Traduzioni e riduzioni/Poesia popolare eroica civile

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Poesia popolare eroica civile

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Favole Dal latino di Leone XIII
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POESIA POPOLARE EROICA CIVILE

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BREUS

V
iveva con sua madre in Cornovaglia:

un dì trasecolò nella boscaglia.

Nella boscaglia un dì, tra cerro e cerro,
vide passare un uomo tutto ferro.

Morvàn pensò che fosse San Michele;
s’inginocchiò: “Signore San Michele,

non mi far male, per l’amor di Dio!„
“Nè mal fo io, nè San Michel son io.

No: San Michele non poss’io chiamarmi:
cavalier, sì: son cavaliere d’armi„.

“Un cavaliere? Ma che cosa è mai?„
“Guardami, o figlio, e che cos’è saprai„.

“Che è codesto lungo legno greve?„
“La lancia: ha sete, e dove giunge, beve„.

“Che è codesta di cui tu sei cinto?„
“Spada, se hai vinto; croce se sei vinto„.

“Di che vesti? La veste è pesa e dura„.
“È ferro. Figlio, questa è l’armatura„.

“E tu nascesti già così coperto?„
Rise e rispose il cavalier: “No, certo„.

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“E chi la pose dunque, indosso a te?„
“Chi può„. “Chi può?„ “Ma, caro figlio, il re!„

ii

Il fanciullo tornò dalla sua mamma,
e le saltò sulle ginocchia: “Mamma,

mammina (cinguettò), tu non lo sai!
ho visto quello che non vidi mai!

un uomo bello più del San Michele
ch’è in chiesa, tra il chiaror delle candele!„

“Non c’è uomo più bello, figlio mio,
più bello, no, d’un angelo di Dio„.

“Ma sì, ce n’è, mammina, se permetti:
ce n’è, mammina: cavalier son detti.

E io, mammina, voglio andar con loro,
e aver veste di ferro e sproni d’oro„.

La madre a terra cadde come morta,
che già Morvàn usciva dalla porta;

Morvàn usciva e le volgea le spalle,
ed entrò difilato nelle stalle;

nelle stalle trovò solo un ronzino:
lo sciolse, vi montò sopra: in cammino!

Egli partì, nè salutò persona:
eccolo fuori, ecco che batte e sprona,

eccolo già lontano dal castello,
dietro quell’uomo ch’era così bello.

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iii

Dopo dieci anni, dieci tutti intieri,
Breùs, il cavalier de’ cavalieri,

sostò pensoso avanti quel castello.
Era fradicio e rotto il ponticello.

Entrò pensoso nella corte antica:
c’era tant’erba, c’era tanta ortica.

Il rovo vi crescea come una siepe,
e la muraglia piena era di crepe.

L’edera aveva la muraglia invasa:
l’erba copria la soglia della casa.

E l’uscio era imporrito e tristo a mo’
di tomba. Egli picchiò, picchiò, picchiò...

Ecco alfine una donna, ecco una donna
antica e cieca, che gli aprì. “Voi, nonna,

mi potete albergar per questa notte?„
“Albergar vi si può per questa notte,

albergar vi si può di tutto cuore,
ma l’albergo non è forse il migliore.

Chè questa casa è tutta in abbandono
da che il figlio partì, dieci anni sono„.

Era discesa una donzella in tanto,
che appena lo guardò, ruppe in un pianto.

iv

“Perchè piangete, buona damigella?
perchè piangete, cara damigella?„

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“Io voglio dirvi, sire cavaliere,
io voglio dirvi, che mi fa dolere.

È un mio fratello che, dieci anni fa
(ora sarebbe della vostra età),

ci abbandonò per farsi cavaliere.
Io piango appena vedo un cavaliere.

Se vedo un cavalier presso il castello,
piango pensando al mio dolce fratello„.

“Non avete la madre, o damigella?
non un altro fratello? una sorella?„

“Nessuno... almeno ch’io li veda in viso:
son, fratelli e sorelle, in paradiso.

Anche la mamma l’ha chiamata Iddio:
non c’è più qui che la nutrice ed io.

La mia madre morì dal dispiacere
quand’e’ partì per farsi cavaliere.

Ecco il suo letto presso il limitare,
ecco il suo seggio presso il focolare.

La sua crocetta porto sopra me.
Pel mio povero cuore altro non c’è„.

v

Mise un singhiozzo il cavalier d’un tratto.
Ella il pallido alzò viso disfatto.

La damigella alzò con meraviglia
gli occhi ch’aveano il pianto sulle ciglia.

“Iddio la mamma ancora a voi l’ha presa,
ch’ora piangete, che m’avete intesa?„

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“Ancora a me la mamma prese Iddio;
ma chi gli disse Prendila! fui io„.

“Voi? Ma chi siete? Qual è il vostro nome?„
“Morvàn il nome, Breùs il sopranome.

O sorellina, io sono pien di gloria:
ogni giorno ho contata una vittoria:

ma se potevo indovinar quel giorno,
che non l’avrei veduta al mio ritorno,

o sorellina non sarei partito!
o sorellina, non sarei fuggito!

Oh! per vederla qui sul limitare,
per rivederla presso il focolare,

per abbracciare qui con te pur lei
le mie vittorie tutte le darei:

sarei felice, pur ch’a lei vicino,
di strigliar tuttavia quel mio ronzino!„


la schiera d’artù

Il fanciullo diceva al guerriero,
     diceva a suo padre: “C’è nero
     sui monti!
     là tra la caligine scialba.

Oh! cavalli e cavalli e cavalli
     che passano in vista alle valli,
     sui monti!
     che rignano al freddo dell’alba.

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Tre per tre, tre per tre: cavalieri
     che vanno su grigi corsieri!
     son mille
     le lancie, che brillano forte.

Tre per tre, tre per tre, dietro nove
     bandiere; ed il vento le muove
     tra i mille:
     un vento che vien dalla morte!

Tre per tre. Tra bandiera e bandiera
     c’è un gitto di fionda. È la schiera,
     la schiera d’Artù,
     d’Artù che cavalca sui monti!„

— “S’è la schiera d’Artù; qua saette!
     se quella che va per le vette
     de’ monti, è la schiera d’Artù,
     qua l’arco di frassino; e pronti!„ —


il mago merlino

“Merlino, così mattiniero?
     dove vai col cane tuo nero? „
                              iù iù u iù iù u.

“Qui l’ovo ricerco del drago:
     l’ovo rosso: in riva del lago:
il vischio nel bosco, sul fonte;
     l’erba d’oro su per il monte„.

“Merlino convèrtiti! al monte
     lascia l’erba, il vischio sul fonte.
E lascia sul greppo del lago
     l’ovo rosso, l’ovo di drago.

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Merlino! Merlino! Merlino!
     Dio è il mago, Dio l’indovino
                                    iù iù u iù iù u.


la conversione di merlino

Dlin dlin nell’alta boscaglia tranquilla.
Viene Cadoc, con l’arguta sua squilla.

     Ecco uno spettro squallido e fosco:
     grigia la barba, fuoco lo sguardo.
     Chi mai? — Quel giorno vide nel bosco
     Cadoc il santo Merlino il bardo.

     Intorno il bosco nero e profondo.
     “Chi sei? nel nome, parla di Dio„.
     “Chi sono? Un tempo bardo nel mondo
     ero, ero in pregio grande, quest’io!

     Udia, movendo verso un castello,
     gridar di gioia sul mio cammino;
     vedea, toccando l’arpa bel bello,
     piover dall’alte quercie oro fino.

     — Canta il domani — dai cavalieri
     sentivo dire — non anco sorto! —
     e dalla folla — Cantaci l’ieri:
     cantaci, o bardo, quello ch’è morto! —

     Ora alla macchia vive Merlino:
     non più di gioia gridan le genti.
     Oh! quando vado, sul mio cammino
     lupi e cinghiali crocchiano i denti.

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     I re Bretòni? Morti. Alle sponde
     nostre i corsari vennero in guerra.
     L’arpa? Smarrita. Gli alberi donde
     pioveva l’oro fino? Per terra.

     Chi più mi dice nel bosco bruno
     — Canta le cose morte e lontane — ?
     Merlino il folle son detto: ognuno
     mi tira sassi come ad un cane„.

     “Povero figlio, pentiti, grida:
     Mercè, Signore! Perdonerà.
     Chi nel Signore nostro confida,
     avrà la vera felicità„.

     “In lui confido, che solo è buono,
     mercè gli chiedo, gli offro il mio pianto!„
     “Per la mia bocca dànno il perdono
     Padre, Figliuolo, Spirito santo„.


corvo, il prigioniero bretone

          Oh! caddero molti! ma preso
          fu Corvo, il più forte tra loro...
          C’è un leccio sul lido sonoro,
               c’è un leccio sul mare.

          Gli uccelli v’albergano a sera;
          la piuma è qua bianca là nera:
               gli uccelli di duna,
               gli uccelli di mare.

          Ed hanno una stella vermiglia,
          di sangue, tra mezzo le ciglia.
               Risplende la luna
               nel mezzo del mare.

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          Un corvo è tra loro, non bianco
          qua, nero là: nero; ed è stanco:
               oh! stanco e bagnato,
               chè viene dal mare:

          un corvo che viene di tanto
          lontano! Essi cantano un canto
               così modulato,
               che acquetano il mare:

          il mare che lascia di bere
          le sabbie e le amare scogliere:
               risplende la luna
               nel mezzo del mare.

          E cantano, cantano insieme;
          ma il corvo non canta; sì geme:
               “Uccelli di duna,
               uccelli di mare!

          cantate, uccellini del piano!
          cantate, uccellini di qui!
          che già non moriste lontano,
          che già non moriste così
               di là del mio mare„.


la morte del conte orlando

Qui sente Orlando      che la morte gli è presso:
chè gli esce fuor      dalle orecchie il cervello.
Dominedio      per i suoi Pari prega,
prega per sè      l’angelo Gabriello.
In mano il corno      (biasimo non vuole!) prende
e Durendal,      la spada, nella destra.

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Più che non può      quadrello da balestra,
ver Spagna va,      per un prato maggese.
A sommo un poggio      sotto due piante belle
quattro pietroni      fatti di marmo vede:
e’ cade là      rovescio sopra l’erba,
e tramortisce:      chè la morte gli è presso. AOI

Alte montagne      ed alberi ben alti:
quattro pietroni      v’ha lucidi di marmo:
sull’erba verde      è steso il conte Orlando.
Un saracino      ecco lo guarda e guarda:
s’è finto morto      e se ne sta tra gli altri:
il corpo e il viso      e’ si lordò di sangue.
Ecco si leva      e a correre s’avaccia.
Bell’era e forte      e di gran vassallaggio.
Per sua superbia      e’ cominciò quest’atto:
Orlando afferra      e suo corpo e sue armi;
e dice: “È vinto      il nipote di Carlo!
io porterò      la sua spada in Arabia„.
Prendela in pugno      e tira a lui la barba:
in quel tirare      egli rinvenne alquanto. AOI

Lì sente Orlando      che la spada gli è tolta;
ed apre gli occhi      e dice due parole:
“Per quel ch’io so,      tu non se’ già de’ nostri„.
Il corno tien,      che mai lasciar non vuole,
fiedel nell’elmo      ch’era di gemme e d’oro.
Sbriciola via      l’acciaio e il capo e l’ossa,
mettegli i due      occhi dal capo fuori,
a’ piedi suoi      sì lo distende morto.
Gli dice poi     : “Finto, che sì fosti oso,
che preso m’hai      nè a dritto nè a torto?
Uom non sarà      che non t’abbia per folle!„
Fenduto s’è      il padiglion del corno
ed il cristallo      sì n’è caduto e l’oro. AOI

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Lì sente Orlando      che la vista ha perduta:
levasi in piedi,      richiama sua virtù.
Nella sua faccia      ha il suo color perduto.
Tien Durendal      sua spada tutta nuda.
Davanti a lui      c’era una pietra bruna:
colpi vi dà      ben dieci in sua rancura:
crocchia l’acciaio,      non l’intacca nè rompe.
E dice il conte:      Santa Maria, aiuta!
Eh Durendal,      buona foste in malora!
se n’ho tal pro’      non ho di voi più cura.
Tante battaglie      ho vinto qui con voi,
tante terre      ho lontane combattute,
che Carlo tien,      che la barba ha canuta.
Non uomo v’abbia      ch’avanti ad altri fugga!
Un pro’ vassallo      v’ha lungo tempo avuta!
Mai tale in Francia      la libera non fu!„ AOI

Orlando fiede      il gran masso di sarda:
l’acciaio crocchia      e non si rompe e sgrana.
Quand’egli ciò      vede, che non si frange,
tra sè e sè      comincia a farne il pianto.
“Eh! Durendal      come sei chiara e bianca!
In contro al sole      come riluci e fiammi!
Carlo si stava      in val di Morïana:
Dio gli mandò      per l’angelo suo santo
che ti donasse      a un conte capitano.
E mi ti cinse      il re gentile, il magno.
Io conquistai,      con essa, Angiò e Bretagna,
e conquistai      e Poitou e Maine;
ne conquistai      Normandia la franca,
ne conquistai      Provenza ed Aquitania
e Lombardia      e tutta la Romagna:
ne conquistai      Baviera e tutta Fiandra
e Bugheria      e tutta ancor Pullagna:
Costantinopoli      ebbe la sua possanza

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ed in Sassonia      e’ fa ciò ch’e’ domanda:
ne conquistai      Guales Iscozia Islanda
e Inghilterra      dove egli tien sua stanza.
Io presi n’ho      paesi e terre tante
che Carlo tien,      che ha la barba bianca.
Molto mi pesa      e duol di questa spada:
meglio morire      che in Pagania rimanga.
Signor Dio padre,      onta difendi a Francia„. AOI

Orlando fiede      in una pietra bigia,
ne taglia via      quant’io non vi so dire.
La spada crocchia      e non si spezza e sbricia:
in contro il cielo      in alto s’è fuggita.
Il conte vede      che non la rompe mica
e dolce assai      tra sè la piange e dice:
“Eh! Durendal,      come sei bella e pia!
Nel pugno d’oro      assai ce n’è reliquie:
San Pietro un dente,      il sangue San Basilio,
capelli ci ha      monsignor San Dionigi,
e di sua veste      un po’ santa Maria.
Non t’hanno aver      pagani in sua balìa:
da Cristiani      tu devi esser servita.
Uomo non t’abbia      che faccia codardìa.
Molt’ampie terre      io ho con te conquise,
che Carlo tien,      ch’ha la barba fiorita.
L’imperator      n’è sì barone e ricco„. AOI

Orlando sente      che la morte lo prende
e dalla testa      sopra il cuor gli discende:
e sotto un pino      andato egli è correndo.
Sull’erba verde      egli si colca è stende;
sotto di sè      la spada e il corno mette;
volta la testa      alla pagana gente.
Per ciò l’ha fatto,      ch’e’ vuole veramente
che Carlo dica      e tutta la sua gente,

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Il gentil conte!      egli morì vincendo.
Grida sua colpa      ogni tanto, sovente:
pe’ suoi peccati      il guanto a Dio protende. AOI

Orlando sente      che tempo non n’ha più,
e verso Spagna      giace in un monte acuto.
Con una mano      il petto s’è battuto:
Deus, mea culpa,      tanta è la tua virtù,
pe’ miei peccati,      i grandi ed i minuti,
che ci ho commessi      dal dì che nato fui
sino a quest’ora      che qui non vivo più„.
Il destro guanto      verso Dio tende: a lui
calano allora      gli angeli di lassù. AOI

Il conte Orlando      giace sottesso un pino
e verso Spagna      egli ha rivolto il viso:
di molte cose      a ricordar gli prese
di tante terre      ch’egli, il baron, conquise,
di dolce Francia      e della sua famiglia,
di Carlo Magno,      suo sir, che lo nutrì;
e non può far      non pianga e non sospiri.
Ma già sè stesso      in tanto non oblia;
grida sua colpa      e mercè chiede a Dio:
“Dio padre vero      che giammai non mentisci,
Lazaro dal      sepolcro rivivisti,
e da’ leoni      Daniel guarentisti,
l’anima mia      salva d’ogni periglio
per i peccati      che in mia vita commisi„.
Il destro guanto      a Dio egli distese;
San Gabriel      dalla sua man lo prese.
Sopra il suo braccio      e’ tiene il capo chino:
giunte le mani,      è ito alla sua fine.
Dio gli mandò      l’angelo Cherubino
e San Michel      dal mare del periglio:
San Gabriel      insieme a lor discese:
l’anima sua      portano in Paradiso. AOI

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il tempo che fu

          Lo spettro d’un morto che amai
               è il tempo che fu.
          La voce che più non udrai,
          la speme che non avrai più,
          l’amor che non spengesi mai
               fu il tempo che fu.
          
          Che sogni soavi, le sere
               del tempo che fu!
          Ma i dì, fosse duolo o piacere,
          gettavano un’ombra, che tu
          volevi vederlo cadere
               quel tempo che fu.
          
          Rimpianto e rimorso ci adombra
               quel tempo che fu:
          è un tuo morticino ch’all’ombra
          tu vegli... e ciò ch’ami ora più
          non è che il ricordo, che l’ombra
               del tempo che fu.


per il mondo

— Mammina mia, ti lascio; ti lascio, o padre mio:
     addio, voi fratellini: voi cuginette, addio.
     Vado lontan lontano, vado di là del mare;
     vado, ma poi ritorno: mamma, non disperare.
     E quando sarò fuori, darò le mie novelle,
     con le guazze e le brine, con le rose e le stelle.

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     Voglio mandarti argento, ti manderò dell’oro,
     mamma, che tu pensare non puoi tanto tesoro!
— Va dunque; t’accompagni Maria dal buon consiglio,
     e la benedizione della tua madre, o figlio.
     Quando sarai lontano, pensa ai bimbetti, ai tuoi,
     che il mondo non ti faccia dimenticar di noi...
— Prima, mammina cara, prima morir vorrei,
     prima che per il mondo dimenticarmi i miei!
Passano dodici anni, dodici a uno a uno;
     non fu veduto ai porti, non vide lui nessuno.
     Un bacio: egli sospira; un altro: ed egli smuore;
     il terzo aveva il tòsco: mamma gli uscì dal cuore.


la figlia del re

Un uccellin cantava negli scopeti, solo;
     nè già come gli uccelli, al mo’ dell’usignolo:
     cantava e sì diceva l’amore che cos’è.
Ecco la reginella che venne al suo balcone:
     “Avessi io la tua grazia, caro, e la tua canzone!„
     “Figlia del re, gelosa, m’invidii tu... di che?
Tu dormi in un buon letto, tra due lenzuola d’aria,
     ed io sui monti in mezzo la neve solitaria.
     Tu il tuo damo aspetti, che passi e ti sorrida:
     ed io l’uccellatore che venga e che m’uccida„.


la camicina da morto

          L’è morto il bimbo. La madre piange:
          il giorno, piange; la notte, piange.
          E il bimbo morto le riappare

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     con sola in dosso la camicina;
     e dice: — Guarda: delle tue care
     lagrime è zuppa la camicina,
     ed io non posso dormire, mamma:
          non pianger più. —
     Sparisce il bimbo morto, e la mamma
          non piange più.


il cipresso

     Se un giorno passi tra i bianchi avelli,
     e, in un pensiero d’amor, m’appelli,
     un uccellino vedrai sul mio
     cipresso. Parla con lui: son io.

     Se tu m’appelli, se tu mi chiami,
     se mi ripeti che ancor tu m’ami;
     ascolta il vento ch’agita il mio
     cipresso. E parla con lui: son io.

     Ma se domata da un altro sposo
     insulti il luogo del mio riposo;
     ingrata, fuggi l’ombra del mio
     cipresso. Ingrata, l’ombra son io.

     Quell’uccellino fuggi, quel vento
     fuggi, ogni aspetto fuggi, ogni accento.
     Ma invano. Ovunque tu sei, del mio
     cipresso è l’ombra nera, sono io.

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la pace

Bella è la pace, vergine di grazia.
Essa è corcata al margine d’un rio,
e il saltellante gregge intorno spazia
candido per il prato solatìo:
dolce un suono ella trae dalla sua piva,
e gli echi intorno per il monte avviva;
o nel tramonto roseo la fanciulla
dorme, e dell’onde il chioccolìo la culla.


siamo sette

Vidi una cara contadinella,
ch’aveva ott’anni, come mi disse,
bionda, ricciuta, bella, assai bella
con le due grandi pupille fisse.

Presso il cancello stava. Ed io: “Figlia,
quanti tra bimbi, siete, e bimbette?„
chiesi. Con atto di meraviglia,
ella rispose: “Quanti, noi? Sette„.

“E dove sono? di’, se ti pare„,
le dissi, ed ella mi disse: “Ma...
noi siamo sette: due sono in mare:
altri due sono nella città;

altri due sono nel camposanto,
il fratellino, la sorellina:
in quella casa che c’è daccanto,
io sto, con mamma, loro vicina„.

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“Tu dici, o bimba, Due sono in mare,
altri due sono nella città;
e siete sette. Questo, mi pare,
è un conto, bimba mia, che non va„.

“Sette tra bimbe„ diceva in tanto
“e maschi, siamo. Due son qui presso
in un cantuccio del camposanto:
nel camposanto, sotto il cipresso„.

“Ma tu ti movi, tu corri: è vero?
tu canti, ruzzi, hai fame, hai sete:
se que’ due sono nel cimitero,
cara bambina, cinque voi siete„.

“Verde„ rispose “verde è il lor posto:
lo può vedere, lì, se le preme:
da casa un dieci passi discosto:
stanno vicini, dormono insieme.

Là vado a fare la calza, e spesso
vado a far l’orlo delle pezzuole:
mi siedo in terra, sotto il cipresso,
con loro, e loro conto le fole.

E spesso, quando la sera è bella,
e quando è l’aria dolce e serena,
io là mi porto la mia scodella,
e là con loro fo la mia cena.

Prima a morire fu Nina: a letto
tra sè gemendo, stette più dì.
Poi l’ha guarita Dio benedetto;
ed ecco allora ch’ella partì.

Nel camposanto così fu messa,
e quando l’erba non era molle,
io col mio Nino vicino ad essa,
mi divertivo sulle sue zolle.

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Poi quando cadde la neve, e bello
sarebbe stato correre, tanto;
dovè partire pure il fratello,
ed ecco che ora le sta d’accanto„.

“E quanti dunque siete ora voi
se quei due sono nel Paradiso?
“Sette„ rispose: “sette siam noi!„
meravigliando tutta nel viso.

“Ma sono morti quei due! ma sono
lassù! son anime, anime elette!„
“Che!„ ripeteva sempre d’un tono:
“No, sette siamo: no, siamo sette„.


ulisse

Re neghittoso alla vampa del mio focolare tranquillo
star, con antica consorte, tra sterili rocce, non giova:
e misurare e pesare le leggi ineguali a selvaggia
gente che ammucchia, che dorme, che mangia e che non mi conosce.
Starmi non posso dall’errar mio: vuo’ bere la vita
sino alla feccia. Per tutto il mio tempo ho molto gioito,
molto sofferto, e con quelli che in cuor mi amarono, e solo;
tanto sull’arida terra, che quando tra rapidi nembi
l’Ìadi piovorne travagliano il mare velato di brume.
Nome acquistai, che sempre errando con avido cuore
molte città vidi io, molti uomini, e seppi la mente
loro, e la mia non il meno; ond’ero nel cuore di tutti:
e di lontane battaglie coi pari io bevvi la gioia,
là nel pianoro sonoro di Troia battuta dal vento.
Ciò che incontrai nella mia strada, ora ne sono una parte.
Pur, ciò ch’io vidi, è l’arcata che s’apre sul nuovo:
sempre ne fuggono i margini via, man mano che inoltro.

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Stupida cosa il fermarsi, il conoscersi un fine, il restare
sotto la ruggine opachi nè splendere più nell’attrito.
Come se il vivere sia quest’alito! vita su vita
poco sarebbe, ed a me d’una, ora, un attimo resta.
Pure, è un attimo tolto all’eterno silenzio, ed ancora
porta con sè nuove opere, e indegno sarebbe, per qualche
due o tre anni, riporre me stesso con l’anima esperta,
ch’arde e desia di seguir conoscenza: la stella che cade
oltre il confine del cielo, di là dell’umano pensiero.
     Ecco mio figiio, Telemaco mio, cui ed isola e scettro
lascio; che molto io amo; che sa quest’opera, accorto,
compiere: mansuefare una gente selvatica, adagio,
dolce, e così via via sottometterla all’utile e al bene.
Irreprensibile egli è, ben fermo nel mezzo ai doveri,
pio, che non mai mancherà nelle tenere usanze, e nel dare
il convenevole culto agli dei della nostra famiglia,
quando non sia qui io: il suo compito e’ compie; io, il mio.
     Eccolo il porto, laggiù: nel vascello si gonfia la vela:
ampio nell’oscurità si rammarica il mare. Compagni,
cuori ch’avete con me tollerato, penato, pensato,
voi che accoglieste, ogni ora, con gaio ed uguale saluto
tanto la folgore, quanto il sereno, che liberi cuori,
libere fronti opponeste: oh! noi siam vecchi compagni;
pur la vecchiezza anch’ella ha il pregio, ha il compito: tutto
chiude la Morte; ma può qualche opera compiersi prima
d’uomini degna che già combatterono a prova coi Numi!
Già da’ tuguri sui picchi le luci balenano: il lungo
giorno dilegua, la luna insensibile monta; l’abisso
geme e sussurra all’intorno le mille sue voci. Venite:
tardi non è per coloro che cercano un mondo novello.
Uomini, al largo, e sedendovi in ordine, i solchi sonori
via percotete: ho fermo nel cuore passare il tramonto,
ed il lavacro degli astri di là: fin ch’abbia la morte.
Forse è destino che i gorghi del mare ci affondino; forse,
nostro destino è toccar quelle isole della fortuna,

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dove vedremo l’a noi già noto, magnanimo Achille.
Molto perdemmo, ma molto ci resta: noi siamo la forza
più che ne’ giorni lontani moveva la terra ed il cielo:
noi, s’è quello che s’è: una tempra d’eroici cuori,
sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri
sempre in lottare e cercare e trovare nè cedere mai.


guerra civile

“Morte! morte!„ ululavano. La folla
era tremenda. Un uomo, solo, andava
fiero tra la marea di quelle grida.
“Morte all’infame!„ Ed egli alzando un poco
l’omero, agli urli rispondea, “S’intende!„
Da casa sua lo trascinava in mezzo
all’accorrente popolo una schiera
di ribelli. Di sangue era spruzzato:
nere aveva di polvere le mani;
era una guardia: “a morte!„ Era una guardia,
incapace di tema e di perdono.
Andava; ed una donna, ecco, al colletto
l’afferrò. “Contro noi questi ha tirato!„
“È vero„ egli rispose. — “A morte! a morte!
Moschettiamolo! Qui! No: più lontano!
Alla Bastiglia! all’Arsenale! Andiamo!
Via!„ — “Dove voi vorrete„ egli rispose.
— “Il birro a morte! come un lupo!„ — “Un lupo
sì, chè voi siete i cani„ egli rispose.
— “Tu c’insulti, assassino?„ Ogni ribelle
il pugno chiuso sopra lui levava;
ed esso aveva l’ombra della morte,
sopra la fronte e il fiele nelle labbra.
Così con quel confuso ululo ai passi,

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egli muoveva, segno d’odio immenso
e pieno d’un immenso odio, alla morte.
— “Muoia! Poc’anzi s’era noi bersaglio
del suo fucile! Muoia! È un cane! un birro!
un brigante! una spia!„
                                            Quando: “È mio babbo„
disse di tra la folla una vocina.
Fu come un raggio subito; si vide
un bimbo di se’ anni. I suoi braccini
s’alzavano a pregare, a minacciare.
Era un sol grido intorno “Ammazza! Ammazza!„
e il bimbo si buttò tra le sue gambe
e le abbracciò, dicendo a lui: “Non voglio
che ti faccian del male„. E lo schiamazzo
cresceva: “Presto! È ora di finirla!
A morte il birro!„ Alle campane a stormo
rispondeva con cupa eco il cannone.
Era piena la via d’uomini truci
che gridavano: “A morte!„ E il fanciullino
loro gridò: “Ma è mio babbo, ho detto!„
Disse una: “È un bel bambino„. Un’altra
gli domandò: “Quant’anni ci hai, piccino?„.
“Non fate male al babbo„ egli rispose.
Qualche sguardo alla terra era già fisso,
e qualche pugno già tenea men forte
il prigioniero. Un arrabbiato, forse
il più feroce, disse al bimbo: “Scappa!
Vattene!„ — “Dove?„ — “A casa„ — “Per che fare?„
— “Da tua madre„ — “Sua madre„ disse il padre
“è morta„ — “Dunque non ha più che voi?„
— “Che c’entra?„ disse il prigioniero, e calmo
scaldava in seno quelle due manine.
E diceva al figliuolo: — “Maddalena...
tu capisci?„ — “La nostra casigliana?„.

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— “Sì: va da lei„ — “Con te? „ — “Vengo più tardi„
— “Senza te, no„ — “Perchè?„ — “Perchè non voglio
che ti faccian del male„.
                                            Allora il padre
parlò sommesso al capo della schiera:
— “Lasciatemi il colletto, e per la mano
sol mi tenete. Io gli dirò — Tra poco — .
Mi darà retta. Mi fucilerete
allo svolto, più là, dove vorrete„.
— “Sia„ disse il capo, liberando a mezzo
il prigioniero. Il padre disse: “Vedi?
Noi siamo amici. Vado a far due passi
con questi amici. Sii savio. Ritorna!„
Il bimbo porse al bacio ultimo il viso,
e persuaso tornò via.
                                                            — “Noi siamo
liberi„ disse il padre ai vincitori:
“su, fate pure: dove debbo andare?„
Allor su quella folla insanguinata
un infinito brivido trascorse,
e il popolo gridò: — “Va da tuo figlio!„


amerighetto

     Re Carlomagno dalla barba bianca
torna di Spagna. È triste in cuore: esclama
dentro sè: “Roncisvalle! Roncisvalle!
Gan traditore!„ chè il nepote Orlando
è morto là coi dodici suoi Pari.
Ed ora il boscaiuol della montagna
grave e sereno nella sua capanna
è rientrato, con ai passi il cane:
bacia la moglie in fronte, e dice: è fatto.

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Lava l’arco ed il corno alle fontane.
S’imbianca al sole un infinito ossame.

     Re Carlo è pien di noia e di dolore,
e il suo destriero sorïano ancora.
Re Carlo piange, piange dal martoro
d’aver perduto i suoi Pari, i suoi prodi,
i suoi migliori, il suo gentil nepote,
e la battaglia! Ed anche più s’accora
che ci faranno su tanti racconti,
ci caveranno su tante canzoni;
cent’anni se ne parlerà nei monti:
morti per mano di villan’ guasconi!

     Intanto, va. Dopo tre dì, si vede
sopra l’ultima cima di Pirene.
Allora guarda nello spazio immenso.
Lontano, scorge bianca sulla vetta
d’un monte, una città, gagliardo arnese
di guerra, e sono due torri a vedere
ad ogni porta; a noverar, ben trenta
torri maestre con lucidi tetti
di stagno; e v’ha petriere saracene
grondanti ancor di resina e di pece;
ed un castello in mezzo, così bello,
che a dipingerlo un dì non basterebbe,
un dì di luglio. Il piombo afforza i merli.
Un balestriere ad ogni balestriera
veglia alla posta da mattina a sera.

I doccioni di mostri hanno le gole:
sopra il più alto suo colmigno rosso
è un dïamante grande come il sole,
che da tre leghe occhio fissar non può.
A manca l’ampio azzurreggiar dell’onde,

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pieno di vele bianche. Di sui monti
re Carlo guarda muto quelle torri.

     “O savio Namo, duca di Baviera,
che terra è quella presso la riviera?
Chi l’ha, può dirla sola sotto il cielo.
Or io son triste e posso essere allegro!
Sì: dovess’io restar nella vallea
quattordici anni, o uomini di guerra,
o miei compagni, capitani, arcieri,
figli, leoni! San Dionigi attesto:
non muovo un passo, se non ho la terra!„
Ascolta e freme il duca di Baviera.

     “Comprala dunque, perocchè nessuno
la prenderà! Guardano le sua mura,
coi Bearnesi, ventimila Turchi,
ed ha ciascuno doppia l’armatura.
Noi? trionfammo, certo, noi; ma una
volta! Ora siamo men che donne, tutti
spossati, in cerca d’un letto di piume:
il meno stanco, eccolo: è il più canuto,
son io. Re Carlo, io parlo senza lustre.
Poi, dove hai tu petriere e catapulte?
Cavalli e genti, non se ne può più.
Assalir con le freccie quelle mura
noi può pensar che il folle che sei tu„.

E Carlo al duca: “Non hai detto come
si chiama„.
                     “Sfugge, a questa età, qualcosa.
Pietà, signore, per i tuoi baroni!
Noi vogliamo tornare a casa nostra,
ai nostri focolari, ai nostri amori:
chè chi conquista sempre, mai non gode.
Terre, n’abbiamo prese, Imperadore,

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da raddoppiare il vostro tenitoro.
Oh! ne farebber essi dalle torri
le grasse risa. Per aver soccorsi,
se qualche matto vi darà di cozzo,
hanno, scavate dalla man dei Mori,
tre vie sotterra: l’una a Bordò, sbocca
l’altra a Bastàn, la terza, dal demonio„.
E Carlo al duca: “Non m’hai detto il nome
“Narbona„.
                   E Carlo: “Ed io voglio Narbona„.

     Vide passare Dreus di Mondidieri.
“Conte„ gli disse “il duca di Baviera
non regge più. Prendetemi la terra
voi, di Narbona, ed io vi do potere
di qui, su tutto, sino a Mompellieri.
Voi siete, credo, pianta di buon seme:
fu vostro padre un cavalier dabbene.
Su, le scale!„
                           Rispose Mondidieri:
“Imperadore, ad altro non mi sento
buono, che a giubilar: da tanto vesto
usbergo e maglia, e porto elmo e visiera!
Ho la febbre, ho bisogno del mio letto,
soffro, alle gambe, d’una piaga aperta;
è più d’un anno che mi corco, senza
spogliarmi. Lascio a voi questo paese„.
Carlo senz’ira volse gli occhi lento.
L’orïafiamma palpitava al vento.

     Cercò degli occhi Ugo di Cotentino.
Questi era prode e conte palatino.
“Narbona è vostra, Sire Ugo„ gli disse:
“non dovete che prenderla„.
                                                    “Felice„
a lui rispose Ugo di Cotentino,

[p. 187 modifica]

“lo zappatore! Gratta egli la terra
bruna o sia rossa, dopo un po’ rientra
nel suo tugurio, ed è già bello e lesto.
Io, vinsi già Trifone e Gaifferro;
io, caldo o freddo, vesto sempre ferro;
appena dì, la tromba, ecco, mi desta.
Non ci ho fìbbia che tenga, nella sella.
Dura, da un pezzo in qua, questa novella:
corcarsi tardi per alzarsi presto,
e alzarsi per toccar busse... Mio re,
date Narbona a un altro„. Sopra il petto
Carlo appoggiò le bianche onde del mento.
L’orïafiamma palpitava al vento.

     Toccava ognun col gomito il vicino,
zitti. E’ chiamò Rizier di Normandia:
“Voi siete un grande, e di lignaggio ardito;
non vorreste voi far tale conquista?„
“Io, per la grazia, son duca, di Dio:
cercate, a ciò venturïeri, o Sire:
una duchea basta a chi ha la mia„.
Tanto parlò Rizier di Normandia.

     Verso il conte di Gand volse lo sguardo
l’Imperadore: “Un tempo di tua mano
tu m’abbattesti Malgirone il ladro.
Il dì che tu nascesti sulla spiaggia
del mar, l’audacia penetrò col fiato
dentro il tuo petto. Io non potrò scordare
mai l’allegria che ti brillò d’un tratto
nell’occhio ardito, un dì, che camminando
soli noi due, sentimmo nella piana
il confuso tintinno delle lancie
dei Mori. Il rischio tu l’hai sempre amato:
prendi Narbona: te ne fo sovrano„.

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     “Oh! fossi in Fiandra!„ disse il conte: “ho fame,
Imperadore, e la mia gente ha fame.
Questo paese, il diavolo l’ha fatto:
ci abbiam mangiato, invece di buon grano,
topi, e rospi talora, i dì di scialo.
Se mi offriste, per dar questa scalata,
l’oro di Salomone tutto quanto,
no! vado in Fiandra ove si mangia il pane„.
“Il buon Fiammingo! egli convien che mangi!„
con un sorriso disse allor re Carlo.

     “Stolto che sono! cerco un prenditore
di terre, e meco è Eustacchio, il buon falcone!
Eustacchio, a me! Dura è, vedi, Narbona!
ell’ ha trenta castelli, ell’ ha tre fossa,
una cert’aria ell’ ha d’assai scontrosa;
una trincea si vede ad ogni porta,
e guarda! là sei vecchie grandi torri.
Non s’è giunti alla fine, che bisogna
farsi da capo, o tòrsi giù... che importa?
Eustacchio, non sei tu l’aquila?„

                                                            “Un pàssero,
un fringuello, mio re! Torno alla fratta,
torno al mio nido. Vogliono la paga
le mie genti, ed io son povero in canna:
niuno che dia per me, senza contanti,
un colpo d’azza: sciagurati! Quanto
a me, sono annoiato: mi fa sangue
il vecchio pugno. Sono pesto, affranto.
Ci si dilomba, Sire, alle battaglie.
S’odia alla fine ciò che già s’amava.
Ci si consuma, ci si sloga, s’hanno
la gotta ai reni, a piedi e mani i calli.
Torna gallina, chi partì già falco.

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Cerco una cuffia: assai n’ho del pennacchio
e della gloria!„
                                                   Stava Carlo muto:
il suo destrier raspava il suol con l’unghia
come intendesse: andavano le nubi
sulla silenzïosa solitudine.

     E Gerardo era presso con lo stuolo
suo. Carlo venne verso lui: “Mio prode,
voi d’un romano antico avete il cuore,
e la fortezza: quella terra è vostra„.
Gerardo riguardò cupo e pensoso
la sua maglia di ferro fatta roggia;
la poca gente che davanti loro
sfilava, trista; il vecchio gonfalone
tutto stracciato e il suo cavallo zoppo.
“Tu pensi e pensi„ Carlo disse: “come
un chierico nel suo studio: ci vuole
tanto pensare, ad accettar Narbona?„
“Grazie„ disse Gerardo, “ho terre altrove„.

     Erano queste sopra i Pirenei
le voci de’ guerrieri, e tra le quercie,
le interrompea lo scroscio de’ torrenti.

     L’Imperadore, ad uno ad un, si volse
ai capitani, a tutti i suoi più forti
e più rischiosi: a Ugo di Borgogna,
Garino, Arnaldo, Oggieri, Alberto, Oddone,
a tutti: tutti dissero di no.

     Allora alzando il suo capo canuto;
sugli arcioni levatosi su tutto;
tratta la spada, scintillante e nuda;
con voce piena d’un echeggiar cupo;
pari all’aquila nera tra le nubi;

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“Vili!„ gridò. “Oh! miei Conti caduti!
oh! tra mezzo alla strage ed alla fuga
diritti, con la vostra alta statura,
sempre, Oliviero! Orlando! Queste mura
per il vostro gran cuore erano un nulla!
Non guardavate tanto per minuto,
non contavate i passi ad uno ad uno,
voi! sempre avanti! O nella tomba oscura
sepolti! foste qui con me, voi due!
Il mondo noi lo prenderemmo tutto.

     Ed ora? Gli occhi miei cercano un prode,
per fare ciò che far ci resta ancora:
dai morti ai vili, e poi dai vili ai morti
passano invano. Ed io non voglio l’onta:
giù! sotto i piedi! O voi baroni e conti
che mi seguiste fino a questi monti,
Normanni, Lorenesi, Borgognoni,
Piccardi, Franchi, via dalla persona
mia! lungi dalla mia funebre tromba!
a casa! via! vi scaccio! non vi voglio
più! ritornate dalle vostre mogli!
vivete in pace! vivete da nonni!
Io da me solo assedierò Narbona.
Io me ne resto qui pieno di gioia
e di speranza! E quando nella dolce
Francia sarete, o vecchi vincitori,
e quando i piedi scalderete al fuoco,
col dosso volto ai rischi ed alla gloria,
se alcun vi chiede: E il vostro imperadore?
risponderete puntellando gli occhi
nella parete: Ma... fugimmo il giorno
d’una battaglia, così via di corsa,
che non sappiamo dove egli restò!„

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     Carlo così, chiamato Carlomagno,
il re de’ Franchi, imperador romano,
alto parlava in cima alla montagna:
i mandrïani, sparsi nelle macchie,
credevano d’udir tuoni lontani.

     I baroni tenean gli occhi alla terra
fissi: taceva ognuno. Un giovinetto
ben fatto uscì d’un subito di schiera;
e disse: “Dio vi custodisca, o re„.

     Il re stupito lo guardò. Ver lui,
come Davidde avanti il re Saulle,
veniva, dolce, gracile, sicuro,
un giovinetto biondo, con la cute
rosea, le mani bianche: una fanciulla
vestita ad uomo, egli parea: con nulla
sopra lo scudo e sopra la barbuta.
“Tu...„ disse Carlo “cosa vuoi qui tu?„
“Io voglio quello che non vuol nessuno:

l’onore, o re, se Dio non m’abbandona,
d’essere l’uom che prenderà Narbona„.

Tanto con l’aria sua semplice disse
egli guardando tutti quanti in viso.
Alzato il capo, “To’„ disse il fiammingo
ad un guerriero ch’egli avea vicino:
“Amerighetto il nostro compagnino„.

     “Amerighetto„, il re disse: “il tuo nome„.
“Amerigo. Son io povero, come
un fraticello povero. Non ho
paglia nè vena; ed ho venti anni, e sono
baccelliere: non altro. A me niun dono
fece Fortuna: mi dimenticò!

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Copre le terre di cui son signore
un soldo; e il cielo è piccolo al mio cuore.
Io vincerò; poi se ne resta ancora,
chi mi ha beffato, lo castigherò„.

     Raggiante come l’angelo di Dio,
disse re Carlo: “Per San Dionigi!
io ti faccio, per questo alto sentire,
sir di Narbona e conte palatino:
e a modo ti si parlerà. Va, figlio!„

Il giorno dopo prese la città.


il rospo

Era un tramonto dopo il temporale.
C’era a ponente un cumulo di cirri
color di rosa. Presso la rotaia
d’un’erbosa vïottola, sull’orlo
d’una pozza, era un rospo. Egli guardava
il cielo intenerito dalla pioggia;
e le foglie degli alberi bagnate
parean tinte di porpora, e le pozze,
annugolate come madreperla.
Nel dì che si velava, anche il fringuello
velava il canto, e dopo il bombir lungo
del giorno nero, pace era nel cielo
e nella terra.
                           Un uomo che passava
vide la schifa bestia, e con un forte
brivido la calcò col suo calcagno.
Era un prete, e leggeva in un suo libro.
Venne una donna con un fiore al busto,
ed in un occhio le cacciò l’ombrella.
Vecchio era il prete e bella era la donna.

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Quattro ragazzi vennero, sereni,
allegri, biondi; ognuno avea sua madre,
a scuola andava ognuno. “Ah! la bestiaccia!„
dissero. Il rospo andava saltelloni
per la scabra vïottola cercando
la notte e l’ombra. Ed ecco, i quattro bimbi
con una brocca a pungerlo, a picchiarlo,
a straziarlo. Sotto i colpi il rospo
schiumava, e i bimbi: “Come è mai cattivo!„
L’occhio strappato ed una zampa cionca,
cincistiato, slogato, insanguinato,
non era morto; e gli voleano i bimbi
gettare un laccio; ma scivolò via
arrancando. Incontrò la carreggiata,
vi si annicchiò fra l’erba verde e il fango.
Ed i fanciulli in estasi e in furore
s’erano certo divertiti un mondo.
— Guarda, Piero! Di’, Carlo! Ugo, dà’ retta!
prendiamo per finirlo, ora un pietrone. —
E rossi in viso empivano di strilli
la dolce sera. Intanto uno rivenne
con una grossa lastra; “Ecco trovato!„
A stento la reggea con le due mani
piccole e s’aiutava coi ginocchi.
“Ecco!„ E ristette sopra il rospo, e gli altri
a bocca aperta, senza batter ciglio,
stavano intorno con la gioia in cuore.
E quello alzò la lastra — Uno... due...
                                                                                  Quando
videro un carro che venia tirato,
là, da un asino vecchio, zoppo, stanco,
con gli ossi fuori e con la pelle rotta.
Il barroccio veniva cigolando
nei solchi delle rote, trascinato

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dalla povera bestia. Essa il barroccio
tirava, e aveva due cestoni indosso.
La stalla, dopo un giorno di fatica,
era ancor lungi, il barrocciaio urlava,
e segnava ciascuno Arri d’un colpo.
Il solco delle rote era profondo,
pieno di melma, e così stretto e duro
eh* ogni giro di rota era uno strappo.
L’asino s’avanzava rantolando
tra una nuvola d’urla e di percosse.
La strada era in pendìo: tutto il gran carro
pesava sopra il ciuco e lo spingeva.
Ed i fanciulli videro, e gridando
al lor compagno “Fermo con la pietra!„
dissero: “il carro passerà sul rospo:
c’è più gusto così„.
                                      Dunque, in attesa,
sgranavano gli allegri occhi i fanciulli.
Ecco, scendendo per la carreggiata,
dove il mostro attendea d’essere infranto,
l’asino vide il rospo; e tristo, curvo
sopra un più tristo, stracco, rotto, morto,
sembrò fiutarlo con la testa bassa.
Il forzato, il dannato, il torturato,
oh! fece grazia! Le sue forze spente
raccolse, e irrigidendo aspre le corde
sugli spellati muscoli, ed alzando
il grave basto, e resistendo ai colpi
del barrocciaio, trasse con un secco
scricchiolìo, fuori, e deviò la ruota,
lasciando vivo dietro lui quel gramo.
Poi riprese la via sotto il randello.
     Allor nel cielo azzurro dove un astro
già pullulava, intesero i fanciulli
Uno che disse: Siate buoni, o figli!

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pierino

     Esso nacque e sua madre
morì. La Morte per il suo cammino
come è distratta a volte!
dimenticò di prendere il bambino.
Un anno dopo, il padre
riprese moglie, e il bimbo
aveva torto d’esserci. Un buon vecchio
l’esserino accettò, ch’era di troppo.
Chiusi gli occhi tenea nella sua culla
e la boccuccia mezza aperta al sonno:
il vecchio in braccio si recò quel nulla
caldo e divenne madre.
                                          Era suo nonno.

    Quando si resta al mondo
un po’ di più, che c’è di meglio a fare
ch’essere mite e buono?
essere quello che, via via che passa,
gente ne spera il piccoletto dono?
quello che, gente picchia alla sua porta,
ed e’ s’affaccia col pio capo bianco?
quello che prende su ciò ch’ha lasciato
di sè la madre morta?
quello che al bimbo che ricerca il petto
di mamma, e annaspa con le sue manine,
porta la capra che lascia il capretto
sopra le balze alpine?

     Dunque Pierino nacque,
fu povero orfanello, ebbe gli occhioni
di cielo col riflesso

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del latte, e poi, bel bello,
quel solitario balbettìo sommesso
che par la boschereccia d’un uccello:
fu l’angelo ch’è l’uomo,
avanti d’esser uomo: ed il suo nonno
lo contemplava al mo’ che si contempla
un cielo che si dora:
e quel tramonto amava quell’aurora.

     Il nonno lo portò nella sua casa
antica e grande in mezzo a un gran giardino.
Oh! quanto verde! Intorno
c’erano peri e meli,
un tremolar di steli,
frulli di foglie e d’ale,
un gridìo di cicale,
nel grave mezzogiorno,
e poi, tra lusco e brusco
i pigolìi sommessi
de’ nidi sui cipressi;
e cinguettìi di polle,
e lo sdrucciolo molle
dell’acqua in mezzo al musco:
era per l’angioletto un paradiso
quell’antico giardino!
Al paradiso s’avvezzò Pierino.

     Sua balia era una capra,
suo fratello di latte era un capretto:
e il caprettino adesso
già facea le sue corse ed i suoi sbalzi;
e l’omettino anch’esso
volle incignare i suoi piedini scalzi.
E fece il primo passo
e fatto il primo, volle farne un altro...
un altro... un altro... E via col capo avanti

[p. 197 modifica]

e con le braccia avanti,
trempellando, nuotando, vacillando
tra le tremule mani del buon avo,
che gli era intorno e gli diceva: “Vieni
op! non ti tengo più... là... là... là... bravo!
O bei giorni sereni!
Com’erano contenti!
S’udian due risatine a quando a quando,
ch’erano tutte e due la gentil cosa!
ch’erano tutte due di color rosa
senza biancor di denti.

     Egli era il re; suo nonno
era il suo servo. “Babbo, aspetta!„ Il nonno
aspettava. “No, vieni!„ Egli veniva.
“Ridi!„ Rideva. “Canta!„
Cantava... O famigliuola
tra i nidi e l’ombre, sola, sola, sola:
l’uno, du’ anni, e l’altro, su gli ottanta!
l’uno diceva l’ultime parole,
l’altro le prime: ed erano le stesse.
Diceva il nonno al bimbo le più care,
le meglio che sapesse,
per farlo compitare:
dicea: “Pierino core del mio core!„
e lui: “Pielino cole del mio cole„.
Li benediva il sole.

     E suo padre? Suo padre
vivea con l’altra moglie: e nella casa
intanto era un novello essere entrato:
a Pierino era nato
un fratello e vagìa nella sua culla,
Pierino non sapeva
e non vedeva nulla;

[p. 198 modifica]

avea suo nonno, e molto era beato.
Altro per lui non c’era.
E suo nonno, una sera,

     morì... Non se ne accorse
Pierino; non capì. Spesso suo nonno
gli avea detto: “Pierino,
presto, domani forse,
morrò: questo tuo povero nonnino
che ti voleva tanto tanto bene,
non lo rivedrai più...„ Sì; ma Pierino
non lo capiva un sonno
che non ha caffè e latte al suo mattino!

     Un prete andava innanzi mormorando
le sue preghiere. Verde era e fiorita
la campagna, odoravano le siepi.
Alcuni vecchi raccogliean la voce
del prete con un brontolio discorde.
Una vacca aggiaccata sopra un greppo
li guardò coi suoi grandi occhi materni.
Dietro l’umile cassa era il piccino.
Si giunse al camposanto solitario
cinto d’una macèa verde di felci,
senza cipressi, senza monumenti,
pieno solo di croci e di fiorranci.
S’entrava da un cancello, che la notte
si chiudeva. Alle verdi aste di legno
s’attorcigliava un’edera. Pierino
(perchè mai?) si fermò con gli occhi fissi
a riguardare il tremulo cancello.

Dopo due mesi... — “Brutto!
sudicio! sporco! Non si può guardare!
Via! Non lo voglio a tavola. Oh! ecco

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io non ci reggo più! Mangia lui tutto!
Domani acqua e pan secco!
Lèvati, brutto! Vattene, cretino!
Nato male!„ A chi parla ella...? A Pierino.

     O povero Pierino!
Dopo portato il nonno al camposanto,
venne un uomo (suo padre) ed una donna
con un bambino, l’altro. E quella donna
l’aborriva, e Pierino non capiva.
Ma pianse, e quanto! quanto!
S’addormentava a sera
con gli occhi pieni zeppi del suo pianto;
11 riapriva a giorno
con una meraviglia nera nera.
“O dov’è?„ — non appena era veduto,
“che fai costì?„ — gli si diceva, ed esso
a poco a poco s’appartò nell’ombra:
era come una culla
che si affonda nell’acqua a poco a poco.
Non rise più: gli presero i balocchi
suoi, per darli a quell’altro. Non un giuoco
più: non parlava più: solo con gli occhi
grandi cercava intorno.
Il cocchino d’un tempo
diventò l’appestato, il maledetto.
Suo padre non vedeva: egli vedeva
con gli occhi della moglie!
Oh! era stato un angioletto; ed ora?...
Gli si diceva: “Al diavolo...„ La cosa
però finiva in baci ed in carezze...
oh! non a lui — “Mio bottoncin di rosa!
mia gioia e luce! vita mia! cuor mio!
Io v’ho lassù rubato
il più bello dei vostri angioli, o Dio!

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io porto il vostro paradiso in collo!„
Pierino in terra, muto, in un cantuccio,
si ricordava un po’... Quelle parole
non gli eran nuove. Non piangeva. Il viso,
lo smunto suo visino,
voltava in là. Guardava fiso fiso
all’uscio del giardino.

     Una sera... una sera
lo cercano: non c’era
più. Dov’era? D’inverno!
per una nottataccia orrida e buia!
La neve avea coperte
le traccie dei suoi piedi. Ecco, e Pierino
si ritrovò soltanto
sul fare del mattino.
Qualcun nella nottata
avea creduto di sentir per aria
una voce di pianto,
una voce di vento solitaria:
“Papà! Papà! Papà!„ Tutto il villaggio
cercò di qua, cercò di là. Pierino
era nel camposanto.
Egli era steso, freddo come pietra,
avanti quel cancello.
Com’era giunto per la gran pianura,
dentro la notte scura
sino all’entrata? Delle sue manine
una toccava un’asta del cancello.
Avea voluto aprire.
Lì dentro era qualcuno che l’amava!
Avea chiamato tanto! tanto! tanto!
“Papà! Papà! Papà!„
Era caduto alfine,
rimpetto al camposanto.

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Pierino s’era anch’esso addormentato
a quattro passi dal suo vecchio amico.
L’avea chiamato: il nonno
non si destava: e allor gli pigliò sonno.