Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera XLIV

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Lettera XLIV

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Lorenzo F. a chi legge Lettera XLV
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LETTERA XLIV

Mezzanotte.

Io porgeva alla Divinitá i miei ringraziamenti e i miei voti; ma io non l’ho mai paventata. Eppure, adesso che sento tutto il flagello della sventura, adesso la temo e la supplico.

Ma non per questo le ho dato gli attributi, di cui la vile superstizione, l’avara impostura e il fanatismo sanguinario l’hanno vestita, per rendere meno orribile la tirannide e opprimer piú gli uomini, acciecando il loro intelletto e prostrando il lor cuore.

È vero! gl’infelici hanno bisogno di un altro mondo, diverso da questo, ove mangiano un pane amaro e bevono l’acqua mescolata alle lagrime. L’immaginazione lo crea e il cuore si consola. La virtú, sempre infelice quaggiú, persevera con la speranza di un premio. Ma sciagurati coloro che per non essere scellerati hanno bisogno della religione.

Mi sono prostrato in una chiesetta posta in Arquá..., perché sentiva che la mano di Dio pesava sopra il mio cuore. [p. 138 modifica]

Son io debole forse, Lorenzo? Che il cielo non ti faccia mai sentire la necessitá della solitudine, delle lagrime e di una chiesa!

In questa mattina, oppresso da una febbre piú ardente, ricadde a letto. Teresa mi aveva scritto:

Noi perderemo il nostro amico... Immaginatevi l’imbarazzo e il dolore in cui mi trovo... Mi duole profondamente nell’anima, ma... purtroppo io non vedo che un solo rimedio! Vi scongiuro, usate di tutti i mezzi dell’amicizia per determinarlo a partire.

Inferocivano allora in Italia con piú vigore le turbolenze. Non v’era piú legitima autoritá. L’anarchia vi regnava. Non leggi, ma tribunali onnipotenti; non accusatori, non difensori, bensí spie di pensieri, delitti ignoti, pene rapide, inappellabili. I piú sospetti gemeano in carcere: gli altri, benché di antica ed onesta fama, tratti di notte dalle proprie case, legati dai sgherri, trascinati ai confini, abbandonati alla ventura senza l’addio de’ congiunti, destituiti di sostanze e di umano soccorso. Per alcuni altri l’esilio, scevro da questi modi violenti ed infami, fu somma clemenza. Ed io pure, tarda ma non ultima vittima, vo da piú mesi errando profugo per l’Italia, e volgendo senza niuna speranza gli occhi lagrimosi alle sponde della mia patria.

In questo tempo io confidava nella mia oscuritá, ma temeva altrettanto per la fama di Iacopo: la sua partenza gli era perciò necessaria doppiamente. Ma, non avendo io potuto né con ragioni né con preghiere distorlo dalla sua passione, la rispettava tacendo; e, dubitando dall’altra parte che il mio consiglio gli fosse sospetto, ricorsi a sua madre, e, mostrandole l’imminente sciagura del figlio, attesi li difficili tempi, la indussi, quantunque desolata e piangente, a scrivergli di cercar intanto un asilo in altro paese. E ne riescii, poiché la materna pietá accrebbe il pericolo col fervor de’ consigli.

La lettera fu inviata con un fidato messo, perché si dubitava che non venisse violata la secretezza delle lettere. Giunse ai colli Euganei la sera de’ 30 maggio, e trovò Iacopo ancora [p. 139 modifica] malato. Egli lesse altamente la lettera a Teresa, che stava seduta presso il suo letto; poi la lasciò sul guanciale. Poco dopo la rilesse sommessamente, e pareva molto commosso; ma non ne parlò.

La mattina seguente, Teresa si meravigliò vedendosi comparir Iacopo, perch’ella, lasciandolo, gli aveva raccomandato di starsene a letto, promettendogli di tornare per tempo a tenergli compagnia fino a sera. Egli disse che si sentiva meglio e che il letto dava noia e fiacchezza. Pranzò svogliatamente, parlò poco; ma pareva piú tranquillo del solito. Leggendo a Teresa il Paolo e Virginia di Saint-Pierre, si lasciò cadere il libro di mano e, guardando immobile il cielo, esclamò: — Onnipotente Iddio! così ti compiaci a disgiungere i cuori che creasti perché vivessero uniti? sola felicitá che compensi le miserie della vita!... —

Naturalmente egli favellava sempre con enfasi; ma allora la passione infiammava tutte le sue parole e il di lui stato compassionevole commovea maggiormente chi l’ascoltava. Teresa volea parlagli della sua partenza; ma, intenerita da questa esclamazione, non le soffrì il cuore, e si tacque. Egli ravvolta il libro e proseguì; ma, giunto alla partenza di Virginia, lo chiuse istantaneamente, dicendo: — Partirò anch’io. —

Teresa lodava la sua risoluzione di contentare la madre e di provvedere, partendo, alla sua sicurezza e alla sua infelice salute... — E alla sua pace! — aggiuns’egli, interrompendola. Ella ammutolì. Temeva che Iacopo non le manifestasse sveltamente il suo amore, e al solo pensarlo tremava. Incominciava a parlargli, ma non sapeva di che. Prese finalmente l’arpa e si pose a suonare: l’aspetto di Iacopo ritornò subito piú sereno, i suoi occhi piú vivi, e gli spuntava mestamente fra le labbra un sorriso. Com’ella ebbe terminato, la pregò che suonasse una certa aria patetica; e, mentre lo compiaceva, egli pareva innondato da una deliziosa tristezza: poi, poco a poco, chinò la testa e ricadde in una malinconia piú profonda di prima. Teresa se n’avvide, e cessò.

Ella, facendomi questo racconto: — Non mai — mi disse — l’anima mia è stata maggiormente angustiata. Io dubitava delle [p. 140 modifica] sue risoluzioni: voleva persuaderlo a partire. Talvolta mi venia in pensiero di scongiurarlo perché non s’arrischiasse a un viaggio, così malato com’era; ma il timore ch’egli mi svelasse la sua passione mi chiudeva la bocca. —

Iacopo intanto s’alzò e le baciò due volte la mano. Scendendo la scala, incontrò la Giovannina, se la strinse al petto e, risalendo, la posò in grembo alla madre: passeggiò per la stanza; poi se ne andò.

Tornato a casa, rimandò il messo, rispondendo a sua madre che domani all’alba partiva. Fece ordinare i cavalli alla posta piú vicina. Prima di coricarsi, scrisse la lettera seguente per Teresa e la consegnò all’ortolano. Sul far del giorno partì.