A tale imbasciata fu replicato che il Regno, sottratto dalle mani del papa per forza d’armi, non sarebbe ceduto a Corradino che dopo la morte di Manfredi (1264). Papa Urbano IV intanto, accorgendosi che non poteva abbatter Manfredi colle sole sue forze, poichè la costui potenza andava ogni dì crescendo, si volse a cercar sussidii stranieri. E con tutta segretezza confortò Carlo Conte di Angiò, fratello di Giovanni II Re di Francia, alla conquista del Regno. Nè Carlo si negò, com’era naturale, a sì lusinghevole invito; ed ebbe in Roma dal Papa la corona e l’investitura della monarchia di Sicilia e di Puglia. Entrò allora nel regno con grosso esercito, e dopo varii fatti d’armi che non si attengono alla nostra narrazione, fu così favorito dalla fortuna, che presosi a fierissima battaglia con re Manfredi presso Benevento, cacciò in piena rotta gli Svevi. E quantunque Manfredi si fosse scagliato coraggioso tra le prime file de’ combattenti per metter animo a’ suoi che già erano in piega, non potè far tanto che non fossero tagliati e disfatti. Ed egli medesimo, senza che altri il conoscesse, cadde morto in mezzo a’ nemici (1266).

V. Uscito Carlo vittorioso di tanta giornata, andò diritto per Napoli; ed i Napolitani, che testè si chiamavano ancora contentissimi delia signoria di Manfredi, ora accorrevano in festa verso il nuovo Sovrano, fuori della città; e Francesco di Loffredo in nome dell’Università de’ cittadini gliene presentava le chiavi. Carlo si prese l’ambito dono con labbra alteramente sorridenti, ed entrò la città sopra un cocchio tirato da quattro bianchi cavalli. Napoli sotto di lui divenne la metropoli della monarchia. Ed il popolo, che sem[p. 168 modifica]pre aspetta miracoli da un governo nuovo, si andava persuadendo che dal dominio dell’Angioino non solo gli sarebbe venuta piena libertà di vivere a sua posta, ma di esser anche fatto immune di ogni gravezza fiscale e de’ balzelli. Ma presto l’illusione svanì: presto seppe il popolo che il francese Carlo non vedeva più in là che i suoi francesi, i quali correndo il reame da affamati predoni, facevano scempio insopportabile delle pubbliche e private sostanze. Non diminuite le imposte, ma cresciute due tanti; aggiunti nuovi aggravii a’ vecchi; asprissimo il nuovo governo; Carlo in odio a tutti. Non era persona che non riandasse i tempi di Manfredi. Quello essere stato principe generoso, dicevano; quello principe umano e desideratissimo. Ciò che prima era paruto pessimo, ora era ottimo; quel nuovo che si aspettava a braccia aperte, e si accoglieva con tanto tripudio, ora era pessimo. Da’ lamenti si trascorse a’ fatti; Corradino fu invitato, venisse dall’Alemagna a ritogliersi la sua eredità; venisse, e sarebbe il ben venuto in mezzo alla gioja comune. E Corradino veniva (1269), ma era rotto da Carlo nella battaglia di Tagliacozzo, e fatto prigioniero. In un attimo tante belle speranze e la sua testa cadevano recise sul Mercato di Napoli.

Non possono dirsi a mezzo le crudeli stragi seguite alla clamorosa vittoria. Quelle improvvide città, cui la venuta di Corradino aveva scoperte favorevoli a questo principe sventurato, furono messe all’ultimo esizio da’ Francesi. Aversa fu rasa; fu rasa Potenza. Desolazioni, rovine ed incendii segnavano per ogni dove i passi della gente straniera. Nè minore strazio fecero i Francesi della Sicilia. Carlo ridusse i Siciliani ad una servitù senza esempio, gravandoli di nuovi tributi; di molti loro privilegi spogliandoli. I Francesi insolenti non solo mettevano mano agli averi; ma, ciò che fa viva ed immortale impressione in un popolo, insidiavano con bestial libidine e violenza all’onore delle più nobili ed oneste giovinette isolane.

Cade qui il destro di osservare che a questi tempi le armi da taglio, che prima erano tanto adoperate in Italia, cominciarono a disusarsi; e s’introdussero in lor vece quelle da punta, o sia gli stocchi ed altrettali, de’ quali valevansi i Francesi condotti da Carlo d’Angiò. Essendo i guerrieri di quell’età tutti vestili di ferro, poco danno facevano loro le sciabolate; ma quando alzavano il braccio per ferire, il Francese incarnava all’avversario una stoccata sotto l’ascella, e così le più volte il metteva fuori di combattimento.

Per l’oppressione de’ Francesi nacque ne’ Siciliani l’intenso desiderio di levarsi dal collo il giogo dell’angioino Carlo (1282). Non mancava all’effetto che una favorevole occasione; e fu presta. La [p. 169 modifica]privata ingiuria fatta a Giovanni da Procida, uomo di libero animo, fu favilla al generale incendio, che dicono Vespro Siciliano. In pochi dì la Sicilia era perduta per Carlo (1282); e Giovanni da Procida, il quale non pativa che l’isola traboccasse nelle mani di ambiziosi e sfrenati demagoghi, e si arrovellasse nelle rabbie intestine, fu autore che fosse alzato in Re di Sicilia Pietro di Aragona, che si era maritato a Costanza, figliuola di Manfredi.

VI. Carlo come subito seppe i gravi casi di Sicilia, e che Pietro d’Aragona era già sbarcato in Palermo, ne rimase così stordito che più non vedeva sè medesimo, e si divorava di stizza. Tutte le principali città di Sicilia avevano fatto eco al moto di Palermo; ma Messina, quantunque gli umori fossero cominciati a bollirvi, tenevasi tuttavia nella fede dell’Angioino. Carlo però, prevedendo quel che sarebbe seguito di quella città così importante, cercò di porvi riparo, per non farla cadere nelle mani dell’Aragonese. Per la qual cosa ordinò che tutte quelle milizie, che stavano per essere spedite contro Michele Paleologo Imperatore d’Oriente, tostamente avviandosi per terra si riunissero in Reggio. Egli intanto coll’armata avrebbele raggiunte per mare. Ma pigliato porto in Reggio con quella maggior prestezza che fu possibile, conobbe che Messina, seguendo le altre città, si era gittata a re Pietro. A Carlo sudarono i capelli; corse coll’armata in Sicilia, e sbarcato accosto a Messina, prese le colline che si digradano al castello di Mattagrifone dalla parte di Taormina. E devastatone il territorio, si mise a campeggiar la città; alla cui difesa stava Alaimo da Lentini succeduto a Baldovino Mussone, che non volendo riconoscer la nuova signoria, si era dimesso del suo uffizio. Intanto che Messina era strettamente assediata, Arechino de Mari Ammiraglio di Carlo con una parte dell’armata perlustrava le acque dello Stretto per vegliare il litorale, e codiare il nemico. L’assedio di Messina durava già un pezzo di sei mesi, e cominciavano que’ cittadini ad aver urgente bisogno di ajuti. Nè questi mancarono; che re Pietro spedì loro da Palermo Nicolò Palizzi ed Andrea da Procida con un fiore di cinquecento esperti saettieri (1282), ed in un medesimo ingiunse al suo Ammiraglio Ruggiero Lauria, che senza punto d’indugio conducesse l’armata nello Stretto, ed opponendola a quella di Carlo, sforzassesi di liberar quel mare della presenza de’ navigli nemici.

VII. Ma in questo maneggio di cose il verno costringeva Carlo a togliersi dall’assedio di Messina, e ritirarsi a Reggio a passarvi quella stagione. Ed aveva già travalicato più assai che mezzo lo Stretto quando venutagli alle reni l’armata aragonese, gli aggraffò trenta [p. 170 modifica]navi ed altri legni minori a vista della nostra città. Dopo di che re Pietro ordinò che una parte delle sue più scelte galee, comandate dal suo figliuolo Giacomo Grand’Ammiraglio, si appostassero sulle coste di Sicilia in luogo designato, e dessero occhio alle mosse dell’armata angioina. In effetto ivi a cinque giorni si videro scioglier da Reggio quarantasette navi di re Carlo, ed altri legni a remo, che allargandosi per otto miglia di là dal Faro, navigavano alla volta di Napoli. Ma calatosi il vento, non potettero far cammino, e si ripiegarono alla terra. Osservato ciò attentamente, le navi aragonesi a forza di remi si approssimarono alle nemiche un due miglia, e si ordinarono a giornata. E gli Angioini accettandola, si prepararono a pagar di contanti la sfida. Dell’armata di Carlo le galee francesi stavano a mezzodì, le regnicole (a cui congiungevansi alcune navi pisane) erano situate più verso terra; e con grandi schiamazzi si dimostravano impazienti di venire alle prese. Aggiustato il tempo, gli Aragonesi slanciaronsi con gran furia contro le galee pisane, e con tal vigore le investirono, che ne predarono due con molta uccisione di gente. Le francesi, che stavano mal ordinate ed erano molto cariche, temendo l’urto delle nemiche se ne scostarono, ed ammainate la vele diedero sollecitamente de’ remi per la volta di Reggio. Le regnicole, sottraendosi similmente alla battaglia, piegarono verso la marina di Nicotera; ma gli Aragonesi non lasciarono di caricarle, e giuntele, ne aggrancirono venti. Della qual preda lieti quanto può dirsi, fecero ritorno a Messina, menando con esso loro i prigionieri più ragguardevoli, e gli stendardi francesi. Era di ben quattromila la somma de’ prigionieri; ma Pietro ritenendo solamente i capitani ed altre persone più segnalate, ordinò che tutti gli altri montassero sopra due navi, ed andassero liberamente a posta loro.

Giacomo d’Aragona altero di questa vittoria, e cupido di proseguirne la buona fortuna, volle allora contro gli ordini paterni mettersi all’assalto di Reggio, ov’era la temporanea sede di re Carlo. Ma ne fu ributtato con la morte di molti Almogaveri. Da questo scorso di Giacomo venne tanta ira all’animo di Pietro, che sulle prime poco men che non mozzò la testa al figliuolo; ma poi contenutosi, si limitò a levargli l’uffizio di Grande Ammiraglio, e lo diede al calabrese Ruggiero Lauria. Avendo, ora fa, nominato gli Almogaveri, ed accadendoci di doverli ricordar più che una volta, diciamo che questa fatta di gente erano montanari di Spagna, assuefatti a guerreggiare co’ Mori più colla desterità, e con sofferenza incredibile di fame e di sete, che con armi. Perciocchè andavano [p. 171 modifica]male armati, vestiti di pelli, e combattevano più con la velocità e la bravura, straccando e tormentando i nemici, che colla forza e cogli ordinati argomenti della guerra.

VIII. Carlo stando in Reggio, e vedendosi così balestrato dalla fortuna avversa, conosceva che l’aragonese era mollo più di lui poderoso sul mare; non per copia di navi, ma perchè i Catalani e gli Aragonesi assai meglio che i Francesi ed i Napolitani erano provati e destri alle pugne navali. Accorgevasi dunque non poter niente operare in Sicilia sino a che una forte armata aragonese gliene impossibilitava il tragitto. Confidato adunque nel suo personal valore ed in quello de’ suoi Baroni, deliberò di sfidare re Pietro, o a tu per tu, o con quella scorta di cavalieri che gli fosse più a grado. Laonde da Reggio inviò a Pietro in Messina un Fra Simone da Lentini, o come altri vuole, due suoi cappellani vestiti da frati. Ai quali commise che, giunti alla presenza del suo competitore, gli esponessero dignitosamente l’ambasciata reale. La quale suonava in sostanza che Pietro ingiustamente aveva occupata la Sicilia; che quest’isola apparteneva alla Chiesa, dalla quale era stata ceduta a re Carlo per investitura del Pontefice; che quindi il possesso di Pietro era illegale e violento; e che re Carlo, per provarglielo, intendeva sfidarlo a singolar tenzone. Ma Pietro, considerando quella non essere imbasciata da frati, li congedò così di bello senza alcuna risposta; e nel giorno medesimo fece andare a Reggio il Visconte di Castelnuovo, e Pietro di Cheraldo, affinchè dopo di essersi chiariti che veramente quella disfida venisse da Carlo, potessero rispondere nella forma che più conveniva a persone di alto grado e di onore. Si appresentarono costoro a Carlo; e seppero che la cosa stava come i due frati l’avevano riferita.

Allora gli ambasciatori dissero a Carlo in nome di Pietro, che questi lo mentiva per la gola, e ch’era presto a sostenerglielo come più gli piacesse. Carlo elesse la pugna di cento contro cento, stabilendo che dalle due parti fossero nominate persone che facessero accordo del luogo e del tempo, in che tal combattimento avrebbe dovuto effettuarsi. Per trattar la cosa re Pietro mandò a Reggio Giovanni di Cannella, e Rinaldo de Limoges; ed i due re si diedero la posta in Francia nella città di Bordò. Ma questa pugna non ebbe poi sfogo per molte circostanze che non sono materia della storia nostra.

IX. Dopo tale appuntamento re Carlo (1283), distribuite le sue truppe in parecchie città di Calabria e lasciatone il maggior nerbo tra Reggio e la Catona, fece Luogotenente in queste contrade il suo [p. 172 modifica]figliuolo Carlo Principe di Salerno, e poscia prese il cammino per Roma. Di quella parte di esercito angioino, che stava alloggiato alla Catona, aveva la condotta il Conte di Alansone nipote di re Carlo. E come quella riviera di Calabria è assai propinqua a Messina, venne voglia agli Almogaveri di ricercare re Pietro del permesso di far passata in Catona, ed operar qualche fazione contro il campo nemico. Pietro non trovò motivo di negarsi al proponimento de’ suoi, e cinquemila Almogaveri sopra quindici galee mossero nel colmo della notte verso Catona, ed allo scocco dell’alba assalirono di viva forza quella terra; e la presero, mettendo ad uccisione la maggior parte de’ nemici: fra i quali erano cinquecento cavalli francesi stipendiati dal Pontefice. Appresso corsero al palagio, dove albergava il Conte d’Alansone; e tuttochè questo fosse pertinacemente difeso da molti gagliardi cavalieri che vi si erano ricoverati, e da quella gente che vi stava a guardia, nondimeno gli Almogaveri, tratti dal solletico delle grasse spoglie che sapevano esservi dentro, fecero tal furia che ne mandarono in terra le porte. E preso il Conte, crudelmente l’uccisero con quanti eran con lui, e nella stessa giornata, ricchi di preda, fecero ritorno in Messina. In quel mezzo Federigo Mosca Conte di Modica, che stava alla Scaletta con molte schiere di armati, spiccava in Calabria altri cinquemila Almogaveri, i quali si gittavano al guasto ed alla preda nelle vicinanze meridionali di Reggio.