Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/Brindisi

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Brindisi

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A San Giovanni Apologia del Lotto
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BRINDISI.



Amici, a crapula
     Non ci ha chiamati
     Uno dei soliti
     Ricchi annoiati,

Che per grandigia
     Sprecando inviti,
     Gonfia agli applausi
     De’ parasiti.

A diplomatica
     Mensa non siamo
     D’un Giuda in carica
     Che getti l’amo,

E tra gl’intingoli
     E tra i bicchieri
     In pro de’ Vandali
     Peschi i pensieri.

Ma un capo armonico,
     Volendo a cena
     Una combriccola
     Di gente amena,

S’è messo in animo
     Di sceglier noi,
     Di mezza taglia,
     Compagni suoi;

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Razza burlevole
     Che non dà retta
     Ai gravi ninnoli
     Dell’etichetta.

Difatti esilia
     Da questa stanza
     La parte mimica
     Dell’eleganza;

Nè per mobilia
     Si pianta allato
     Tanto la seggiola
     Che il convitato.

Non ci solletica
     Con cibi strani,
     Sì che lo stomaco
     Senta domani

Fastidio insolito
     Di stare in briglia
     Nell’ordinario
     Della famiglia.

Non ci abbarbaglia
     Coll’apparecchio,
     Perchè del pubblico
     S’empia l’orecchio

Sulle stoviglie,
     Sul vasellame,
     D’un panegirico
     Nato di fame.

Queste son misere
     Ambizioncine
     Di teste anomale
     E piccinine,

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Che nel silenzio
     D’un nome nullo,
     Per fare strepito
     Fanno il Lucullo;

Sono ammennicoli
     E spampanate
     Di certe anonime
     Birbe dorate,

Che tra noi ronzano
     Alla giornata
     Come gli opuscoli
     Di falsa data;

E così tentano
     Turar la bocca
     Sopra un’origine
     Lercia o pitocca.

Oppur son cabale
     Da rifiniti,
     Che alla vigilia
     D’andar falliti,

Si danno l’aria
     Dell’uomo grande,
     Che ha l’oro a staia,
     Che spende e spande.

Qui non si veggono
     Fin sulla scala
     Tappeti, fronzoli,
     Livree di gala;

Nè di risparmio
     Bizzarro impasto
     Sotto i magnifici
     Fumi del fasto,

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Immaginatevi,
     Passar via via
     Lanterna magica
     Di piatteria,

Per cui s’annosano
     Arrosto e vino,
     Mostrato in copia,
     Dato a miccino.

Qui non ci decima
     Sempre il migliore
     Il sotterfugio
     D’un servitore,

Che d’oro luccichi
     Le spalle e il petto,
     E di panatica
     Viva a stecchetto.

Di qui non tornano
     Polli in cucina
     Buoni a rifriggersi
     Per domattina;

Ma i piatti girano
     Tre volte almeno;
     Non si può muovere
     Chi non è pieno;

E tutti asciugano
     Bottiglie a scialo,
     Senza battesimi
     Nè prese a calo,

Che vanno e vengono
     Sempre stappate,
     E si licenziano
     Capivoltate.

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Ecco un’immagine
     Pretta e reale
     Del fare omerico,
     Patriarcale;

Ecco la satira
     Chiara e lampante
     D’un pranzo funebre
     Detto elegante,

Ove si cozzano
     Piatti e bicchieri
     In un mortorio
     Di ghiotti seri;

E lì tra gli abiti
     E i complimenti,
     L’imbroglio, il tedio
     T’allega i denti;

O ti ci ficcano
     Così pigiato,
     Che senza gomiti
     Bevi impiccato.

A un tratto simile
     Di cortesia,
     Risponda un brindisi
     Pien d’allegria,

Ma schietto e libero,
     Sì che al padrone
     Non mandi l’alito
     Dello scroccone.

Adesso in circolo
     Diamo un’occhiata,
     Tastando il debole
     Della brigata.

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Siam tutti giovani,
     E grazie al cielo
     In corpo e in anima
     Tutti d’un pelo;

Tutti di lettere
     Infarinati,
     Tutti all’unisono
     Per tutti i lati.

Se come Socrate
     Talun qui pensa
     In Accademia
     Mutar la mensa,

Siam tutti all’ordine,
     Al suo comando,
     Tagliati a ridere
     Moralizzando.

Ma sulla cattedra
     Resti ogni lite
     Di metafisiche
     Gare sciapite;

Fuori il puntiglio,
     Fuori il vanume,
     Fuori il chiarissimo
     Pettegolume.

Un basso strepito
     Si sa per prova
     Che il tempo lascia
     Come lo trova;

E in vil ricambio
     Di fango o incenso,
     Vi gioca a scapito
     Fama e buon senso.

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Se poi v’accomoda,
     O male o bene,
     Dire in disordine
     Quel che vien viene,

Zitte le ciniche
     Baie all’ingrosso,
     Che a tutti trinciano
     La giubba addosso;

Zitto l’equivoco
     Da Stenterello,
     Che sa di bettola
     E di bordello.

Facciam repubblica
     Senza licenza;
     Nessun ci addebiti
     Di maldicenza;

E tra le celie
     Del lieto umore,
     Tutti si scottino,
     Meno il pudore.

Se nelle lepide
     Gare d’ingegno
     Tizio Sempronio
     Dà più nel segno;

Se a fin di tavola
     E a naso rosso
     Una facezia
     V’arriva all’osso;

Non fate broncio
     Come taluno,
     Che, se nel muoversi
     Lo tocca un pruno,

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Soffia, s’inalbera
     E si scoruccia,
     £ per cornaggine
     Si rincantuccia.

È vero indizio
     Di testa secca,
     Quando la boria
     Ti fa cilecca,

Buttarsi al serio
     Dietro un ripicco
     Nato da stimolo
     Di fare spicco.

Certa lunatica
     Stiticheria
     Copra l’invidia
     Di vecchia arpia,

Che in mezzo secolo
     Non s’è cavata
     Nemmen la smania
     D’esser tentata;

E nella noia
     Di quattro mura
     Si tappa al vizio
     Che non la cura.

O giovi ai Satrapi
     Che stanno in tuono,
     E nel bisbetico
     Cercano il buono.

Con dommi stitici
     Da veri monchi,
     La via s’impacciano
     Di mille bronchi,

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E si confiscano
     I cinque sensi,
     Vivendo a macchina
     Come melensi.

Come? un ascetico
     Di cuore eunuco,
     In dormiveglia
     Tra il santo e il ciuco,

Scomunicandoci
     L’umor giocondo,
     Vorrà rimettere
     Le brache al mondo?

Oh, senza storie
     Tanto noiose,
     I savi cingono
     Bontà di rose;

E praticandola
     Cortese e piana,
     La fanno agevole
     E popolana.

All’uomo ingenuo
     Non fa lusinga
     Certa selvatica
     Virtù solinga,

Virtù da istrice,
     Che, stuzzicato,
     Si raggomitola
     Di punte armato.

Lasciamo i ruvidi,
     Che a grugno stufo
     La gente scansano
     Facendo il gufo,

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Chiusi al contagio
     Del mondo infetto
     Di sè medesimi
     Nel lazzeretto.

Noi nati a starcene
     Fuor del deserto,
     Tra i nostri simili
     Col cuore aperto,

Tiriamo a vivere
     Da buona gente,
     Raddirizzandoci
     Piacevolmente.

Qui l’amor proprio
     Sia cieco e sordo;
     Qui punzicchiamoci
     Tutti d’accordo;

E senza collera
     Nè grinta tosta,
     Facciamo a dircele,
     Botta e risposta.

Meglio alla libera
     Buttarle fuori,
     Che giù nel fegato
     Covar rancori;

Falsare un animo
     Meschino o reo,
     Sotto l’alchimia
     Del Galateo.

Ai galantuomini
     Non fa paura
     Una reciproca
     Gaia censura.

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All’amichevole
     Burlarsi un poco,
     Fa pro, solletica,
     Riesce un gioco;

E quel sentirsele
     Dire in presenza,
     Prova l’orecchio
     Della coscenza.

Ma già le snocciola
     Come le sente
     Tanto la Camera
     Che il Presidente;

Già della chiacchiera
     L’estro s’infiamma;
     Sento l’aculeo
     Dell’epigramma;

Gli atleti s’armano
     Tutti a duello:
     Guai alle costole
     Di questo e quello.

Bravi! la gioia
     Che qui sfavilla
     Del fluido elettrico
     Par la scintilla,

Che dal suo carcere
     Appena mossa,
     Il primo e l’ultimo
     Sente la scossa.

Via, ricordiamoci
     Di fare in modo
     Che il dire e il bevere,
     Non faccia nodo,

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E, se ci pencola
     Sotto il terreno,
     Rimanga in bilico
     La testa almeno.