Sull'incivilimento primitivo/Parte XI

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XI.


Sento già obiettarmi che molti di questi autori sono di Magna Grecia e di Sicilia, ed i sostenitori delle fole greche vorranno sostenere che è da Grecia che essi ebbero la scienza loro; ma essi sarebbero ben semplici se credessero con ciò vincere nella disputa. Mi sembra aver bastantemente provato già innanzi essere originaria d’Italia la sicula civiltà, e mi sembra ancora non potersi supporre che rimanesse barbara quella provincia della penisola che è più vicina a Sicilia; e perchè si sarebbe dato il nome di Magna Grecia alla Calabria Jonica se dessa fosse stata figlia della civiltà della vanitosa Grecia? Perchè tacer quegli orgogliosi sugli autori di tanta opera? Per avventura non sarebbe più facile il comprendere l’origine di tal nome se la Ellenia avesse ricevuto da quella parte della Tirrenia a lei più vicina e dalle province litoranee di terra ferma la civiltà? Onde [p. 39 modifica]bene si comprende come i Greci riconoscenti abbiano dato il nome di patria grande a quelle terre da cui venne loro la gentilezza del viver civile. Mi piace però ancor qui aggiungere una testimonianza di Erodoto, riportata dal Mazzoldi, quale mi pare adatta ad aggiunger peso alle mie osservazioni. Narra dunque Erodoto che combattendo i Lidi ed i Medi da una parte e gli Joni dall’altra ai tempi di Aliatte, circa seicento anni avanti l’èra volgare, avvenne tutto ad un tratto che, nel fervore della pugna, di giorno si fece notte; di che i Lidi ed i Medi ebbero grande spavento; e gli Joni all’incontro niuno, perchè Talete avea già dapprima ad essi predetto l’avvenimento di quell’eclissi. Dice egualmente che nel medesimo tempo Arione, che fu il primo inventore del ditirambo, venendo in Grecia dalla Sicilia e dall’Italia, ove avea raccolto un gran tesoro di danaro citareggiando, fu gittato in mare dall’iniqua avarizia del nocchiero. Cosi Erodoto con questi due racconti contemporanei ci chiari brevemente che nel primo secolo di Roma i Lidi eran tuttora barbari, mentre si spaventavano per un’eclissi, e che i Greci, ignoranti le cose astronomiche, imparavano da Talete, che era di Mileto, qual ne fosse la causa; e per ultimo che i Siciliani e gli Italiani erano ancora un popolo ricco e civile che profondeva il suo danaro ai citaredi ed ai poeti. Dopo ciò si oserà forse impugnare essere stata la cara nostra Italia la culla dell’umano incivilimento?

Con più ragione mi si domanderà forse come disparve una civiltà tanto avanzata senza lasciar di sè traccia. Io già accennai le barbare invasioni che [p. 40 modifica]successero al cataclisma italico e che produssero tanti consecutivi terremoti politici da distruggere interamente il possente impero che vi esisteva, e ciò per l’epoca anteriore al mille innanzi Cristo. Però la civile Trinacria e le colonie pelasgiche, ritornate sulla marina italica col nome di Etruschi, fondandovi un secondo impero sacerdotale federativo potentissimo e legato coll’epoca istorica, dovevano conservare tradizioni e tracce di una civiltà che non era per certo figlia di Grecia. Dipoi vinti i Greci dai Romani che ne distruggevano la nazionale indipendenza, perchè trovarono che la corruttela ne avea già soggiogati i costumi, quegli uomini retorici posero ogni loro orgoglio non a render libera la schiava lor patria, ma a provare ai loro oppressori esser sol’essi gli autori della civiltà latina. A tale scopo inventarono tanti romanzi a cui dettero forma di storia; vi profusero tutta la mitologia loro, e dichiararono barbare tutte le tradizioni italiche le quali già erano sopraffatte dall’alterigia romana e dalla corruttela delle popolazioni italiane che subivano sotto il ferreo giogo dei romani proconsoli le più umilianti leggi. Non potendo negare che i Pelasgi fossero stati autori della civiltà greca, ne fecero una sequela di vagabondi d’incognita origine orientale; non curarono gli autottoni italiani e restringendo tutto in tesmofori greci senza poterlo provare, fecero da un lor preteso Ercole da Oenotro, Evandro ed Enea fondar regni e dinastie nella Campania e nel Lazio. Dissero Roma fondata da Romolo nato da Rea Silvia, di troiana razza, e da Marte, loro Iddio della guerra. Folli i Romani nel sentirsi chiamare di lignaggio divino, essi che non erano che [p. 41 modifica]malcontenti di ogni contrada d’Italia venuti a ricoverarsi sotto il vessillo di un audace bandito di Albalunga, il quale cambiando il suo nome di Quirino in quello più acconcio di Romolo, che significa vigoroso, avea aperto in un borgo situato in mezzo ai boschi, il quale per la sua forte posizione chiamò Roma ossia fortezza, un asilo a tutti quelli che erano stanchi del potere teocratico che gravava su tutta Italia. I Romani colla non curanza del passato dettero compiacente mano a distruggere ogni tradizione che potesse far manifesta la bassa origine loro; si compiacquero di oscurar le memorie che ricordavano Romolo un bandito, e volentieri accettarono la greca fola che il diceva figlio di Marte. Così quando essi furono conquistatori del mondo, ogni municipio italico, sospinto dall’empio spirito di adulare gl’imperanti, per potersi dire lor congiunto volle trovar di Grecia il fondator della propria città, allora ogni eroe ellenico avea tragittato il mar Ionio e percorso Italia per sparger la civiltà in questa o quella terra, la quale si affrettava a distruggere come barbara e vergognosa quella tradizione locale che la rendeva d’italica origine, per sostituire un sogno poetico. Questa è la più verisimile cagion dello smarrimento delle antiche memorie, ed è strana e ingiuriosa quella che adducono molti scrittori tra’ quali notiamo per ragion di onore lo storico Cantù, cioè che i Romani, per proprio orgoglio e ira contro la civiltà anteriore, spersero e distrussero memorie e documenti della storia passata, volendo che tutto avesse origine e principio da Roma. Sono accagionati i nostri maggiori di aver per astio cancellato ogni ricordo e storia [p. 42 modifica]dell’Etruria, donde trassero molti insegnamenti; e pure è noto che i Romani stimarono la virtù dovunque albergasse, ed innalzarono statue ad Annibale lor fiero nemico, e portarono alle stelle la greca civiltà. Claudio Augusto scrisse la storia di Etruria, Catone scrisse sulle origini della città, e Varrone fu lodatissimo storico. Il lungo impero sacerdotale etrusco avea del tutto snervata la popolazione tirrena, ed i Lucumoni, o preti di Etruria, nel chiamare in lor difesa contro i Romani lo straniero Gallo, ferirono a morte la nazionalità italiana, mentre non innalzando il popolo, per timore di sollevarlo troppo alto al sentimento della difesa patria, lo fecero tanto corrotto ed impotente da divenir vittima innocente della boria sacerdotale, della tracotanza straniera e dell’ardire dei Romani; e quando questi furono vittoriosi, vivamente alcuni uomini generosi protestarono col sangue loro contro l’indegna adulazione che per quelli nacque; ma il corrotto popolo chinò il capo. Tentativi in Italia di liberarsi dal potere romano non mancarono, ma furono soffocati col sangue: e l’ultimo, il più disperato, fu quello di Spartaco il quale prese francamente per grido di guerra l’italico motto Italia, quale i Romani sempre dissero barbara, divisa, e fu una solenne protesta degli Italiani scontenti di esser tutti compresi sotto il dominio di una città la quale si soprapponeva alla nazione; e però quella formidabile guerra civile fu intitolata sociale, cioè di schiavi contro a’ padroni, quod cum sociis gestum est, foedere sociali. Noi non conosciamo gl’indegni mezzi di cui si servirono i Romani imperiali per reprimere ancora il sentimento nazionale [p. 43 modifica]italiano; ma se può dirsi primo fra questi la più orribile corruzione, può pure ritenersi, senza tema di errare, che a molti commovimenti essi cooperarono, e può considerarsi come non ultima causa del trionfo dei barbari sulla civiltà romana il desiderio che ebbe il popolo italiano di scuotere il giogo dei proconsoli e governatori. E sentendosi incapace, dopo tanti secoli, a liberarsene da per se stesso, si limitò a non opporsi agl’invasori, e cercò nella barbarie stessa un sollievo contro la corrotta civiltà greco-romana. Quando il romano impero soggiacque, già la barbarie invadeva ogni campo della Tirrenia. L’intolleranza idolatra ebbe preparata la via alla nuova religione, e per odio dell’antica furon distrutti gli antichi templi e i sagrarii, bruciate le biblioteche, sperdute le tradizioni, abbandonate perfino le arti!!! Surse la civiltà nuova, ma non sanaronsi le piaghe della povera Italia che seguitò a pagare il fio della sua bellezza, schiava ai tiranni, ludibrio dello straniero. Tutto fu obliato, e solo i degeneri figli di Grecia, da Bizanzio, consegnarono ai claustri cristiani, conservatori di qualche reliquia della civiltà latina, quelle fole greche che fanno della civiltà europea un frutto che l’Occidente avea dall’Oriente.