Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera LIV

Da Wikisource.
Lettera LIV

../Lettera LIII ../Lettera LV IncludiIntestazione 7 settembre 2020 75% Da definire

Lettera LIII Lettera LV
[p. 168 modifica]

LETTERA LIV

Bologna, 12 giugno.

Quest’oggi, non so perché, una placida calma addormentava quasi i miei sensi. Il mio cuore tacea, né gli occhi potevano staccarsi dall’azzurro sereno dei cieli. Quanto dolce mi sembrava questa muta contemplazione delle cose di lassú! Sei tu forse, eterno Iddio, che mi sollevi da terra, e mi chiami?... Oh! Padre della natura, vedimi giacente e desolato. Tento invano di stenderti le braccia, ché la tua voce mi sgrida e mi atterrisce! Io l’ho pur lasciata!... e queste lagrime e questo cuore abbastanza ti esprimono tutto il dolore del fatai sacrifizio. Ma ch’io non l’ami?... Oh, Padre! dura, aspra, impossibil cosa tu mi comandi... E non le facesti tu stesso l’angelico volto e i divini suoi occhi? tu le rosee labbra, tu il bianco seno, tu la voce soave e il tenero cuore... Non l’ami tu? O Dio! non sdegnarti; tuona, fulmina, [p. 169 modifica] percuoti;... ma lasciami le mie lagrime, il mio amore, la mia Teresa...

Lorenzo, io deliro. Tu vedi come la mia vantata tranquillitá è simile alla breve calma d’un uomo che agonizza. E pure sento, e ancor parmi d’udire una voce, non so se uscita dal cielo o dal profondo dei sepolcri, che acutamente mi grida: — Vieni! — Sí: fiacco, languente e riarso, abbisogno di quiete, di riposo... e di eterno riposo! Ma perché la morte, tanto desiata, non vola pietosa a liberarmi? So che dovrei attendere gli ordini della provvidenza; ma, quando io spiro naturalmente, Dio non mi comanda di lasciar la vita... Ei me la toglie! E, qualor me la rende funesta, disperata, insoffribile, non è lo stesso che comandarmi ch’io me ne spogli?... È un diritto sacro di natura il cercare il proprio benessere e fuggire il male. O Lorenzo! questi forse sono sofismi ed orribili bestemmie; ma l’intelletto mio offuscato non vede, non comprende, non ascolta che il proprio cuore e la sua passione.

E cosí, come io ti diceva, mi sembrava d’esser tranquillo. Ho scorso anche con insolita curiositá le contrade piú popolose ed allegre. È amenissimo il paese, e famoso poi, come tu sai, pei suoi portici, le sue torri e l’antico suo liceo. Dopo lungo passeggio, mi sono trovato, su l’imbrunire della sera, in un sito delizioso ed alquanto elevato, sparso qua e lá di spaziosi arbori ed antichi. Ove, s’io non m’inganno, si stende nel mezzo un largo piano, circondato d’altissimi abeti e di frondose querce. La vista soave della biondeggiante pianura e delle vicine collinette rallegra insieme ed avviva. Qui si raccolgono pacificamente i cittadini; e quale assiso sui lunghi sedili di pietra, e chi sdraiato in seno dell’erbe o sotto i mormoranti rami d’una quercia o su la riva d’un limpido e basso ruscello, gode tranquillo l’aura vezzeggiarne e fresca della sera. Il sito vien detto la «Montagnola». Spirava un vento dolce dolce che, fischiando fra le branche degli arbori, agitava piacevolmente le fronde. Era il cielo sereno: scintillavano di vaga luce le sparse stelle, e la tacita luna ignuda passeggiava l’emisfero, riflettendo il suo queto raggio sull’erboso terreno. Avresti veduto le gaie fanciulle adagiarsi soavemente sul braccio de’ loro giovani innamorati e sospirar sommessamente d’amore. Quivi una ninfa voluttuosa, vestita no, ma vagamente velata i suoi fianchi... Ma quali cose, o Lorenzo, ti vo giammai descrivendo? Ah, l’aspetto del piacere è doloroso al cuore d’un infelice! Noiato quindi delle umane frivolezze, trassi il mio piede lá [p. 170 modifica] fra il piú folto degli arbori, ove regnava una mesta solitudine. Alcune torce, che splendeano lugubramente a piè della riva, mi scoprirono una scena... ahi quanto diversa! In mezzo a gran mucchi di rosi teschi e di sparso ossame s’apriva una stretta fossa: io stesso vidi, al breve canto funebre di pochi sacerdoti giú calarsi un lurido cadavere, e poi coprirlo d’alcune zolle di terra. — O tu — meco stesso dicea, — che vicino a questo campo di morte mollemente sorridi colle grazie e t’inebri nel seno della tua Venere, non odi il flebil suono di quelle sacre querele, non senti il sordo rimbombo dell’intirizzito cadavere, che giú piomba nella fossa, non ti ferisce l’orecchio la funesta campana? Qui t’appressa, o superbo, un istante; qui al margine di quei sepolcri mira l’ossa spolpate ed inaridite de’ tuoi fratelli; e qui si giacciono le membra d’un giovane, che forse poco fa si godeva al rezzo di queste piante, bello e gentile al pari di te!... — Con tutto questo, Lorenzo, credi forse che i ridenti piaceri fuggissero da quei luoghi? No: l’uomo si rende, coll’uso, familiare a tutti gli orrori; e l’ho veduto talvolta scherzar in seno delle piú fatali disgrazie, e banchettar pacificamente in mezzo agli umani cadaveri ed al sangue!