Storie fiorentine dal 1378 al 1509/I

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Storie fiorentine dal 1378 al 1509 II


SOMMARIO DELLA STORIA FIORENTINA
DAL TUMULTO DEI CIOMPI
ALLA MORTE DI COSIMO IL VECCHIO (ANNI 1378-1464)


Nel 1378 sendo gonfaloniere di giustizia Luigi di messer Piero Guicciardini successe la novità de’ Ciompi, di che furno autori gli otto della guerra, e’ quali per essere stati raffermati piú volte in magistrato, s’avevano recata adosso grande invidia e grande contradizione da’ cittadini potenti, e per questo si erano rivolti a’ favori della moltitudine; e però procurorono questo tumulto, non perché e’ Ciompi avessino a essere signori della città ma acciò che col mezzo di quegli, sbattuti e’ potenti ed inimici sua loro rimanessino padroni del governo. Il che fu per non riuscire perché e’ Ciompi, preso lo stato e creato e’ magistrati a loro modo e non a arbitrio degli otto, volevano potere tumultuare ogni dí la città, e non arebbono gli otto potuto ritenergli; se non che Michele di Lando’ uno de’ Ciompi ed allora gonfaloniere di giustizia, vedendo che questi modi partorivano una inevitabile ruina della città, accordatosi cogli otto e cogli aderenti loro, fu cagione di tôrre lo stato a’ Ciompi; e cosí el bene e la salute della città nacque di luogo che nessuno l’arebbe mai stimato. Rimase el governo piú tosto in uomini plebei e nella moltitudine che in nobili, e fecionsene capi messer Giorgio Scali e messer Tommaso Strozzi e’ quali con questo favore popolare governorono tre anni la città, e feciono in quel tempo molte cose brutte e massime quando senza alcuna colpa, ma solo per levarsi dinanzi gli avversari loro, tagliorono el capo a Piero di Filippo degli Albizzi che soleva essere el piú riputato cittadino di Firenze, a messer Donato Barbadori ed a molti altri innocenti; ed in ultimo, come è usanza, non potendo essere piú soportati, ed abandonati dal popolo, a messer Giorgio fu tagliato el capo; messer Tommaso campò la vita col fuggirsi ed ebbe bando in perpetuo lui e suoi discendenti e messer Benedetto degli Alberti, che era uno de’ primi aderenti loro, fu confinato.

Ebbe la città in quegli tempi piú volte molti tumulti, e finalmente con uno parlamento si fermò lo stato nel 93, sendo gonfaloniere di giustizia messer Maso degli Albizzi, el quale in vendetta di Piero suo zio, cacciò di Firenze quasi tutti gli Alberti, e rimase el governo in mano di uomini da bene e savi, e con grandissima unione e sicurtà si continuò insino presso al 1420; e non fa maraviglia, perché gli uomini erano tanti stracchi delle turbulenzie passate, che abattendosi a uno vivere ordinato, tutti volentieri si riposorono. E veramente in quegli tempi si dimostrò quanta fussi la potenzia della città nostra quando era unita, perché soportorono dodici anni la guerra di Giovan Galeazzo con spesa infinita e di eserciti italiani ed esterni, che feciono passare in Italia in diverse volte uno duca di Baviera, uno conte di Ormignacca con quindicimila cavalli, uno imperadore Ruberto; ed a pena sendo usciti di questa guerra, credendosi che la città fussi esausta e per carestia di danari per riposarsi qualche tempo, feciono la impresa di Pisa, nella quale, e nella compera e nella espugnazione, spesono una somma infinita di danari. Ebbono di poi la guerra con Ladislao re di Napoli e difesonsi francamente anzi ne acquistorono Cortona, in ricompenso però di buona somma di danari; comperorono Castrocaro, e finalmente ebbono tanti successi, e nella città che si conservò libera, unita e governata da uomini da bene e buoni e valenti, e fuora, che si difesono da inimici potentissimi ed ampliorono assai lo imperio, che meritamente si dice che quello è stato el piú savio, el piú glorioso, el piú felice governo che mai per alcuno tempo abbi avuto la città nostra.

Dal 1420 poi al 1434 venne la guerra del duca Filippo, e la divisione della città in due parte, d’una di quale era a capo Niccolò da Uzzano, uomo riputato molto savio ed amatore della libertà, dell’altra Giovanni di Bicci de’ Medici e di poi Cosimo suo figliuolo e finalmente doppo molte contese ed agitazione, partorirono nel 1433 che sendo gonfaloniere di giustizia, di settembre, Bernardo Guadagni, la parte di Niccolò da Uzzano, el quale era già morto, avendo una signoria a suo proposito, fece sostenere in palagio Cosimo de’ Medici e di poi lo confinò insieme con Lorenzo suo fratello ed Averardo suo cugino, a Vinegia; ed in capo di pochi mesi eziandio fu preso messer Agnolo Acciaiuoli, ebbe della fune e fu confinato in Grecia. Cacciato Cosimo, rimasono capi del governo messer Rinaldo degli Albizzi, Niccolò Barbadori, Peruzzi, Bischeri, Guadagni, Castellani, Strozzi ed altri simili, ma poco lo seppono tenere, perché el settembre seguente che fu in capo dello anno la signoria che ne fu gonfaloniere Niccolò Cocchi, non però sanza grande tumulto e pericolo rispetto a quella parte che prese le arme, fece parlamento e rimesse Cosimo e cacciò e’ capi della parte avversa. E perché l’una e l’altra rivoluzione, cioè del 33 e del 34, fu fatta dalla signoria che entra di settembre e che si era tratta el dí di san Giovanni dicollato, però fu ordinato che per lo avenire la signoria non si traessi piú in tal dí, ma el dí dinanzi, e cosí si è sempre osservato, eccetto pochi anni a tempo di fra Girolamo. Furono potissima cagione di questa ritornata di Cosimo, Neri di Gino Capponi, Piero di messer Luigi Guicciardini, Luca di messer Maso degli Albizzi ed Alamanno di messer Iacopo Salviati, ma massime vi si operorono Neri e Piero.

Tornato Cosimo e fatto capo del governo e fatta fare una Balía di cittadini, per sicurtà dello stato cacciò di Firenze in grandissimo numero tutti gli avversari sua, che furono molte famiglie nobilissime e ricchissime, ed in luogo di quelle cominciò a tirare su di molti uomini bassi e di vile condizione, e dicesi che sendo Cosimo ammunito da qualcuno che e’ non faceva bene a spegnere tanta nobiltà, e che mancando gli uomini da bene, Firenze rimaneva guasta, rispose che parecchi panni di San Martino riempierebbono Firenze di uomini da bene; volendo inferire che cogli onori e colle ricchezze gli uomini vili diventavano nobili.

Erano allora nella città molte casa nobile che si chiamavano di famiglia, le quali pe’ tempi adrieto, sendo grande e soprafaccendo gli uomini di manco forze, erano state per opera di Giano della Bella private de’ magistrati della città, massime del priorato e de’ collegi, e fatto contra loro molti ordinamenti e legge forte che reprimevano la loro potenzia, e nondimeno era stato riservato loro alcuno uficio, ne’ quali per legge avevono a avere una certa parte, ed oltra ciò nelle legazione e ne’ dieci della Balía avevono buono corso. Con costoro non aveva Cosimo inimicizia particulare, perché loro sendo alienati dello stato, non l’avevono offeso nelle sue avversità, e nondimeno rispetto alla loro maggioranza e superbia non gli amava, né si sarebbe confidato di loro, e però per tôrre loro quella parte de’ magistrati riservata loro dalla legge, e nondimeno in modo che vi avessino a concorrere, fece una provisione, e si disse con consiglio di Puccio Pucci, che quelle tali famiglie che vulgarmente si chiamavano de’ grandi, fussino fatte di popolo; e cosí levò loro le legge che gli opprimevano ed abilitogli a tutti gli onori come gli altri cittadini. Di che nel principio acquistò con loro grado grande, e nondimeno lo effetto fu che non vincevano gli squittini e non erano eletti a’ magistrati; in modo che non solo non acquistorono di quegli ufici a’ quali prima erono inabili, ma vennono anche a perdere quegli che la legge dava loro di necessità.

Legò Cosimo lo stato col fare dare a un numero di cittadini balía per anni cinque, e fece squittini nuovi di tutti e’ magistrati della città drento e di fuori; e nondimeno, per la autorità aveva la balía, e’ signori quasi sempre a suo tempo non si trassono a sorte, ma si eleggevano dagli accopiatori a modo suo; e quando era a tempo de’ cinque anni che durava la balía, faceva prorogare quelle autorità per altri cinque anni.

Ebbe sopratutto cura che nessuno di quegli cittadini che erano stati sue fautori non si facessi sí grande che lui avessi da temerne, e per questo rispetto teneva sempre le mani in sulla signoria ed in sulle gravezze per potere esaltare e deprimere chi gli paressi; nelle altre cose e cittadini avevono piú autorità e disponevano piú a loro modo che non feciono poi a tempo di Lorenzo, e lui dava volentieri loro ogni larghezza pure che fussi bene sicuro dello stato. E parendogli che Neri di Gino avessi piú riputazione e forse piú cervello che alcuno altro cittadino di Firenze, dubitando non pigliassi tanto credito che avessi da temerne lo adoperava piú che alcuno altro in tutte le cose importanti della città drento e fuori, e nondimeno cominciò a dare credito a Luca Pitti, el quale non era valente uomo, ma vivo liberale animoso e piú servente e per gli amici che alcuno altro che fussi a Firenze, e cosí uomo da fargli fare ogni cosa sanza rispetto, e non di tal cervello che gli paressi avere da temerne. Cominciò costui molte volte nelle pratiche, massime quando le cose non erano di molta importanza, quando Neri aveva parlato, a dire tutto el contrario di quello che aveva consigliato Neri, e quivi per ordine di Cosimo erano molti che riprovavano el parere di Neri ed approvavano quello di Luca; di che accorgendosi Neri e vedendo lo stato di Cosimo in modo da non potere alterarlo e che volendo rompere con lui sarebbe come dare del capo nel muro, sendo savissimo, mostrava non vedere ed aveva pazienzia aspettando tempo ed occasione.

Era in quello tempo Baldaccio d’Anghiari capitano di fanterie, uomo di grande animo e valente nel mestiero suo e di grande credito apresso a’ soldati e molto stretto ed intrinseco amico di Neri; di che temendo Cosimo, e volendo levare a Neri questo instrumento attissimo a fare novità aspettando che Neri fussi fuora di Firenze o imbasciadore o commessario, fece che messer Bartolomeo Orlandini gonfaloniere di giustizia mandò per lui in palagio, ed avutolo in camera lo fece subito da gente ordinate quivi per quello, gittare a terra dalle finestre.

Nel tempo che tornò Cosimo era la città collegata co’ viniziani ed i n guerra contro al duca Filippo, la quale si continuò per dodici o quattordici anni, tirandosi eziandio adosso qualche volta la guerra con papa Eugenio e col re Alfonso, delle quali cose perché sono notissime non ne dirò altro; e cosí de’ successi del conte Francesco, e come con favore della città acquistassi el ducato di Milano. Solo dirò questo, che quando e’ viniziani presono la difesa dello stato di Milano contro al conte Francesco, venuto a Firenze in consulta quello si avessi a fare perché ed el conte ed e’ viniziani erano stati amici e collegati della città, la piú parte si accordava che si dovessi conservare la amicizia de’ viniziani e favorirgli contro al conte. A Cosimo parve altrimenti, e mostrò con ragione che era meglio favorire el conte: e cosí si segui. Di che lui ne acquistò Milano e nacquene la salute di Italia; perché se cosí non si faceva e’ viniziani si facevano sanza dubio signori di quello stato e successivamente in breve di tutta Italia; sí che in questo caso la libertà di Firenze e di tutta Italia s’ha a ricognoscere da Cosimo de’ Medici.

Sendo di poi el conte diventato duca di Milano e non avendo fatto pace co’ viniziani, fu el disegno loro tenergli questo cocomero in corpo, giudicando che essendo entrato in uno stato nuovo e spogliato e sanza danari e bisognandogli stare armato, si consumerebbe da se medesimo; di che accorgendosi el duca si risolvé essergli necessario, poi che non poteva avere pace ragionevole da’ viniziani, accozzare tante forze che potessi rompere loro guerra, e cosí per forza recuperare quello avevono occupato doppo la morte del duca Filippo, e ridurgli a’ loro termini. Ed a questo effetto si trovava gente assai, ma gli mancava danari a poterle mettere in ordine, e vedendo non potere sperare nel re Alfonso che gli era inimico, né nel papa che voleva stare neutrale, cercava per fare questi effetti avere sussidio di danari da’ fiorentini.

A Cosimo ed a’ piú savi pareva da farlo, per ovviare a tanta grandezza de’ viniziani, ma bisognando gran somma di danari e vedendo el popolo che si stava in pace e non gustava e’ pericoli futuri, alieno in tutto dallo spendere, non si ardivano mettere innanzi questa pratica, e però scrivevano al duca che chi governava era bene disposto, ma che avessi pazienzia perché non era tempo a parlare di simile materia. E certo se e’ viniziani si fussino portati prudentemente, ed atteso a tenere bene disposta con umanità e buone parole la città, né ricercala di alcuno aiuto, ma contentatisi si stessino a vedere, era facile cosa conducessino a fine e’ loro disegni, dove pel contrario la loro arroganzia e durezza aperse la via a’ favori del duca Francesco. Perché avendo fatta lega col re Alfonso, richiesono la città, a chi riservorono el luogo, ci volessi entrare drento, il che sendo loro negato, e risposto che la Italia era in pace e però non bisognava fare nuove leghe, insuperbiti grandemente cacciorono di tutto el loro dominio e’ mercatanti fiorentini, fatte loro prima molte stranezze, ed operorono che el re Alfonso fece el medesimo. Il che inteso a Firenze deputorono messer Otto Niccolini imbasciadore a Vinegia; e chiedendo salvocondotto per lui, lo negorono, credendo con questi modi che la città o per paura o per voluntà di potere usare el dominio loro conscendessi a ogni cosa. Ma fu tutto el contrario: perché el popolo se ne sdegnò tanto che fu poca fatica a chi governava persuadere loro che fussi bene pensare a difendersi ed a offendere e’ viniziani, e però mandorono al duca Dietisalvi di Nerone, e feciono con lui lega a difesa degli stati servendolo di gran quantità di danari, di che el duca roppe guerra a’ viniziani ed el re Alfonso a noi, con quegli effetti che per essere celebrati in su tutte le istorie non si raccontono.

Questi modi de’ vinizani non so se nacquono da loro, o pure se chi desiderava favorire el duca in Firenze persuase loro per qualche modo destro che la via d’avere aiuto dalla città era questa, per ridurre con tali inconvenienti el popolo a infiammarsi contra loro; e certo se el disegno fussi nato cosí, non potette uscire se non da uomo di gran prudenzia. Quel che si sia, tal cosa può dare esemplo che chi non può assolutamente comandare a’ popoli e sforzargli, gli conduce a ciò che vuole piú tosto colle carezze e modi dolci che colle asprezze; benché altrimenti è in chi può comandare loro e domargli; e questa qualità se è in popolo nessuno, è nel nostro che, come si dimostra ogni dí per mille esempli, quando teme potere essere sforzato di presente si condurrebbe coll’aspro in ogni luogo, ma quando è fuora di questa paura, non si conduce col mostrargli timore minacci o sospetto, ma solo col dolce e colle speranze.

Fatta di poi la pace in Lodi fra ’l duca e fiorentini da una parte, ed e’ viniziani dall’altra, e di poi a Napoli pace e lega universale di tutta Italia, eccetto e’ genovesi e Sigismondo Malatesta signore di Rimino, la città stette molti anni sanza guerra, nondimeno con sospetti di fuora e con movimento drento; le quale cose secondo la mia notizia narrerò piú particularmente, perché da quello tempo in qua non ci è ancora chi abbi scritto istorie.

Doppo la pace fatta, e’ viniziani dettono subito licenzia al conte Iacopo Piccinino loro soldato; e la cagione in verità fu, prima per levarsi da dosso la spesa della condotta sue che era ducati centomila secondo, perché avevano capitoli con Bartolomeo Coglione da Bergamo loro condottiere, che la condotta sua fussi ducati centomila mentre el conte Iacopo era a’ soldi loro, e partito lui si riducessi a ducati sessantamila; terzo, per alleggerire e’ sudditi loro che dove stanziavano le genti del conte Iacopo pativano disagi e danni innumerabili.

A Milano ed a Firenze dispiacque assai questa cosa, dubitando che el conte Iacopo, per essere soldato di riputazione ed a chi facilmente tutti e’ cassi e sviati farebbono capo, non suscitassi qualche movimento in Italia, e forse per ordine occulto de’ viniziani, e cosí si raccendessi la guerra passata, e massime che in quegli dí morí papa Niccola che era stato autore della quiete universale e fu in suo luogo creato Calisto. E però el duca e la città feciono grande instanzia per imbasciadori, che e’ viniziani lo sopratenessino almeno tanto tempo che le cose di Italia fussino un poco piú assodate. Non vollono e’ viniziani farne nulla; e però partitosi de’ terreni loro, stando Italia sospesa di quello avessi a fare, roppe guerra a’ sanesi sotto pretesto di conti vecchi avevano col padre Niccolò Piccinino; ma risentendosene e’ signori della lega e massime el papa ed el duca Francesco che mandorono gran numero di gente in soccorso de’ sanesi, fu tanto stretto che per non avere luogo dove ridursi era necessario si spacciassi; se non che el re Alfonso, mandatogli alcune galee, lo ridusse salvo con le sue gente nel reame, di che si vedde che quel che aveva fatto era stato di consentimento del re, el quale era inquietissimo e non poteva vivere in pace. Seguitò poi che el re roppe guerra a’ genovesi e mandò, credo, el conte Iacopo in Romagna a’ danni de’ Malatesti che a sua contemplazione erano fuori della lega universale.

Ne’ quali tempi trovandosi ancora e’ sanesi in molta disunione e faccendosi ogni dí fuorusciti, la città stava in gran sospetto e paura del re, che ancora teneva le mani ne’ casi di Piombino, dubitando che se acquistava la oportunità di alcuno di quegli luoghi, sendo naturalmente tanto ambizioso ed inquieto, questa vicinità non mettessi la città in qualche grave pericolo. Aggiugnevasi che nella città era disunione grande e molti malcontenti e cupidi di cose nuove; di che el governo presente non era gagliardo come soleva, anzi pareva indebolito, e però e’ cittadini dello stato si risolvevano, per ovviare a’ pericoli e sicurare lo stato, che come avessino uno gonfaloniere di giustizia a loro proposito, fussi da purgare la città di umori cattivi. A Cosimo non pareva, ed ancora Neri, che poco poi morí, era di medesima opinione, giudicando forse che rispetto agli andamenti del re ed e’ sospetti di fuora, non fussi bene accrescere travagli alla città. E stando le cose in questi termini, nel 1457 el re, che era tutto vòlto alla espugnazione di Genova, si morí, lasciato el regno a don Ferrando suo unico figliuolo non legittimo, di che posati e’ tumulti e pericoli di fuora, Cosimo si risentí e volse lo animo a assicurare lo stato; e però sendo nel 58 gonfaloniere di giustizia Luca Pitti, sonorono a parlamento, e ristretta la autorità ed el governo della città a loro proposito e riformato el reggimento, confinorono ed ammunirono un numero grande di cittadini, in modo che Cosimo e gli aderenti sua rimasono al tutto e sicuramente padroni del governo; e Luca Pitti, che fu poi fatto cavaliere dal popolo, ne acquistò tale riputazione e credito, che doppo Cosimo era assolutamente el primo cittadino di Firenze.

Morí nel medesimo anno 1458 papa Calisto, e fu eletto in suo luogo papa Pio, chiamato prima Enea de’ Piccuolomini da Siena, el quale confermò nel regno di Napoli don Ferrando e fece parentado con lui, conciosiaché el re per ottenere le bolle del reame dette una sua figliuola non legittima per moglie a uno nipote del papa, e per dote el ducato di Malfi. Ma poco poi Giovanni d’Angiò chiamato duca di Calavria, e figliuolo del re Rinieri, pretendendo per le antiche differenzie fra gli angioini e ragonesi el reame spettare a lui, partitosi da Genova dove era a governo pel re di Francia, con una grossa armata venne nel reame, dove aveva intelligenzia col duca di Sessa cognato del re Ferrando, col principe di Taranto e con molti altri signori e baroni del regno, di che seguitò molte ribellioni contro al re, e poco di poi el conte Iacopo che era per lui in Romagna, avendo cattivi pagamenti, s’accordò co’ franzesi con grandi partiti e vantaggi, e passò nel reame a’ favori loro. Di che el re vedendosi oppresso, ricorse a dimandare aiuto a’ potentati di Italia, pretendendo che per la lega fatta a Napoli e’ fussino obligati; da altra parte e’ franzesi facevono grande instanzia che el duca Giovanni fussi favorito; el papa ed el duca Francesco dettono aiuto al re Ferrando; e’ viniziani stettono neutrali. Cosí parve a Cosimo ed a’ piú savi che la città dovessi starsi a vedere, e tenere e’ panni a chi voleva annegarsi, e non mettere pe’ casi di altri lo stato suo a pericolo; e massime che per avere el re Alfonso dato nel 54 aiuto al conte Iacopo quando fece impresa contro a’ sanesi, si poteva largamente dire avessi contrafatto alla lega, e cosí essere finiti li oblighi avevono gli altri per vigore della lega seco.

Lo effetto di questa guerra fu che avendo avuto el re Ferrando una gran rotta al Sarno colla morte di Simonetto suo primo condottiere, si fece giudicio avessi in brieve a perdere lo stato, e cosí era sanza riparo, se dalla parte del duca Giovanni si fussi con prestezza usata la vittoria. Ma e’ principi del reame che erano seco o per fraude per mantenere piú la guerra, o per la buona sorte dei re don Ferrando, che non gli lasciò cognoscere le occasione, furono tanto lenti che ebbe tempo a ripigliare le forze e, sopravenendo aiuti da Roma e da Milano, farsi di nuovo forte alla campagna. E finalmente feciono una altra volta fatti d’arme, dove el duca di Calavria fu rotto, ed el re seguitò in modo la vittoria che fu constretto lasciare el reame ed e’ principi amici suoi in preda, e’ quali in breve tempo si accordorono col re el meglio potettono, ed el conte Iacopo si patteggiò uscire del reame per mezzo del duca di Milano, ed andonne a Milano a consumare el matrimonio con madonna Drusiana sua donna, che era figliuola bastarda del duca Francesco.

Morí circa a detto tempo, cioè nell’anno 146[4], Cosimo de’ Medici, che era stato molti anni in casa amalato di gotte e nondimeno non aveva mai intermesso el governare la città. Lasciò alla morte non gli fussino fatte esequie suntuose, e cosí si seguí, ma furongli dati tutti quegli onori che può una città libera dare a uno suo cittadino, ed intra gli altri fu per publico decreto chiamato padre della patria. Fu tenuto uomo prudentissimo, fu ricchissimo piú che alcuno privato, di chi s’avessi notizia in quella età, fu liberalissimo, massime nello edificare non da cittadino, ma da re. Edificò la casa loro di Firenze, San Lorenzo, la Badia di Fiesole, el convento di San Marco, Careggio, fuori della patria sua in molti luoghi, eziandio in Ierusalem, ed erano gli edifici sua non solo ricchissimi e di grande spesa, ma fatti ancora con somma intelligenzia; e per lo stato grande, ché fu circa a trenta anni capo della città, per la prudenzia, per la ricchezza e per la magnificenzia ebbe tanta riputazione, che forse dalla declinazione di Roma insino a’ tempi sua nessuno cittadino privato n’aveva avuta mai tanta. E in tutte queste cose viveva in casa come privato e civilmente, tenendo conto ancora delle possessione, che n’aveva infinite, e delle mercatantíe, nelle quali ebbe tanto successo, che non fu uomo che si impacciassi seco, o come compagno o come governatore, che non ne arricchissi.