Sull'Atlante/15. Una notte terribile

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15. Una notte terribile

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14. Al bled 16. Assediati dalle belve

15.

UNA NOTTE TERRIBILE


Cinque minuti dopo, i tre legionari ed i mori se ne stavano seduti intorno ad alcune provviste ed a un vaso d'acqua fresca che l'infaticabile toscano, ormai completamente rimesso in gambe, era andato a prendere alla fonte.

Pur mangiando discorrevano raccontandosi a vicenda le loro avventure. Fu per tutti un vero colpo nell'apprendere da Ribot che il maresciallo non era morto, e che anzi si proponeva di mettersi alla testa degli spahis.

Afza era balzata in piedi con una mossa da leonessa esclamando:

— Non l'ho ucciso!

— No, Raggio dell'Atlante — rispose Ribot.

— Eppure il colpo l'ho vibrato con mano sicura.

— Il maresciallo è robusto come un toro, e ci voleva il braccio del conte e non il tuo, per spedirlo all'altro mondo.

— E va migliorando? — chiese il conte, il quale si era appoggiato contro un cumulo di rottami reggendosi il capo con una mano.

— E con una rapidità che stupisce perfino il medico — rispose il sergente.

— Ed ha giurato di prenderci?

— Fra un paio di settimane lo avrete alle calcagna e non vi lascerà più nemmeno se vi rifugerete nel grande deserto. Io so quanto è ostinato quell'uomo, e poi è innamorato pazzo del Raggio dell'Atlante e la vuole a qualunque costo.

— Miserabile! Bisognerà che prima mi uccida e non sarà cosa facile — disse l'ungherese. — Prima che egli si metta in caccia, anch'io sarò guarito, e allora ci troverà fra le boscaglie della montagna.

— Ed io cercherò di pugnalarlo una seconda volta — disse Afza con voce energica. — Quel cane non mi fa paura.

— È un vero cane rabbioso quell'uomo — disse Enrico. — Gli occhi del Raggio dell'Atlante lo hanno accecato. Guardiamoci da lui.

— La situazione è gravissima — disse il moro, che fino allora non aveva aperto bocca. — Che cosa faremo noi? Come raggiungeremo le montagne dell'Atlante ora che non abbiamo più i nostri mahari?

— A voi la risposta, Ribot — disse il conte volgendosi verso il sergente che stava caricando la sua corta pipa con studiata lentezza, come se cercasse di nascondere le sue preoccupazioni.

— Hai capito, camerata? — chiese Enrico vedendo che Ribot non si decideva a rispondere. — Sei tu l'uomo che deve tagliare la testa al toro.

— Taglierei volentieri anche quella del maresciallo, io — rispose finalmente il sergente. — Se non si trattasse dei miei galloni, diserterei con armi e bagaglio, e mi unirei a voi per aiutarvi meglio a far fronte agli spahis. Penso però che io potrò rendere a voi più preziosi servigi, tenendomi vicino anziché lontano dal bled.

— Avete ragione, Ribot, poiché voi potrete in qualche modo informarci sempre delle mosse degli spahis.

— È quello che avevo pensato, conte, — rispose il sergente — e se mi sono deciso di mettermi in campagna è stato collo scopo di esservi in qualche modo utile, poiché mi ero immaginato che in così breve tempo non avreste potuto raggiungere i Cabili dell'Atlante. Solamente fra quegli indomiti guerrieri o fra i Senussi voi vi potrete considerare, almeno fino ad un certo punto, se non salvi, almeno sicuri.

— Raggiungere l'Atlante a piedi sarà un po' difficile, — disse Hassi, — specialmente ora che il conte è ferito e che gli spahis battono le linee del sud.

— Non vi consiglio di lasciare per ora la cuba — rispose Ribot. — Il sepolcreto del santone sarà sempre per voi un rifugio ben più sicuro d'una tenda. E poi io ho la mia idea.

— Quale? — chiese il toscano.

— Di far correre Bassot, ed arrabbiare il maresciallo.

— Sei un bravo camerata se li fai scoppiare a colpi di bile.

— Cercherò innanzi tutto di condurre Bassot ben lontano, affinchè vi lasci libero un varco sufficiente per passare e raggiungere i primi villaggi cabili dove vi potrete provvedere, se non di mahari, almeno di cavalli.

— Per la morte di tutte le sogliole del Mediterraneo! — esclamò l'avvocato bocciato. — Se riesco ad uscire vivo da questo inferno che si chiama l'Algeria e ritornare a Livorno, ti giuro, camerata, che farò aprire una sottoscrizione su tutti i giornali per raccogliere i fondi necessari...

— Per regalarmi una pipa? — chiese Ribot ridendo.

— No, una sciabola d'onore.

— Non sono un ufficiale.

— Bestia che sono! Una daga volevo dire.

— Hum! Temo di doverla aspettare finché avrò novant'anni, se pur giungerò ad un'età così avanzata.

— Concludiamo — disse il conte che impallidiva a vista d'occhio, come se da un momento all'altro dovesse perdere i sensi.

— È subito concluso — rispose Ribot. — Voi rimarrete qui finché non verrò a dirvi che la via è libera, e che potrete riprendere il viaggio. Qualunque cosa succeda non lasciate questo rifugio che potrebbe salvarvi un'altra volta se Bassot ed i suoi spahis risalissero verso il settentrione. Hai capito, Hassi-el-Biac?

— Sì, frangi — rispose il moro.

— Avete dei viveri per alcuni giorni?

— Non scarseggiamo. Per qualche settimana e più, il pranzo e la cena saranno sempre assicurati.

— E la fonte è vicina, — disse Ribot — quindi potete attendere il mio ritorno. Parto, amici: ho perduto già troppo tempo e non mi sarà facile trovare quel briccone di Bassot ed i suoi segugi.

Con un fischio chiamò il cavallo, strinse la mano a tutti, balzò in sella e si allontanò al galoppo dirigendosi verso il sud.

— Ecco l'angelo del bled — disse il toscano il quale seguiva cogli sguardi il cavaliere. — Senza quell'uomo, chi sa quanti poveri disciplinari sarebbero tratti dinanzi al Consiglio di guerra e fucilati senza misericordia. Fortunatamente è stato più lesto dei superiori e li ha fatti scappare a tempo.

— Come stai, figlio mio? — chiese Hassi al conte, il quale si era appoggiato interamente alle macerie della cuba come se le forze l'avessero completamente abbandonato.

— Devo aver perduto molto sangue, — rispose l'ungherese, — poiché mi sento estremamente debole.

— Vi era una larga pozza giù nel sepolcreto — disse il toscano.

— Ti improvviseremo qui un letto coi tappeti — riprese Hassi-el-Biac. — Finché nessun pericolo ci minaccia, noi rimarremo qui, perché là dentro si soffoca. Muley, tu devi avere delle tele, nel tuo magazzino.

— Ho due tende che mi sono state regalate da un capo carovana. Non saranno in ottimo stato, però basteranno per ripararci dal sole.

— Allora aiutatemi e tu, Afza, veglia sul tuo signore e dagli da bere quando te ne domanderà. La febbre non tarderà a sorprenderlo.

I quattro uomini scesero nel sotterraneo e raccolsero quanti tappeti poterono trovare, poi si caricarono delle tele e dei bastoni per innalzare la tenda al posto della cupola della cuba.

Fu improvvisato un letto abbastanza soffice, ed il conte vi fu deposto.

Afza si era inginocchiata presso il ferito, e piangeva silenziosamente.

Hassi-el-Biac, aiutato da Ani e dal toscano, poiché Muley non poteva essere di nessuna utilità colla mano destra così atrocemente mutilata dal feroce sergente, in meno di mezz'ora rizzarono la tenda, badando di tenere i margini molto rialzati, perché l'aria potesse circolarvi più liberamente.

— Giacché il conte si è assopito, e pel momento nulla abbiamo da temere, possiamo anche noi schiacciare un sonnellino. Tutti ne abbiamo estremo bisogno.

Non avendo più tappeti disponibili raccolsero dell'erba secca la quale abbondava nelle vicinanze della cuba e si prepararono dei giacigli abbastanza comodi.

Dopo d'aver dato uno sguardo alla grande pianura che cominciava ad illuminarsi, spuntando in quel momento il sole, e convintisi ch'era perfettamente deserta, si cacciarono sotto la tenda e non tardarono a russare.

Stanchi per tante notti insonni, non si svegliarono che a pomeriggio inoltrato, e, come sempre, fu primo il toscano a sbadigliar come un orso.

— Corpo di centomila sogliole! — esclamò, balzando in piedi e precipitandosi fuori dalla tenda. — Pare che si dorma bene nelle pianure algerine. Sono già le quattro!

Salì sulle rovine della cuba, e spinse lontano gli sguardi.

Nessun essere vivente appariva fra gli sterpi ed i terreni sabbiosi bruciati dal sole africano. Un grande silenzio regnava sull'immensa pianura.

— Gli spahis saranno ancora ben lontani, — mormorò il toscano — e poi se Ribot li conduce chi sa dove, smetteranno di cercarci. Ma che puzzo vi è qui? Si direbbe che nei dintorni si trova un macello... Ah! Sono i nostri mahari che imputridiscono. Quell'ammasso di carne potrà costituire per noi un gravissimo pericolo.

Rientrò sotto la tenda e svegliò i compagni. Il conte pareva che si trovasse un po' meglio dopo quel lungo riposo, però la febbre non lo aveva ancora lasciato.

— Signori miei, — disse l'ex avvocato bocciato colla sua solita comica gravità — noi abbiamo dormito come ghiri ed abbiamo economizzato il pranzo. Io spero che Ani ci preparerà doppia cena. Peccato che non si possa avere un bel pezzo d'arrosto. Il kuskussù ed i datteri finiscono per annoiare.

— La selvaggina è rara nella bassa pianura — rispose Hassi. — Abbi pazienza, finché avremo raggiunto le falde dell'Atlante. Là non ti lamenterai della scarsità degli arrosti.

— E quando arriveremo in quel paradiso terrestre, babbo moro?

— Un giorno, se gli spahis non ci cattureranno, noi giungeremo — rispose Hassi.

— Un giorno! Va' a cercare quale sarà — borbottò il toscano. — Questi africani non hanno alcuna nozione del tempo. Giungere in un luogo domani o fra sei mesi per loro fa lo stesso. Che gente!

Ani, aiutato da Afza e anche da Muley, il quale poteva servirsi benissimo della mano sinistra, aveva intanto preparata la cena, manipolando un kuskussù che sapeva più che altro di fumo, ma che nondimeno fu divorato, mercé l'aiuto d'una vecchia bottiglia di Bordeaux, trovata fra le provviste di Hassi.

Il conte, quantunque sempre febbricitante, aveva fatto abbastanza onore alla magra cena, forse per riguardo ad Afza, la quale aveva preso parte a prepararla.

Avevano appena terminato, quando il toscano disse ad Ani:

— Ehi, papà carbone, porta quassù delle armi ed anche un barile di polvere. Fra qualche ora il sole se ne andrà a passeggiare attraverso le Americhe, e noi avremo certamente delle visite poco gradite. I cadaveri dei mahari, ormai decomposti, attireranno tutte le belve dei dintorni.

— Hai ragione, frangi — disse Hassi-el-Biac. — La notte non sarà certamente buona per noi.

— Carne ne hanno in abbondanza, — disse Ani, — e non si occuperanno di noi.

— Le jene e gli sciacalli forse, — rispose Hassi, — ma gli altri? Credi tu che in questa pianura, apparentemente deserta, non si nascondano leoni, leopardi e pantere? Il frangi ha ragione: noi questa sera avremo un concerto spaventevole, e faremo bene a far provvista di sterpi, per mantenere dei fuochi intorno al campo.

— È quello che volevo proporvi — disse il toscano. — Una barriera di fuoco sarà più efficace di dieci carabine.

— È vero, amico — rispose il moro. — Faremo bene a fare una grossa provvista che possa durare fino all'alba. Seguitemi.

Si era appena alzato, quando il sole tramontò dietro le altissime vette della grande catena dell'Atlante.

In Algeria il crepuscolo ha una durata brevissima. L'astro è appena scomparso, che già le tenebre piombano con rapidità sorprendente.

La notte succede al giorno quasi senza transazione.

— Presto comincerà la serenata — disse Enrico. — Affrettiamoci, amici. Quei poveri mahari dopo d'averci prestato da vivi dei preziosi servigi, ci daranno invece dei grossi fastidi ora che sono morti. Alla raccolta, amici!...

I quattro uomini lasciarono le rovine della cuba e si dispersero per fare le provviste di combustibile.

Spuntava la luna quando fecero ritorno al campo, carichi come muli di sterpi secchi e di erbacce.

Hassi-el-Biac fece deporre quei vegetali intorno alla cuba in modo da formare parecchi falò che, accesi contemporaneamente, potevano formare una vera barriera fiammeggiante.

Quei preparativi erano appena terminati, quando uno spaventevole concerto ruppe il profondo silenzio che aveva regnato fino allora sulla vasta pianura.

Si udivano grida acutissime ed urla lugubri, come quelle dei lupi grigi siberiani, alternati a scoppi di risa. Sciacalli comuni o sciacalli dalla gualdrappa muovevano all'assalto del carnaio insieme alle jene, attirati dall'odore.

Enrico era balzato subito in piedi, stringendo il suo lungo fucile marocchino, nel quale ormai aveva completa fiducia.

— Corpo di una balena fritta o bollita! — esclamò. — Si direbbe che tutte le bestie feroci che vivono sulle falde dell'Atlante sono scese per contendersi le spoglie di sette poveri mahari. Finché giungono sciacalli e jene poco importa; che cosa vi sarà dietro di loro? Sapresti dirmelo tu, babbo moro?

— Gli sciacalli precedono sempre i leoni e le pantere — rispose Hassi, che pareva tutt'altro che tranquillo.

— Quel cane di un Bassot avrebbe fatto meglio a portarsi via i nostri mahari, invece di scannarli brutalmente.

— E noi avremmo fatto bene a seppellirli — rispose Hassi. — Io non avevo pensato al pericolo.

— E come seppellire tutti quei bestioni, senza avere a nostra disposizione né badili, né zappe? — disse il toscano. — Bah! Se giungeranno i signori animali feroci, noi li prenderemo a colpi di fucili. Toh! Mi viene un'idea!

— Quale? — chiese il conte che si era svegliato.

— Di fabbricare una bomba colossale per scagliarla in mezzo a quell'ammasso di carnaccia e distruggerlo.

— Con che cosa? — chiese Hassi.

— Vi sono giù più di venti barilotti di polvere. Basta una buona miccia per trasformarli in granate d'una potenza spaventevole.

— L'idea non mi sembra cattiva — disse Hassi. — Vi è anche del canape che possiamo spalmare di polvere bagnata. Col caldo che c'è in questa pianura, la miccia sarà asciutta in pochi istanti.

— Su le nostre bombe allora, amici — gridò il toscano. — Non aspettiamo che tutte quelle bestie messe in appetito dalla carne dei mahari vengano ad assaggiare quella umana. La nottata non sarà tranquilla, ve lo dico io.

Muley, Hassi ed Ani i quali avevano subito compreso quale gravissimo pericolo li minacciava, scesero nel sepolcreto per portare fuori alcuni barili, mentre il toscano si accingeva a fabbricare delle micce per le sue colossali granate.

Mentre si preparavano energicamente alla difesa, le urla e gli scoppi di risa aumentavano.

Pareva che si fossero proprio radunate non delle dozzine bensì delle centinaia di carnivori. Gli sciacalli e le jene quando sono in piccolo numero non sono molto da temersi. Ma è noto che l'unione fa la forza, e allora anche quegli animali tutt'altro che coraggiosi diventano aggressivi e pericolosissimi in certe circostanze.

— Da dove vengono? — chiese il conte ad Enrico, il quale era tutto intento a fabbricar micce.

— Da tutte le parti — rispose il toscano. — Io credo che escano perfino dalla terra come le talpe.

— Li vedi?

— Non ancora; però non deve essere lontana l'orda urlante. Se si limitasse ad offrire uno sconcerto, poiché quelle bestiacce non hanno mai avuto alcuna nozione della musica, meno male. Temo invece che dopo divorati i mahari, si gettino su di noi per provare se la carne umana è più saporita. Tu sai, conte, che l'appetito vien mangiando.

— Purtroppo — rispose l'ungherese. — Finora hai udito nessun ruggito?

— No, conte. Mi pare però impossibile che non vi sieno leoni e pantere in questi dintorni. Vedrai che udendo tutto questo baccano indovineranno che vi è da cenare e non tarderanno a fare la loro comparsa. Fortunatamente ho qui una dozzina di barili che sto tramutando in granate.

— Che cosa vuoi fare tu?

— Lanciarne qualcuna in mezzo a tutte quelle bestie per vederle saltare in aria. Lascia fare a me, conte. Vedrai che né le jene, né gli sciacalli canteranno vittoria. Le mie granate valgono più di un pezzo da ventiquattro e... toh! Ecco la grossa musica! Ah! Questa non ci voleva affatto in questo momento.

Quella che quel burlone di toscano aveva chiamato la grossa musica era stato un ruggito formidabile, il quale aveva avuto per effetto di far star zitti per qualche momento jene e sciacalli.

— Questo non ci voleva — disse Hassi, il quale scrutava attentamente la tenebrosa pianura, non dovendo la luna comparire che molto tardi.

— Lo vedi l'amico, babbo moro? — chiese Enrico.

— Oh! Deve essere ancora lontano. Il ruggito di questi formidabili animali si sente a qualche miglio di distanza.

— Mi viene un'idea.

— Quale, frangi! Tu ne hai sempre avute di buone.

— Se andassi a deporre un barile fra i mahari e facessi saltare tutta quella massa di carne corrotta? Ben poco rimarrebbe, dopo lo scoppio di una di queste bombe, agli sciacalli ed alle jene.

— Volevo proportelo io — rispose il moro. — Forse allontaneresti il pericolo.

— Le mie micce, che ho deposte sulla sabbia ancora ardente, sono pronte. Va' a prendermi uno di quegli spadoni che ho veduto appesi alle pareti del sepolcreto. Contro gli sciacalli valgono più dei fucili.

Il moro scese rapidamente nel sotterraneo, e portò una spadaccia larga quanto una mano e lunga un metro e mezzo, armi usate per lo più dai Tuareg del deserto.

— Vuoi che io ti scorti con un paio di fucili? — chiese consegnandola al toscano.

— Qualche arma da fuoco può essere necessaria, specialmente contro quel signore dalla musica grossa. Andiamo, babbo moro. La torma urlante sta per prender parte al banchetto.

Si passò lo spadone nella cintura, si mise sulle spalle un barile contenente non meno di quaranta chilogrammi di polvere, e si avviò verso la sorgente scortato da Hassi.

In meno di cinque minuti attraversarono la distanza, e giunsero là dove giacevano i sette mahari fatti scannare da Bassot.

Un puzzo nauseante regnava in quel luogo, e bande di grossi avvoltoi volteggiavano sopra la massa che imputridiva rapidamente.

Dieci o dodici sciacalli e qualche jena erano già arrivati e si preparavano a dare l'assalto; vedendo però comparire i due uomini e non essendo spalleggiati dai compagni, che si trovavano ancora indietro, quei codardi animali si affrettarono a battere in ritirata.

— Ehi, babbo moro, avevano il cholera i tuoi mahari? — chiese Enrico turandosi il naso. — Io non ho mai sentito un puzzo così orribile.

— Sono tre giorni e più, che stanno esposti al sole — rispose Hassi.

— Bah! Cureremo il loro cholera con una delle mie bombe. Sarà tanto di guadagnato per la nostra salute.

Prese il barile, e lo depose fra quei cadaveri dopo d'aver attaccato la miccia...

— Gambe, Hassi! — gridò poi, slanciandosi a corsa disperata. — Non desidero saltare con queste carogne puzzolenti.

I due uomini si erano allontanati precipitosamente intanto che le avanguardie degli sciacalli e delle jene ritornavano ferocemente all'assalto del colossale banchetto.

Avevano percorsi appena duecento metri, quando avvenne una formidabile esplosione che li fece stramazzare l'uno sull'altro.

Una vera tromba di terra sabbiosa, mista a brani di carne si era alzata in direzione della fontana, poi una fitta nuvola di fumo coprì il gruppo di palme.

— Che bombe sono le mie! — esclamò il toscano, che si era affrettato ad alzarsi. — Di così terribili non se ne fabbricano nemmeno nei polverifici governativi di Tolone. Non deve essere rimasto intero un solo mahari. Hai nulla di rotto, babbo moro?

— Solamente il naso che sanguina — rispose Hassi.

— Ciò ti risparmierà più tardi un salasso. Andiamo a vedere se sono saltati anche degli sciacalli e delle jene.

Si fece dare dal moro uno dei due fucili, e tornarono insieme verso la fonte sopra la quale ondeggiava ancora un po' di fumo.

Dei sette cammelli non rimanevano che dei brandelli di carne carbonizzati e degli ossami accumulati in fondo ad uno scavo abbastanza profondo, aperto dalla bomba del toscano.

Alcune dozzine di sciacalli giacevano qua e là, col pelame bruciacchiato.

— Ecco una buona lezione — disse l'eterno chiacchierone.

— Laggiù però si avanzano altre schiere — osservò Hassi.

In quell'istante la voce possente del leone si fece nuovamente udire, seguita poco dopo da tre o quattro altri ruggiti, che provenivano da varie direzioni.

— Corpo di una sogliola arrostita! — esclamò il toscano. — Si sono dato qui appuntamento tutte le belve che popolano l'Algeria? Mio caro babbo moro, la notte si prepara terribile. Temo che queste canaglie facciano lega, e che si gettino tutti insieme su di noi.

— In caso disperato noi ci rifugeremo nel sepolcreto — rispose il moro. — E poi non abbiamo il cerchio di fuoco?

— Sì, finché durerà.

— Ritorniamo! I nostri amici saranno inquieti.

Impressionati da quei continui ruggiti, che diventavano sempre più formidabili, batterono rapidamente in ritirata, dirigendosi verso la cuba. Il conte li aspettava, infatti, con molta ansietà. Quello scoppio che aveva fatto crollare gli ultimi avanzi delle pareti ed il grido di guerra dei re, dei deserti e delle foreste, lo avevano molto impressionato.

— Dunque, Enrico? — chiese, vedendo il toscano.

— Credo che faremo bene a preparare i falò intorno alla cuba.

— Vengono?

— Quando avranno divorato gli ultimi pezzi dei mahari, noi li avremo qui.

— Degli sciacalli non m'interesso affatto, o meglio, non m'inquieto. Sono i leoni che mi danno fastidio. Pare che siano molti, è vero?

— Cinque o sei per lo meno — disse Hassi.

— Non perdiamo tempo — disse il toscano. — Prepariamo la barriera ardente.

Mentre Afza medicava il conte, la cui ferita pareva che si fosse inasprita in causa forse del calore eccessivo, Enrico, Hassi, Ani e, per quello che poteva anche il marabuto, disposero intorno alle macerie della cuba i fastelli di sterpi, ammonticchiandoli gli uni sopra gli altri.

Hassi si era però ben guardato di adoperarli tutti, e ne aveva tenuti parecchi in riserva.

Mentre eseguivano quel lavoro, la pianura rintronava di urla, di ruggiti, di scoppi di risa, di ululati selvaggi.

Si sarebbe detto che degli interi battaglioni di belve feroci, attratti prima dai fetori tramandati dai mahari, muovessero ora verso le rovine del santuario, per prendersi una terribile rivincita sugli uomini.

— Conte — disse il toscano, che scorgeva ormai gli animali balzare attraverso gli sterpi ed i cespugli della pianura. — Fatti condurre nel sepolcreto con tua moglie. Il tuo posto non è qui. Quando sarai guarito fucilerai quanti leoni vorrai, ma ora no. Il tuo braccio è troppo debole per reggere l'archibugio algerino.

— Sì, figli miei, ritiratevi, e lasciate a noi l'incarico di difendere la cuba — disse Hassi. — Le munizioni abbondano, e faremo delle stragi se le belve si ostineranno ad assalirci. Ani, aiuta il conte e mia figlia.

Enrico intanto aveva fatto il giro dei falò per assicurarsi che tutti fossero in ordine ed aveva ammonticchiati in mezzo al campo e coperti con un feltro i suoi barili diventati formidabili e pericolosissime bombe, sulle quali non pensava di contare che all'ultimo momento.

— Siete a posto? — chiese.

— Tutti — rispose Hassi.

— È al sicuro il conte?

— Ani è tornato.

— Rispondiamo anche noi alla musica. Concerto per concerto: vedremo quale sarà il più pericoloso.

Un colpo d'arma da fuoco risuonò in quel momento.

Hassi, vedendo passare un leone a soli cento passi dalle rovine della cuba, balzando fra le fameliche falangi degli sciacalli e delle jene, aveva sparato il suo primo colpo.

La terribile notte, come l'aveva chiamata il toscano, cominciava.