Teatro ladino (Auronzo)/4

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1

L gramofono


commedia in tre quadri in dialetto auronzano


di


Bruno Ferroni



2

Personaggi:

NINA donna energica,sulla cinquantina
GUANIN suo marito
GUSTA loro figlia di vent'anni
BEPO padre novantenne di Nina
ADELE sorella zittella di Guanin
GERARDO figlio del medico del paese
PARROCO bonario monsignore
TOMASO cognato di Guanin
PRIMO figlio di Tomaso (cugino di Gusta)
VENEZIANO signore distinto...da Venezia
GIACOMINA pettegola,impicciona e linguacciuta
MENDICANTE
CHIERICHETTO

3

La vicenda accade in un freddo marzo del 1907, in una zona di Auronzo che potremmo collocare nei pressi di Zardus.

Gusta, vivace ragazza di vent'anni, fa gli occhi dolci a Gerardo, figlio del medico condotto il quale, studente di medicina a Padova, l'ha introdotta ai piaceri della musica.

Nel contesto famigliare di Gusta, povero ma dignitoso, non sembra esserci posto per simili modernità e la madre, Nina,non vede di buon occhio gli svaghi “peccaminosi” della figlia.

Attorno a madre e figlia si muovono vari personaggi: Adele, cognata di Nina, zitella e bigotta; il marito di Nina, Guanin, che nutre una avversione particolare per chiunque venga da fuori... i “foreste”; barba Bepo, padre di Nina, quasi novantenne e piuttosto malandato in salute;Tomaso e Primo, rispettivamente fratello e nipote di Nina; il Veneziano, un turista della prima ora che da tempo sta alle costole di Guanin per farsi vendere un campo; Giacomina, la pettegola di turno che...non sa niente, non vede niente ma... riferisce tutto.

4 QUADRO PRIMO

E' la vigilia di Pasqua... pulizie in casa, funzioni in chiesa... pensare a mettere qualcosa di più in tavola... ma, non tutto va come dovrebbe...

In cucina Gusta e la madre stanno conversando. In un angolo il letto dove il nonno “dormicea” tranquillo.

NINA: (piuttosto agitata) “Vargognosa! Era la ‘sesia piena de braa

dente, e te manciae solo tu a vegnì a busià i pès del Signor. Me piasarae savé agnó che te sos duda: nsiera con chel raton che te às ciapou, no te às volù dìmelo! Ce ei da fei... copàte? (alludendo a Gerardo...) No te saras mia duda su da chel... nsoma, te às capiu de chi che digo...”

GUSTA: (con voce “mielosa”, avvicinandosi di più alla madre, come per

farsi perdonare) “... ma mare, savé ben che no me despiase calche ota, fermàme a parlà pede l fiol del dotor. E n brao tosato e nsiera l ne a nvidiade a ciasa soa, ma (si affretta) no ereone sole... la Madona me é testimone: senpro so mare su por pede!“

NINA: (alzando la testa e agitandosi) “... manciarae anche che fossiave

stade sole! Cuanche ero dovena ió, e faseo l amor a to pare e se ciateone, apede neautre era senpro me nene Carmela... che fasea a finta de nbastì scarpete. Ogni tanto la auzaa i vuoi a ociadà... e se i parea che ereone massa ndavesin, la se betea a tossì! Era de chele ote che la tossìa pedo de n cian co la pussiera! E se capitiaa che to pare l fasesse tanto de tociame co n dedo, (alzando la voce)... che svelto che l avea da esse a tiriasse nchià! Ioso mare... che tenpe...”

GUSTA: “Sì... sì... mare, avaré avù anche veautre algo da pensà, ma...

daspò (con voce birichina)... avaré podù fei chel che ocorea... (guarda la madre, scansandosi un po')

NINA: (agita minacciosa i ferri da calza) ”No sta mia manciàme de

respeto, sasto! Ero belo maridiada che ei ciapou n sciopazon da la mare,... e se te auze la cresta belo ades, feso adora a ondete... por davante e por davoi!“ (Nina si ricompone, attizza il fuoco e, borbottando ancora qualcosa, si rimette a sferruzzare)

NINA: “Su mo, su... no sta fei tante comedie e dì chel che te às da dì,

gnante che torne to pare.“ GUSTA: “Aveu mai sentiu parlà de (un po' esitante e sillabando) l gramofono... chela sorta de cassela co na cianpana por sora agnó che vien fora la musica, coi dische negre che se bete por sora... e i gira co na manovela por davoi?“

NINA: “Me à parù che i parlasse, l autra dì, ca do dal brento, co ero

duda a resentà doe straze... (cambia tono)... ma neautre son porete, e cuanche avon proedù chel che é de besuoi, no deventa a pensà a ste arte...”

E' verso la fine del 1800 che Edison brevetta il suo apparecchio per la riproduzione musicale, chiamato “grammofono”. In Auronzo persone di cultura, come l'Avv. Rizzardi, dettero vita al “Gabinetto di Lettura e Musica” che venne ospitato presso l'Albergo “Alle Grazie”. Le testimonianze parlano di un ambiente culturalmente accogliente, tanto da ospitare nel 1892 il poeta Giosuè Carducci, dove si poteva accedere ai migliori e più diffusi giornali italiani e fare della musica. E' quindi verosimile immaginare che in tale consesso abbia trovato ospitalità anche un grammofono con tanto di campana. Al suono di valzer, polke e mazurche, con ampie ed eleganti movenze o con vivaci e saltellanti passi, giovani o maturi auronzani avranno trascorso molte gelide serate, sotto la mole incombente di un Tudaio innevato.

(Il nonno che finora sembrava dormisse,alza la testa dal letto e, portando la mano all'orecchio, cerca di non perdere una parola del dialogo fra figlia e nipote)

GUSTA: “Se savessià mare... no sei gnanche ió come che ei da dìve...

nsoma sto gramofono l par n fior, pezo, co na bocia che se te vas pi ndavesin, par che l te magne. Gerardo l à scomenziou a girià sta manovela e... no vedo sti dische tonde che se bete a girià! Alora Gerardo l à tociou ncora algo e... siento calchedun che se bete a ciantà! Ioso, mare mea, che bel! Me someaa fin de esse n paradis!” (Da una porta interna entra Adele, la zia di Gusta. Torna dalla chiesa dove è stata a confessarsi per la terza volta nella settimana. Saluta con un cenno del capo, si toglie lo scialle e con un lavoro a uncinetto si posiziona anche lei accanto al fuoco, ma un po' discosta da cognata e nipote. Tiene gli occhi sul “ciapin” che sta facendo e tutto il suo essere sembra dire agli altri di... non far caso a lei, che... spiritualmente... è in “siti” ben più elevati...) NINA: (rivolta a Adele, con tono fra il serio e il faceto) “... Adele, asto contou duto al pree? Me piasarae savé ce che te avee da dìsi,visto che sta stemana te sos belo duda doe ote a confessate... (pensierosa)… e chesta é la terza!“

(Adele, avvezza alle frecciatine della cognata, fa “spallucce” e continua a lavorare)

NINA: “Alora, Gusta... conta mo... conta...” (Anche il nonno, che fino a

quel momento aveva partecipato al racconto di Gusta, infastidito dall'interruzione provocata dall'arrivo di Adele, fa cenni di approvazione all'invito di Nina alla figlia.)

GUSTA: “Alora mare, ve disieo... daspò che Gerardo l avea armeou

n bel tin ntorno a sto afar, ei sentiu na bela musica vegnì fora... che no capìo ce che suziedesse... sentio fin l grizol sote i pès e zenza che me nacordesse... ero là che balao” (Gusta, accortasi di avere, nella foga del racconto, rivelato troppi particolari, si porta subito le mani alla bocca. Adele, scandalizzata, alza la testa di scatto.)

NINA: (interrompe di colpo il suo lavoro, appoggia la calza sulle ginocchia

e sembra volersi avventare sulla figlia) “Sfondrada de na fia... no feso adora a voltà l ciou che te me conbine una de le toe! Bruta pelanda de na svargognada... no te sas che te vas a l inferno! Ioso mare... a balà la e duda... pensave! Spieta che torne to pare ca de n tin, lui si che te nsegna a balà, co l tira fora la cinghia! No te sas che é pecato fei ste arte... ioso, Madona mea idiàme (giungendo le mani)... a balà... con chi tos! Fin l Vendre Santo... l Signor, poreto, che muore su la cros, e fia de Nina... a balà... a dì a mostrà le gianbe ai dovenote!“ (poi, con tono più risoluto, ricomponendosi) “Ades te ciape e te vas dreta a confessate (Adele fa cenni di cristiano assenso)... zenza gnanche giriate. Autro che “figlia di Maria”... come festo doman a dì de gesia col vestito bianco... (pausa)... e co la candela!... A balà, pensave... a balà!“ (si rivolge al padre, Bepo che, vistosi scoperto, subito cerca di rimettersi in posizione di “dormiente”, ma troppo tardi... perché la figlia non lo veda e lo coinvolga...) “ Aveu sentiu vostra nevoda, che bele azion che la fei, l Vendre Santo?“

(Bepo assume un'aria seriosa, per assecondare la furia di Nina e annuisce con espressione di rimprovero, ma appena Nina distoglie lo sguardo, si porta le mani alla bocca per nascondere la risata che non riesce a trattenere)

NINA: (al padre) “Pare, no ve saré mia desmenteou che a momente à

da passà l pioan a portave la comunion... zercà de no ndormenzave. Ades paricio l altarin... (si avvicina al letto e... annusa)... No avaré mia beù ncora! Stofà da vin che fei fastide. (si abbassa e si accinge a portare via il vaso da notte) Spietà che fese sparì sto bocal, se no ca, fra l vin e l bocal... l pioan tomarà por davoi!”

(Nina porta nella corte, all'esterno, il vaso da notte. Gusta singhiozza un po' e Adele sferruzza a più non posso, osservando ogni tanto di sbieco, la nipote, con espressione severa. Musica d'organo) (Adele si alza, toglie da un cassetto la tovaglia candida e la stende su un lato del tavolo. Due candelieri, un piccolo crocefisso e un bicchiere con l'acqua benedetta. Il nonno si riassetta come può, mettendosi a sedere sul letto. Gusta gli si avvicina, sposta le coperte, seguita dalla sguardo dolce del nonno.)

Quando il prete era chiamato a portare il viatico ai malati o ai moribondi, si faceva precedere dal suono del campanello agitato da un chierichetto. La scena non era insolita, e ad un simile incontro in strada la gente si scopriva il capo, qualcuno si inginocchiava o semplicemente si “segnava”. Nella camera dell'infermo veniva preparato un vero e proprio altarino con un crocefisso e due candelieri. Se non si aveva dell'acqua santa, si metteva in un bicchiere un po' d'acqua con immerso il ramoscello di ulivo conservato dalla Pasqua precedente.

La Comunione pasquale era molto sentita (“... comunicarsi almeno a Pasqua”) e rappresentava un punto d'onore, al ritorno dalla messa, esibire il santino che testimoniava l'assolvimento del precetto pasquale. Il santino, gelosamente conservato, faceva bella mostra di sé fra le pagine consunte del “libro da messa” o sull'anta della vetrina, accanto alle foto dei parenti defunti.

(Si sente, prima in lontananza, poi più distinto, il suono del campanello. Nina rientra, si posiziona vicino all'entrata e attende. Bussano. Adele e Gusta prendono una sedia, sono agitate e non sanno più cosa fare per rendere accogliente la cucina. Entra il prete...)

PARROCO: (serio) “Bondì Nina, ei dito che vigneo e son vegnù!“
NINA: (premurosa) “Sia lodato Gesù Cristo”
PARROCO: “ E senpre sia lodato”

(Il parroco si avvicina all'improvvisato altarino, depone la comunione e si rivolge al nonno)

PARROCO: “Alora, Bepo, come staseu? Aveu acaro che anche sto an

podé fei Pasca...”

BEPO: “... eh... fin che l Signor no me tole... vo dì che no é ora...”
PARROCO: “Gnere co son vegnù a confessave, reà n tin pi liegro...”
BEPO: “Ce volo... ca avon n tin de duto (vuole alludere al battibecco di

poco prima) se l vignea gnante (Nina lo fulmina con un'occhiata e il padre si ricompone) ( MUSICA )

(Il parroco si avvicina e lo comunica. Tutti i presenti si inginocchiano, rimanendo ai loro posti. Adele si è messa anche il velo e si fa anche due segni di croce. Finito il rito, aiuta il parroco a togliersi i paramenti, sempre silenziosa e compunta, recitando in punta di labbra, qualche sua preghiera. Il Parroco la guarda due o tre volte e le si rivolge...)

PARROCO: “ Me par, Adele, che se vedon de spes, ió e voi...”

(Adele arrossisce e continua, con fare sottomesso, a piegare i paramenti. Il Nonno sta pregando coprendosi il volto con entrambe le mani e ogni tanto allarga due dita per gettare un'occhiata alla scena)

NINA: “Monsignor, bicio fora n goto de vin... gradisselo?”

(Il nonno, preoccupato, allarga ancor di più la fessura e attende...)

PARROCO: “Avé senpro da desturbave, Nina... se na braa femena,

ma ncuoi é l Sabo Santo... avon da tegnisse n tin con duto.” (Il nonno, rassicurato dalla risposta del parroco, chiude la fessura con cenni di compiaciuto assenso)

NINA: “Alora, se no l à pressa, avarae da dìsi doe parole... ca.. pò sta

fia che me fei danà!“

PARROCO: (al chierichetto) “Core Mariuto, va a ciasa... e va dreto. (il

chierichetto prende la fetta di “peta” che Nina gli porge e se ne va. Il parroco si siede sulla sedia che Adele, premurosa, gli porge.)

PARROCO: “Ei visto che Gusta à i vuoi n tin rosse... (rivolto a

Gusta)... ce mancia Gusta, no te avaras mia piandù?“

NINA: (frenando la collera) ”Lassà che la piande, cossì la vignarà pi na

bela! Ben, ve saré nacorto che nsiera no la se é fata vede de gesia, sta fia! Neautre a spitiala... e, saveu agnó che la era? (guarda severamente la figlia e le si rivolge in tono perentorio)... ades tole la sea e te vas do de stala a guarnà, ntanto che conferisso col pioan. E moete che cuanche torna to pare, l vo ciatà la sea pariciada da portà al caselo!“ (Gusta si asciuga una lacrimuccia, passa davanti al parroco accennando un veloce inchino ed esce. Il nonno si prepara, contento, ad una replica del racconto. Adele è seduta in “punta di sedia” vicino al parroco, pronta ad esaudire ogni suo desiderio.)

NINA: “Nsoma, por feila curta, la era a ciasa del dotor, pede so fiol...

Gerardo, chel che studia do por Padova...”

PARROCO: “No vedo ce che see de mal...”
NINA: “La pesta... no la é mia duda por saludià so mare, siora

Maria, che é na cara de na femena... nò, nò... la é duda a balà! La dìs che é chel tos che la à ciamada... ce ocore che la vade a ciasa de chi siore... nsoma, sto tos i avea da mostràsi chel argai che sona... (pensierosa)... come se ciamelo... (sillabando) gra... mo...fo...no, me par, agnó che se siente la musica. La me à contou de chele, che fei fin restà l fiou! N arte gran come na casseta de patate, negro, auto, co na cianpana tacada por sora....peza che se te vas ndavesin, doboto la te tira inze...” (Adele si avvicina di più per sentire quella parte di racconto che aveva persa, visto che lei era arrivata quasi alla fine) ”... ce ala dito daspò... ah... sì... co na manovela come chela de n masenin da cafè, ma pi granda, che volea cuasi n doi a moela... pò, dische negre che giriaa... e na musica... chele che usa do por Padova... agnó che và chi tos... sti sporcacioi! (Adele si segna ultraveloce e si avvicina ancora di più) ”... ben, ce voleu che ve dighe de pi? La à ciapou n raton da so pare, che no sei come che la à fato a levà su ncuoi... ce ei da fei ió... l me dighe...”

PARROCO: (calmo e posato) “Stasè bona, Nina... la doventù no é pi

chela de na ota. Purtropo ste invenzion da na parte le farae anche del ben, ma da chelautra le porta i doven a la perdizion! L demonio é senpro n baita por portasse via le aneme... e calche ota volarae i oce anche por davoi... (allargandosi con un dito il collare)... Gerardo é n brao fiol, cognosso ben anche i suoi... dente a posto... ma ce voleu, a stà tante mes do por Padova, agnó che l studia, l se sarà lassou ciapà da le conpagnie...”

NINA: “Ades, ce ei da fei?“

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PARROCO: “Doman daspò messa granda, parlarei ió pede Gusta e

ciatarei l indreto por feila ragionà. (cambia tono) Poreta, Gusta, parea gnere che la fasea la prima comunion. (alzandosi)... Deventon vece, Nina... no é pi arte por noi, cheste... (già sulla porta)... veautre ntanto, tignéla de ocio, anche de doi, se é besuoi... e disié su orazion a le aneme del purgatorio!“

(Biascicando qualche giaculatoria ed impartendo una frettolosa benedizione, si accinge ad uscire. Adele fa l'atto di baciare la mano del parroco, ma questi la ritira e le accarezza, benevolo, il capo. Nina e Adele si ricompongono e rientrano. Adele ripone l'uncinetto, prende un libro di preghiere e si mette seduta in un angolo. Nina va ad accendere il lumino ad olio davanti al quadro della Madonna, mette a posto le sedie, rassetta il letto del padre e si accinge a preparare la cena... ogni tanto lancia un'occhiata dalla parte della cognata e scuote la testa)

NINA: (in tono sconsolato) ”... conta tu, Adele... conta tu...”

La presenza di una zia nubile, in casa, non era inusuale. A volte la donna si era trovata suo malgrado, a dover accudire i genitori anziani ed inabili... dedicando loro l'intera giovinezza. Passata la bisogna, anche la gioventù era sfiorita... e la brava donna, ora considerata “zittella”, rimaneva nella famiglia di un fratello aiutando nelle faccende domestiche e nell'educazione dei nipoti, ricambiata in questo sempre da grande affetto. A volte la natura non era stata “prodiga ” con queste gentili creature alle quali però mai difettava la generosità e la totale dedizione per la famiglia nella quale si erano inserite. Capitava non di rado che la gente usasse espressioni alquanto impietose nei loro confronti del tipo “...Se te ere algo de bon, te te maridiae...” (se eri una persona a modo, ti saresti sposata). Nel caso di un uomo che non si fosse sposato, vi era maggiore tolleranza, limitandosi a definirlo “castròn”, ma senza infierire più di tanto.(1) 1Vennero forgiati anche divertenti motti: “Meo mal dude che ben stade” (Meglio male andate, che bene da andare), evidenziando la fortuna di colei che, sposandosi anche “male”, era comunque uscita di casa, in confronto a quella che, pur conducendo una vita agiata, non si era mossa dalle mura domestiche. Oggi la ragazza che sceglie di non sposarsi viene chiamata “single”, sola per scelta; ma la zittella dei bei tempi andati si trovava a dover rispondere a chi le chiedeva in modo alquanto indelicato, il perchè di quella misera condizione. E il motto recita: “O de lares o de piziò, e por dute chi che vuó”. (O di larice o di abete, ce n'è per tutte quelle che vogliono).Con il passare degli anni però, una simile risposta, diventava sempre meno convincente, ma tant'è.(2)2

Accadeva anche che qualche persona piuttosto abbiente, destinasse nelle volontà testamentarie una certa somma perchè si provvedesse la dote a ragazze povere. E' il caso dell'ultimo discendente della nobile famiglia Poli, di cui rimane la bella dimora, che destinò una considerevole somma di denaro a favore delle ragazze non maritate di Villapiccola.(3)3 A Venezia c'è tuttora la chiesa di S.Maria della Presentazione, detta anche “delle zittelle”, di probabile mano palladiana, facente parte di un ex ospizio per giovani ragazze senza dote.

QUADRO SECONDO

E' il giorno di Pasqua. Si sentono suonare le campane a distesa. La gente torna dalla messa grande e anche Guanin, marito di Nina, Tomaso suo genero ed il figlio di questi, Primo, rincasano. Sono eleganti e un po' allegrotti, per la rituale sosta all'osteria.

In cucina trovano Nina e Adele che spignattano per preparare il pranzo di Pasqua: Nina non si è potuta muovere per non lasciare solo il padre. Le due donne continuano a darsi da fare con le pentole.

GUANIN: “... ca mo, ca Tomaso... betè la mantelina sul picatabare...

davoi la porta...”

TOMASO: “... eh... sto an la Pasca é vegnuda bonoriva... son belo a la

fin de marzo... e n borin de fora, che par de esse ncora de febraro...”

NINA: (senza smettere il lavoro, ma alzando la voce per farsi sentire)

”...febraro febraruto, l é pedo de duto...”

GUANIN: (rivolto a Tomaso) “... se era ncora viva vostra femena, se

faseone doe ridiude n conpagnia... (pensieroso)... pore anema, che Dio la ebe n gloria... eh, me sió era na liegra de una, nò come ste doe ca: una (accenna alla moglie) che par che la ebe senpro l fuogo sote i pès, e chelautra no te la farae ride gnanche se te i fasesse grizol de bocia!“

(Adele non fa una piega e Nina, senza smettere un attimo di lavorare, borbotta “... mato de n òn...”)

PRIMO: “... eh... se era ncora la mare, poreta (sospira)... zenza la mare no é

pi conpai... par fin da stranio che no la see pi ca, come l an passou... ve pensau, pare?“

TOMASO: “Te às rason fiol me... (si siede accanto al fuoco) Guanin,

aveu sentiu ce che i disiea ca do n piaza... i à visto n giro chel sior da Venezia, chel che volea conprà l vos cianpo do n Stropedo...” GUANIN: (a tutti è nota l'avversione di Guanin per i forestieri; punto nel debole, si gira di scatto) “Ce aveu dito? No i à bastou chel che i avon respondù l an passà... ce alo senpro da vegnì a tentà la pore dente! Stasé atento Tomaso, besen tegnì lontane i foreste... recordave... e i veneziane prima de duto! (rancoroso...) “I vien ca che i crede de esse i paroi... i é tanto abituade a stà co i pès de l aga che i camina senpro n medo stradon... aveu fato caso? Tigneve n dalonde dai foreste... no stasé messedave... i é cossì furbe a contàla che se no se tien verte i vuoi... don a ris-cio de ciatasse col cu dobas!”

I veneziani... erano persone “speciali”... provenienti da un ambiente socialmente e geograficamente diverso. Con la loro parlata cantilenante, ed una spontanea e cordiale propensione alla socialità, venivano guardati con un po' di diffidenza da qualche montanaro, più essenziale nei discorsi e circospetto nei rapporti. Alla luce di una dura vita di lavoro, a volte di stenti e privazioni, in un ambiente difficile ed avaro di soddisfazioni, appare comprensibile la “prudenza” della gente di montagna nei confronti del “foresto”, visto (anche in epoche più vicine a noi) più come quello che viene a “prendere”, piuttosto che come portatore di esperienze diverse o occasione di lavoro e guadagno.

Il turismo, così come noi lo conosciamo, prende piede in Auronzo all'inizio degli anni cinquanta del ventesimo secolo, ma non era raro il caso di “viaggiatori”, militari, commercianti o eruditi in cerca di nuovo sapere, che si spostavano all'inizio del secolo.

“Auronzo bella al piano stendesi lunga tra l'acque sotto la fosca Aiarnola”... cantava nel 1892 il Carducci.

Non ci si deve quindi meravigliare se un viaggetto da queste parti o l'idea di potervici stabilire, solleticasse la mente di qualcuno, nel nostro caso, del “Veneziano”... che sogna una casetta fra le Dolomiti.

(Bussano alla porta. Adele si asciuga le mani col canovaccio e va ad aprire. Si affaccia un signore piuttosto elegante e distinto... un veneziano...)

VENEZIANO: “Xe permesso... siora parona... sior paron... (si toglie il

cappello e guarda Guanin)... che contento che son de revederve...” (Guanin schizza in piedi e Adele riprende il lavoro di prima. Nina raggomitola il grembiale attorno ai fianchi e si avvicina)

GUANIN: (piuttosto ruvido) “Bondì sior! Come elo che l é n giro a ste

ore... l dì de Pasca...”

VENEZIANO: “Cossa volo che ghe diga... me mogere la é senpre

inamorada de sti posti... de la montagna, de ste arie fine (socchiudendo gli occhi, aspira col naso, come ad assaporare l'aria sopraffina)... semo vignui do giorni e go pensà de passar a saludar la Nina e l Giovani...”

GUANIN: “Ben, ades l à saludiou dute doi de na ota sola! No por

mancià de creanza, ma neautre avessione da dì a disgnà...”

VENEZIANO: “Sior Giovani, l sà che da do ani che fasso l amor a

cuel toco de teren che l ga cua soto... cossa ghe ntaressa, par do sece de patate che l ghe cava fora... ghe dò mi le patate, se l vol... e ghe zonto anca i *pessi!“

GUANIN: (cercando di controllarsi) “L scolte ben, sior: ncuoi é Pasca e

son apena tornou da messa... chel che volarae dighe, no poi dighelo... senò me tocia dì ncora n ota a confessame. Ei belo dito che l cianpo do n Stropedo, pitiosto de vendelo a n foresto, lasso che l se venpie de autrie, aute come le stange... che a dì inze se se perde. E ades (facendo cenno) l se gire e l vade n pas.“

VENEZIANO: (quasi borbottando) ”... cossa gavarò dito, che ogni

volta che ghe nomino l canpo, l deventa cativo. (volendo allettare ulteriormente Guanin)... Sior Giovani, vardé che ghe dago dei sbesi... cuanti che l vol... i ghe ndaria ben. (guarda Adele) L podaria far na dote par so sorela...(rendendosi conto dell'assurdità appena detta)... no se sà mai... le vie del Signor le xe infinite!”

  • Pesci
GUANIN: (trattenendo il riso, guarda Adele che si è girata) “Ei paura

sior, che l Signor l se see desmenteou de sta via... ca no é pi vacie da monde... e dù duto a varizo!”

VENEZIANO: (rivolgendosi a Tomaso) ”E lu, elo so parente... no l

gavaria calcossa da vendare... ghe pago ben.“ (Tomaso vorrebbe anche rispondere, ma il cognato lo precede)

GUANIN: “L ei belo dito sior, che à tentà la braa dente l se podarae

ciamasse gramo! Ades l torne da la so siora (lo sospinge con garbo verso la porta) e l zerche de fei na bona Pasca. Ce besuoi alo de vegnì da ste bande... che é belo duto pien... chissà do por Venezia che ben che se stà, co l aga, le gondole e (facendo il verso in veneziano, per dire “i pesci”)...”i pissi“.

VENEZIANO: (si rimette il cappello e saluta) “Go capio... go

capio...vorave dir che se vedaremo stistà... chissà che col caldo no l pensarà calcossa de megio... (si accomiata)... a revedarse siora Nina! La staga ben. (verso Adele) Ge fasso i auguri, tosa... (Adele si fa sfuggire un mezzo sorriso, saluta discretamente con la mano e si riassetta i capelli con l'altra, gongolante per quel raro complimento al quale non era più avvezza....)

TOMASO: “Aveu visto, Guanin... se descore del diau e spunta la

coda. Par fin che l fosse stou davoi la porta a sentì: ben avé fato... ben... ben... Sti foreste, i ne volarae portà via anche l sango! Che i stese a ciasa soa!”

(Arriva Gusta, ancora vestita da Figlia di Maria, con la candela in mano, un po' mogia per la predica “personale” che il parroco le ha appena fatto.)

GUSTA: (rivolta a Tomaso) “Ve saludo barba... come staseu?”
TOMASO: “Ca mo... da vece, e tu, Gusta? No sarae gnanche da

domandà... te sos senpro pi na bela. Varda, varda, che bel vestito che te às...”

GUSTA: “Avé rason, é proprio n bel! E chel de me nene Adele, che la

portaa ela cuanche la era dovena... vedeu? (fa un mezzo giro per farsi ammirare) É come gnoo“

GUANIN: “Gnoo... gnoo... l é stou pi parte de n casseton! Por forza l

é gnoo...(pensieroso)... avélo savù (si rivolge ironico verso Adele) te beteone anche te, Adele, inze de nauzo!”

ADELE: (incassa, come sempre, ma non può trattenersi dal dire al fratello)

“... dai mo, Guanin... ce disieu...”

NINA: (rivolgendosi al marito) “Ce aveu ncuoi che sé manco ruspio?

No avaré mia beuziou?“

TOMASO: (conciliante) “Su mo, Nina, é Pasca n ota a l an... lassà che l

dighe doe asenade... no se pó senpro piande!“

GUSTA: (si avvicina a sua zia Adele, la abbraccia con rispetto e dice,

rivolta al padre e allo zio) “Ió voi ben a me nene Adele, porcè che la é na bona e na braa!“ (Adele fa una carezza alla nipote e si reimmerge nel lavoro)

(Gusta va a cambiarsi d'abito. Nina si appresta a preparare la tavola e stende la tovaglia nuova di bucato. A Guanin non sfugge il biancore della tovaglia nuova...)

GUANIN: “Agnó aveu ciatou sta bela toaia?“

NINA: “La tiro fora doe ote a l an, a Nadal e a Pasca... diomessì che la é na bela! Tiriave n dalonde che paricio la taula.” (Guanin e Tomaso si scostano dal tavolo. Primo, sempre silenzioso, cerca di aiutare Nina, ma questa fa capire che si arrangia da sola. In tutto questo tempo, il nonno è rimasto silenzioso nel letto, un po' dormendo e un po' fissando il vuoto. Ora però con fatica, si è seduto nel letto e si guarda attorno. Nina continuando a preparare la tavola, gli si rivolge)

NINA: “Pare, ei betù n vuovo n depì de la panada, aveu acaro? E se

stasé n bon, ve deso anche n bicerin de sgnapa, davoi.“

BEPO: (annuendo contento) “Aì... aì... ei acaro... se é restou ncora n

gozo...”

(Guanin e Tomaso, seguiti da Primo e Gusta, tornata nel frattempo con un altro vestito, si avvicinano alla tavola)

GUANIN: (alla moglie) “Ce aveu pariciou de bon da disgnà, ncuoi?“
NINA: “Se no portà apede calche palanca de pi, la bocia la ciapa l

rusen, e poi lassà la toaia de nauzo, pede vostra sorela! (più calma) Ei fato n bon brodo con chela pita che no era Dio né Sante che la pondesse, n vuovo... nos-cè costesine, doe luguaneghe e na polenta che la dìs “màgneme”!

BEPO: (dal letto, parla a fatica) “... e novanta ane, doboto che la dìs

màgneme, mai che la canbie descorso!”

NINA: “Tasé, pare, che se no la descorea cossì, saressià dù da n pezo

a ciatà i vostre fradiei su, davoi de chi de *Carlone...”

(Gusta porta al padre una scodella di “panada”, per Adele un piatto con una salciccia e una fetta di polenta. Bepo sembra non voler mangiare e Adele cerca di aiutarlo. Dopo aver insistito un po', lascia il cibo sul comodino e va a tavola. Tutti abbassano il capo mentre Nina recita frettolosamente la preghiera)

NINA: (abbassando il capo e socchiudendo gli occhi) “Vi ringraziamo

Signore per il cibo che ci avete dato e fate che tutti possano avere abbastanza, ogni giorno. Amen.“

(Si fanno un cenno di segno di croce e si siedono. Nina distribuisce il brodo nei piatti. Mentre mangiano, discorrono...)

Chi non ricorda (e magari possiede) il libriccino “Massime Eterne”, che la gente consultava per le più svariate occasioni e festività religiose... Ma si recitava e si tramandavano anche altre preghiere, alcune sopravvissute al tempo, altre irrimediabilmente perdute.

Alla trasmissione orale, immediata ma soggetta ai difetti di... memoria, alcuni preferivano trascrivere quanto stava loro a cuore, allenati in questo anche da una metodo di insegnamento (oggi diremo “didattica”) che faceva molto uso di riassunti, ricopiature e innumerevoli poesie mandate a memoria.

Scomparsa mia mamma, Gusta “Scruzola”, storpiatura del cognome Cruzzola, per adattarlo alla particolare “calata” della Val d'Ansiei, ho trovato fra le sue carte, una curiosa ed originale preghiera,che lei ricopiò chissà da dove e che riproduco fedelmente:

Orazione

Trovata nel S. Sepolcro di Nostro Signor Gesù Cristo in Gelusalemme. La quale si conserva in Cassa d'argento da S.Santità e da Carlo V Imperatore nei loro Oratorii.

“Desiderosa S. Elisabetta, S. Matilde e S. Brigida di sapere alcune cose della Passione di Gesù Cristo, fecero particolare Orazione, ed allora gli apparve Gesù Cristo, che favellando con esse così disse: “Serve mie dilette sappiate che li soldati armati furono 105, quelli che mi condussero furono 23, li esecutori di giustizia furono 33, li pugni che mi diedero nella testa furono 30; preso bell'orto fui nelle sante mie Orazioni e mi diedero colà 405 colpi di mano nella testa; e nel petto furono 180; i colpi nelle spalle 80. Fui trascinato e tirato per la barba per levarmi, sputi nella faccia 30; battiture 6666, nel corpo 1000; i pugni nella testa furono 100. Mi diedero un urtone nella Croce; stato in alto 19 volte pei capelli e ad un tempo mandai 129 sospiri; le punture di spine nella testa 300. Spine mortali 30; altri sputi 150; piaghe che mi furono fatte 1000. I soldati che mi condussero al Calvario 508; quelli che mi giudicarono 33; le gocce di sangue sparse furono 4380.” A chi ogni giorno reciterà un Pater ed un'Ave Maria, per lo spazio di dodici anni continui per compiere il numero delle gocce di sangue che ò sparse, concedo le cinque seguenti grazie:

I° Indulgenza plenaria e la remissione di tutti i peccati.
II° Se morisse avanti li anni 12 sarà come se li avesse compiuti.
III° Sarà libero dalle pene del Purgatorio.
IV° Acquisterà tanto merito come se fosse martire ed avesse sparso il

sangue per la Santa Fede.

V° Verrò dal cielo in terra per l'anima sua e per quella dei suoi parenti sino

alla quarta generazione.

Chi avrà indosso questa Orazione non morirà annegato, né da mala morte, né di morte improvvisa; sarà libero dal contagio della peste e certo non morrà senza confessione; sarà libero dal palco della giustizia e da tutti i falsi testimoni, e se le donne da partio non potessero partorire, tenendola indosso partoriranno subito.

Nella casa che si conserverà questa orazione non vi saranno tradimenti o altre cose cattive. E quattro giorni avanti la morte saranno i devoti visitati dalla benedetta Vergine Maria. Questa santa Orazione è stata approvata da tanti tribunali, ed è valevole contro le presenti infermità, calamità e flagelli.-

Chiunque reciterà 7 Pater e 7 Ave per la più povera Anima del Purgatorio, acciò possa andare a godere l'eterna gloria in Paradiso, avrà gli effetti che aspira per il bene dell'anima sua.“

Credo non ci siano commenti di fronte a tanto fiducioso abbandono; vengono alla mente quelle mensole, a volte angoliere, con i bordi ornati di pizzo, poste davanti ad una sacra immagine che si protendeva come sospesa, verso il basso, sulle quali non di rado ardeva un lumino. A volte non ci si ricordava della loro esistenza, ma guai a toccarle...

GUANIN: (rivolto a Gusta) “Te sosto reveduda, Gusta, de l autra

siera... éro che no te faras pi de cheste baronade?“

NINA: “La à ben capiu. Ntrà la rata del Vendre Santo e la predega de

Pasca, no credo che la se messede pi... co ste mascrade!“

TOMASO: “Ah... me par de capì che descorè de chel arte che sona...

chel che à conprou l fiol del dotor. Ben... se ei da dive la veritià, no me despiasarae sentìlo... i lo à dorou saveu agnó... a la festa dei coscrite de me fiol, éro Primo?“

PRIMO: “Sì, sì... se son tanto devertide pede chele tose. No l podea

fei una meo, Gerardo. (con fierezza) Anche lui é me coscrito... avon balou co n gusto che no ve digo...”

GUSTA: (si dimostra interessata al racconto del cugino e, incuriosita gli

chiede) “Che n brao de n darman che ei... porcè no te me às visiada che faseà na festa... sarae vegnuda proprio volentiera!“

PRIMO: “ Te sos massa dovena tu, son nassude n an de deferenza...

cossì no te sos me coscrita. Vorà dì che n autro an cuanche te faras anche tu la coscrizion, te diaras a domandà a Gerardo se l ve npresta l gramofono.“

NINA: (rivolta alla figlia) “Ades pensa a masteà chel che te às de

bocia.. a balà te às belo proedù da to posta... e por stan me par che podarae esse assei, n autro an se vedarà!”

  • Si riferisce al cimitero della parrocchia di S. Giustina, sito a poca distanza

dalla casa detta “ de chi de Carlone “.

GUANIN: (già un po'... allegrotto) ”Ioso, Nina, saveu ce che ei da

dive? Che no me farae preà massa por balà n tin anche ió... co sto gramofono.” (ridacchia)

NINA: (irritata) ”Tasé su, mato de n òn, che ca de nos-cè ane avarè

besuoi del baston por tegnive n pès... autro che dì a balà! Ce credeu, che por voi i ane i torne ndrio?”

GUSTA: (si rivolge alla zia Adele) “Nene, aveu mai balou da dovena,

co aveà i me ane?“

ADELE: (arrossisce, si guarda attorno per assicurarsi che altri non abbiano

ascoltato l'inusuale domanda che la mette in imbarazzo... poi, quasi a bassa voce) “... ce disto, Gusta... ió no ei mai fato de ste sporcarie!“

GUANIN: (sempre ilare) “Ioso, Adele... no volarae sbagliame, ma me

à parù de vedeve de ‘sesia, ntanto che faseà la comunion, ncuoi...”

NINA: (meravigliata) “... e con chesta fei doe de na dì, se conton chela

de la messa bassa de le sete ncuoi bonora...”

GUANIN: “Ero da la banda de chi omen, vesin a la porta de

Vilapizola, ma ades che me refeso, me par propio de avé visto giusto... scometo che de sto pas i ve farà santa! (tutti ridono... tranne Adele che continua ad interessarsi al piatto che le stà davanti. Bussano alla porta.)

GUANIN: (un po' alticcio... perchè ha visto già il fondo della bottiglia...)

“No sarà mia tornou l venezian?“ (Adele va ad aprire, ma ascolta prima quanto Guanin finisce di dire)

GUANIN: (continuando l'invetttiva contro i “foresti”) “Se é chi che

savé, disiesi che l torne l trenta de febraro...” (Adele apre la porta, sulla quale si affaccia un uomo dall'aspetto piuttosto malmesso, a giudicare dalla giacca sporca e striminzita, gli scarponi rotti e il cappellaccio sudicio che tiene in mano...)

NINA: (ha capito di chi si tratta) “Adele, disié che l viene inze, pore

òn... che l fese n tin de Pasca anche lui...” La questua dei poveri, che provenivano prevalentemente dal Comelico, non era inusuale, specialmente durante le festività. L'uomo entra e, in piedi e testa bassa aspetta, accanto alla porta. Adele prende un piatto, vi mette un po' di cibo e lo dà al povero, invitandolo con il gesto del braccio, ad andarsi a sedere vicino a loro. L'uomo si ritira, prendendo il cibo, e va un po' discosto, vicino al fuoco, ringraziando a bassa voce. 31

TOMASO: “ Da agnó vigneu, bon òn?“
POVERO: (a bassa voce) “Dal Comelego, sior “ (Si mette a mangiare

portando il cibo alla bocca con gesti calmi e dignitosi, senza mai alzare lo sguardo)

GUANIN: “... pore dente...”

(Nina si gira verso il padre, Bepo, e si accorge che non ha quasi mai toccato cibo... si avvicina al letto)

NINA: “Pare, ce mancia che no avé magnou nuia? Seu poco dal vres?

(gli appoggia la mano sulla fronte per sentire la temperatura)... Ioso mare, come che l scota! Ce ve sentiu?“

BEPO: (sonnacchioso) “No sei... ei come n gropo ca...” (indica lo

stomaco con mano tremolante) (Guanin e Tomaso si avvicinano al letto: Adele, premurosa, rimbocca le coperte. A tavola rimangono, ma per poco, Primo e Gusta. Il povero, continuando a mangiare, getta occhiate di traverso, incerto se, restare o... togliere il disturbo)

GUANIN: (rivolto a Nina) “Me par che l ebe na bruta ziera! (lo guarda

preoccupata)... no l me piase proprio nuia. (tasta anche lui la fronte del vecchio) “Siente che fornela! Che see da ciamà l dotor... gnante che suziede algo... (si rivolge a bassa voce a Tomaso)...”*chela da Val no la fà fal “, no la varda se é Nadal o Pasca...”

Anche barba Bepo, come tutti gli anziani, era accudito amorevolmente in famiglia e dimorava nella cucina, il luogo più caldo della casa. La persona anziana non era vista come un intralcio ma fonte di sapere e di esperienze, che venivano tramandate a figli e nipoti.

Al sopraggiungere della malattia, lo si curava con rimedi “nostrani”, tipici degli ambienti poveri o, se c'era la possibilità, si mandava a chiamare il medico. Quando stava per passare a miglior vita, la famiglia, bambini compresi, ai quali non si nascondeva la realtà del trapasso, si stringeva al capezzale del “nonno”, assicurandogli i conforti della religione ed accompagnandolo con preghiere e invocazioni. Anche il vicinato non di rado partecipava all'evento, aiutando i famigliari nell'assistenza o sovvenendo con generi alimentari.

La sensibilità che Auronzo aveva per i suoi anziani, si evince anche dall'apertura nel 1946, della Casa di Riposo presso la chiesetta di S.Rocco. In precedenza,grazie al lascito di Andrea Vecellio Larice, all'avvocato Luigi Rizzardi ed all'impegno tenace del Comune (1897) era stata posta la prima pietra dell'ospedale. Tale edificio, dopo aver ospitato temporaneamente alcune classi della scuola elementare ed essere stato adibito a ospedale militare, al termine della prima guerra mondiale, venne usato anche come ricovero per vecchi “indigenti ed inabili”.

TOMASO: (parla al figlio Primo) “Primo, fei n sauto su dal dotor e disi

che l ebe la creanza de vegnì a dà n ociada a barba Bepo...” (Primo si alza e veloce si avvia)

GUSTA: (desiderosa di sfruttare l'occasione per rivedere il figlio del

medico) “Vado ió barba... vado ió...”

  • Allude alla statua che rappresenta la morte, con la falce in una mano e la

clessidra nell'altra, posta in cima al primo altare laterale di sinistra, nella chiesa di S.Martino di Valle di Cadore. Da qui il detto cadorino: “Vignarà chela da Val”

NINA: (risoluta) “Tu te stas a ciasa toa, che Primo sà da so posta agnó

che l à da dì!“

(Il povero, finito di mangiare, si alza, ringrazia a mezza voce e se ne va. Il gruppo di parenti, ognuno borbottando qualcosa, si avvicina compatto al letto del vecchio. Guanin approfitta della situazione per avvicinarsi alla bottiglia di grappa; ci sta quasi riuscendo, quando la mano forte e... veloce di Nina, gliela sottrae da sotto il naso.)

NINA: “ Nbreagon de n òn...”

TERZO QUADRO

Nella cucina di Nina grava la preoccupazione per barba Bepo che si sente male. Nina, un po' discosta dal gruppo, sta osservando con strana insistenza il soffitto, anche per ingannare l'attesa, aspettando il medico, dove sono appesi gli ultimi pezzi di carne del maiale macellato il Natale precedente. Continua a guardare, brontolando fra sé... Entra trafelata una donna, non più giovane... la Giacomina che, scontratasi con Primo che correva dal medico, ha saputo della malferma salute di barba Bepo. Da brava comare, si è fatta un punto d'onore entrare, vedere e... poi riferire.

GIACOMINA: (con tono preoccupato, roteando gli occhi a 360 gradi, per

osservare tutto, rivolgendosi a Nina) “Ioso Nina, son coresta apena che ei savù... pore Bepo (che non ha ancora degnato di uno sguardo)... che n brao òn che l era... tanto de cuore... ce che me despiase!” (Nina trasecola, sentendo quelle espressioni, più simili a condoglianze che a quanto si usa dire parlando di un un malato. Giacomina continua, con la forza di un tornado...)

GIACOMINA: “Me racomando, se avé besuoi de algo, ciamàme

dereto... pore Bepo...”

NINA: (con tono un po' risentito per le “sparate” di Giacomina) “Agnó

aveu lassou i torze e l Aga Santa... cossì, belo che son, lo beton via dereto! (più risoluta, alzando la voce) Oh... Giacomina, dessedave fora... no vedé che l pare e ncora vivo! Se fossiave tanto svelta a bete a dì l zervel, come che fasé dì la lenga...”

GIACOMINA: (si accorge di aver parlato a vanvera) “ Oh... ; Madona

dei sete dolore... no me sarae mia nacorta... (guarda con apprensione verso il letto e si avvicina)... barba Bepo, come seu? (parla a voce molto alta, come si fa con gli anziani un po' sordi)... ve dioe da calche parte? Spitià mo, che se ocore, ades Gusta va a tòle n ciadin e ve giavon n tin de sango, così staré dereto meo..” (e fa per iniziare, muovendosi e guardandosi attorno) (Barba Bepo fa le corna all'indirizzo della intraprendente e pericolosa Giacomina)

BEPO: (a Gusta) “Ciò Gusta, no stà mia scoltà sta betonega, sasto... se

fosse por ela, no durarae fin a sta siera!”

GIACOMINA: “Mare de cuore, Bepo, ve portarei n tin de formai

vecio, de chel de tre ane fa... cossì ve ncreà la petorina... (si accinge ad andarsene)... ades beson che vade; ei acaro de aveve visto e... tignè duro... tignè duro, che doman torno a ciatave...”

TOMASO: (verso Giacomina) “Benon, Giacomina, avarae proprio

acaro anche ió, de zercià n tin de formai vecio!“ (Tutti hanno assistito alla veloce scena, un po' scuotendo la testa e un po' parlottando sottovoce. Solo Adele rimane, come sacra e fedele “vestale”, vicino al letto del vecchio; ogni tanto gli bagna la pezzuola bianca che questi tiene sulla fronte.)

NINA: (in tono minaccioso verso Guanin) “Vardà de no dì ndavesin de

chel formai, saveu! Se Tomaso vo zercialo, lassà che l fese... L ultima ota che lo avé magnou, ei cognù dì a dormì su de penizo!“

(Si apre la porta ed entrano veloci, Primo e Gerardo. Quest'ultimo è accorso perchè il padre è stato chiamato per un'altra urgenza. Studiando medicina, si sarebbe provato lui a visitare barba Bepo.)

GERARDO: (a Nina che lo guarda stupita... visto che tutti attendevano il

vecchio medico) “Buongiorno Nina... buondì Adele. Il papà ha dovuto correre su verso Paìs, per una chiamata urgente, così sono venuto io... vediamo se posso fare qualcosa.”(si avvicina al letto)

GERARDO: “Buondì, barba Bepo, come vi sentite?“
BEPO: (a voce bassa) “... ncuoi no son massa dal vres! Ei come na

soriza ca, su la busa del stomego, che no la và né su né do... ce dislo (con tono faceto) che possione bete na trapola?“

GERARDO: “Non avete perso il vostro umorismo, barba Bepo...

adesso state calmo che vi visito un po'“(comincia ad auscultare il cuore e la visita procede) (Nel frattempo tutti si allontanano dal letto per far posto a Gerardo, non senza cercare, allungando il collo per spiare sopra le teste, di vedere cosa accade... orecchi tesi... bisbiglii... tutto dura qualche secondo.)

BEPO: “E sì che ncuoi no ei zerciou gnanche na carobola... me tocia

fei Caresema anche daspò Pasca... duto redos, come i todesse...”

GERARDO: (appoggia lo stetoscopio sulla schiena del vecchio) “...barba

Bepo, dite trentatré“

BEPO: (sicuro) ”...Trentazinche!“
GERARDO: “No, dovete dire trentatré”
BEPO: “Ió me penso del trentazinche... co ei ciatou chela pore anema

de la me femena...” (Tutti commentano sottovoce le battute del vecchio. Gerardo chiama a sé Nina, la prende sottobraccio e tutti e due vanno a parlottare lontano dal letto)

GERARDO: “Nene Nina, per voi i conti non torneranno, ma secondo

me barba Bepo ha solo una bella indigestione: dategli un po' di olio di ricino e nient'altro. Vedrete che fra qualche ora sarà tutto a posto.” (Mentre Gerardo le parla, Nina non smette di gettare lunghe occhiate alla carne di maiale... pochi pezzi, appesa al soffitto, poi dice:)

NINA: ”Torna i conte... diomessì che i torna... ca mo, dotor, l scuse se

son vegnude a disturbalo por cossì poco... ma, ce volo, l pare é vecio e ogni momento podarae esse chel bon... L dighe ce che avon da dasi...” (fa il gesto di prendere i soldi dal seno. Gerardo con un cenno fa capire che di soldi non se ne parla neppure. Mentre si appresta ad uscire, Guanin lo tira in disparte e gli bisbiglia qualcosa all'orecchio. Gerardo annuisce con il capo, saluta tutti ed esce.)

NINA: (vicino al letto di Bepo) “Gnanche sta ota no morì, pare... ve

pensau cuante scorzete che era restade npornade su sote ? (e indica il soffitto al vecchio che segue il suo sguardo)... era zinche... e ades, se no son deventada stralocia duto de n colpo... me par de vede solo doi! (Il tono di voce diventa allusivo e furbo, come di chi conosce già la risposta) Ce fin avarasi fato chi autre tre?“

BEPO: (vistosi scoperto) “Porete... i sarà dude a fei Pasca anche luore...

(e si batte lo stomaco con una smorfia di dolore)... ioso, sta soriza...” 39 NINA: “Na soriza granda come tre scorzete... un davoi de chelautro!“ GUANIN: (ha seguito, interessato la conversazione) “Pare, avé na coradela come chela de n ciaval! Podeà vertìme, che ve tiriao do anche doe costesine!“ NINA: (porge al padre il cucchiaio dove ha versato l'olio di ricino) “Ades beé l oio... vedaré che ca de n tin no sentiaré né la soriza né i sorizis.“ (Bepo beve. Nel mentre bussano... Adele va ad aprire ed entra Gerardo con un enorme grammofono sotto il braccio. Tutti si girano ed emettono all'unisono una esclamazione...OH!...)

NINA: “Ce mancia, dotor, alo desmenteou algo?“
GUANIN: “No stasé alarmave, Nina, i ei dito ió che l torne co sto

gramofono...”

GERARDO: “Non abbiate paura Nina, è un oggetto che serve a

sentire la musica... non fa del male a nessuno!“ (Adele, ferma nella sua posizione vicino al vecchio, si fa un veloce segno di croce. Gusta sprizza felicità da tutti i pori e si porta istintivamente accanto a Gerardo. Cerca di toccare il grammofono, ma la madre la allontana in modo brusco. Gerardo appoggia il grammofono sul tavolo e tutti, chi più, chi meno velocemente, si avvicinano in cerchio attorno alla strana macchina.)

GUSTA: (a Tomaso) “Saveu barba, aveo belo visto un conpai cuanche

ei fato chi tre mes de servizio do a Belun l an passà... ma chesto l me par ncora pi n bel!“

NINA: “É la Madona che à volù che te torne gnante a ciasa! Se te

stasee n tin de pi, te nparae la canaiada...” Anche le ragazze che andavano “a servizio” presso nobili o ricche famiglie, non costituivano un'eccezione in Auronzo. Appartenevano a famiglie non necessariamente indigenti, ma dove le bocche da sfamare erano parecchie o veniva a mancare improvvisamente il capofamiglia. Le più fortunate si sistemavano in zona, al massimo nel capoluogo, mentre per le altre si aprivano le strade della pianura o di qualche località d'oltreconfine.

Riaffiorano alla mente i racconti di mia nonna Nina (Nina de Bastian De Pona), di quando ai primi del '900 faceva la “serva” all'Hotel Ploner di Carbonin. Giornate lunghe, fatte di grandi “lessive”, pentole da pulire col “saulon”, “siole da sfreà”... col “sbos” in ginocchio, e incondizionata obbedienza verso i padroni. In quanto agli orari...

In mezzo a tanta servitù, non mancava mai di ricordare la figura, a lei cara di un'amica, la “cafèri”, così chiamata perchè addetta alla preparazione e distribuzione del caffè, che spesso “fasea sautà fora na cicra n de pi”. Il viso però le si illuminava e la voce tradiva un moto di orgoglio, quando descriveva l'arrivo nelle cucine, dell' elegante e bellissima figlia dei padroni, che la servitù accoglieva con un inchino e chiamava, con deferenza e ammirazione, “la madonna”. La guerra, prima, che costringeva le donne di qualsiasi età a sostituire gli uomini, chiamati al fronte; qualche occasione di lavoro, nata dall'iniziativa e intraprendenza di alcuni e, finalmente l'avvento del turismo, affrancheranno man mano la donna. Val la pena anche di gettare un occhio all'Almanacco Cadorino dell'erudito Antonio Ronzon, il quale già nell'anno 1873 annota la presenza in Auronzo di “un corso completo di scuole elementari e tre scuole femminili...” Testimonianza della sensibilità ed attenzione che le istituzioni avevano per “l'altra metà del cielo”.

PRIMO: (a Guanin) “ Ió feso l murador come voi, barba... ma se vado

adora a bete via algo de schei, me piasarae conprà un conpài!“

TOMASO: “Cossì te te maridiaras de zento ane... sasto ce che à da

costà n afar de sta sorta... come doe vace, seguro! GERARDO: “Eh... sì, costa un po', ma bisogna avere anche i dischi, altrimenti il grammofono da solo, non suona.” (Nina si tiene un po' lontana dal gruppo; inizia a sferruzzare e ogni tanto getta qualche occhiata... per tenere sott'occhio la situazione... Si apre la porta ed entra, come una furia, Giacomina)

GUANIN: “Ela ncora ca, sta baba…”

GIACOMINA: (concitata) “... eco mo, ogni promessa e n debeto, aveo nprometù n tin de formai vecio... èlo ca, zercià che bon... (tutti si allontanano turandosi il naso. Giacomina continua)… é fin pecà a magnàlo.“ (Nina si fa coraggio, ringrazia a muso duro, prende il piatto con il formaggio, sempre tenendolo lontano, lo copre con una pezzuola e lo mette fuori dal balcone.)

GIACOMINA: (rivolta al vecchio) “Sèu ncora vivo, barba Bepo? “
NINA: (risponde a Giacomina, ma guardando, torva, il padre) “Eh... fin

che é scorzete é vita! Avesse ió na coradela come chela del pare! L era restada sul stomego la comunion del Sabo Santo, e cossì, por parala do l à pensou ben de magnà por sora, algo de ledier...” (Giacomina fa ampi ed esagerati gesti di meraviglia... e stupore)

PRIMO: “É ruada chela da la marvea!“
TOMASO: (a Giacomina) “Ca mo, ca... Giacomina, vegnì a vede anche

voi sto gramofono.“ (Giacomina si avvicina guardinga, fingendo curiosità e stupore, perché da quando era entrata, da perfetta comare, aveva già inquadrato tutto quello che c'era nella stanza)

GIACOMINA: “Che n arnasio, Nina... elo chela machina gnoa che

aveà da conprà por fei su roba? (osserva la campana) ah… sì... ca se bete inze i toche de porzel… (tocca la manovella)… ca se gira... ma, no vedo agnó che vien fora le luguaneghe... ioso che arnasio... scometo che é roba de chi todesse!“ (Nina, disperata per le stupidaggini della comare, si porta le mani alla testa)

GUANIN: “Vegnì ca, Giacomina, che l dotorin l ne fei vede come che

l funzia...”

(Bussano: entra, senza attendere che qualcuno gli apra, il parroco.)

PARROCO: (con tono allarmato) “Ei sentiu che barba Bepo se é

agravou, e son coresto a vede, zenza gnanche passà de gesia a tole l oio santo...” (si avvicina al letto)

NINA: “Sì… sì... autro che oio santo... ntanto l à tolesto chel de

rizeno!“

(Il parroco si trattiene, parlottando con barba Bepo. Gerardo intanto, finiti i preparativi per far funzionare il grammofono, si accinge a girare la manovella.)

GERARDO: “Pronti?“

(Si sente bussare alla porta) GUANIN: “Ncora dente... é duto Zardus de sta cosina!“ (Adele va ad aprire. Entra il veneziano!) VENEZIANO: “Bona sera a tuta la conpagnia! Mi gavaria pensà, par sto canpeto, che se podarave far inte staltra maniera...” (Guanin non ha avuto neanche il tempo di reagire, ma allegrotto com'è, contento che Bepo non sta poi tanto male... che Gerardo gli ha portato il grammofono, dice:)

GUANIN: “Elo ncora da ste bande? Ca mo, ca... por ncuoi me tociarà

conpative... dute à la so cros! L viene ca ndavesin (il veneziano si avvicina)... ma nò massa... e l varde anche lui sto arnasio.“

VENEZIANO: “Cossa elo sta invension… sta novità? Siora Nina, la

me lassa a boca verta...”

GUANIN: “Eco, ades la sere e no l stese pi verdela!“
GERARDO: “Speriamo di poter sentire questa musica, finalmente!“
GUANIN: (dice a mezza voce a Tomaso) “Tomaso, de n tin al sera a

ciave la porta de cosina, senò vignarà su anche la vacia... (a voce alta, a Tomaso che si è già avviato)…e betè l paleto!“ (Adele sta sferruzzando, Nina cuce con fare nervoso, una suola per gli “scarpetti”, manovrando con abilità un grosso ago; gli altri stanno attorno al tavolo. Improvvisamente il nonno alza le coperte, in fretta scende dal letto, infila le ciabatte, uno scialle sulle spalle e borbottando…)

BEPO: “Tiriave n dalonde...”

(Scappa di corsa verso la porta. Adele, a tempo di record, lo precede e gli apre la porta. Guarda il gruppo che, preso alla sprovvista, osserva il letto vuoto)

TOMASO: (a Adele) “Ce mancia?“
NINA: “L é dù a rende conto dei scorzete!“

(Tutti si attendono per l'ennesima volta di sentire la musica; dopo alcune mandate di manovella i suoni invadono la stanza. Il gruppo ascolta in religioso silenzio per qualche secondo. Nina, senza dare nell'occhio, si avvicina a curiosare e Adele alza la testa, guardinga, perché simile debolezza profana non sia troppo notata... specialmente dal parroco. Guanin versa la grappa nei bicchierini e propone un brindisi, parlando ad alta voce.)

GUANIN: “Ades volarae fei nos-cè “eviva” por duta la dente che é

ca de cosina... (la voce assume un tono di circostanza) “Al me carissimo nevodo Primo... e speron che no l see gnanche l ultimo...”

TUTTI: (alzano il bicchierino) “Viva!“
GUANIN: “Beon algo por l pioan che da doi dis a sta parte l à ciapou

sta ciasa por la calonega!“

TUTTI: “Viva!“
GUANIN: “Fason n eviva por me fia Gusta, l sol dei me oce, e speron

che no la tire davoi de so mare... che pi parte la bete senpro a sconde la sgnapa!“

TUTTI: “Viva!”
GUANIN: ”Beon algo anche por chel toco de femena de me sió

Adele... che una conpagna no se la ciata n nessun luogo... nfati, fin ades nessun la à ciatada!“

TUTTI: “Viva!”
TOMASO: “Belo che se son betude, auzo l bicerin anche por sta cros

de n venezian... (guarda Guanin)... éro Guanin... chissà che n tin a l ota l se desmentee del vos cianpo do n Stropedo!“

TUTTI: “Viva!”
PRIMO: “Beon anche por Giacomina, che la se despiase de no avé n

pei de ree n depì e n autra lenga!“

TUTTI: “Viva!“
GUANIN:(avvicinandosi al pubblico) “Ce voleu che ve dighe, me tocia

bee n gozo anche por sto “òn“ de na femena, anche se calche ota la mandarae a magnà de cianà pede la vacia... ma guai se no la fosse! Agnó podarae ciatà una conpagna... roba fina... de anticuariato...”(Nina lo guarda storto)

GUSTA: “Ades, beon n gozo por l dotorin, che à avù tanta creanza a

portàne l gramofono!“

TUTTI: “Viva!“

(Nel frattempo si apre la porta. Tutti, di scatto, si girano. Entra, con incedere leggero ed espressione soddisfatta, barba Bepo. Guanin lo vede e gli porge un bicchierino che prende dal tavolo.)

GERARDO: “Io credo che sia giusto rendere l'onore delle armi a

barba Bepo... dopo questa “guerra di liberazione che ha dovuto combattere da solo…“

PRIMO: “Nene Nina, betè al seguro l formai vecio che à portou

Giacomina, se no sta ota no bastarà pi né l oio santo né chel de oliva!“

TUTTI: “Viva barba Bepo!“
GUANIN: (Gerardo rimette in funzione grammofono e si sente la

musica in sottofondo) “Ades disié ce che volé, ma se no la fermo, me sió Adele la farae ciauze por duto Auronzo...” Guanin va dalla sorella Adele che si ritrae impaurita e la coinvolge in un ballo... travolgente. Adele fa la ritrosa ma, costretta suo malgrado, cerca di...”peccare” facendo bella figura.

Gerardo invita Gusta, che fuori di sé dalla gioia, accetta senza indugio;Tomaso va da Nina e la porta con sé nel ballo. Primo non se la sente di stare a guardare e, dopo una rapida ispezione, è costretto ad invitare Giacomina che accetta di buon grado. Il vecchio Bepo guarda divertito e allunga una mano verso la bottiglia di grappa... il parroco volge gli occhi al cielo e lo aiuta a rimettersi a letto.

Ballano tutti felici.

FIN

Auronzo di Cadore, 25.06.1994

  1. 1) Conversazione registrata con la Signora Lucia Da Corte Zandatina (Ceta Furiera);
  2. 2) Ida Zandegiacomo De Lugan, da “Corone e Cros”,Tiziano Edizioni-pag. 60
  3. 3) G. Fabbiani,da “Auronzo di Cadore” Tip.Piave-Belluno-nota a pag. 151 17