Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/Nell'occasione che fu scoperto a Firenze il vero ritratto di Dante fatto da Giotto
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NELL’OCCASIONE
CHE FU SCOPERTO A FIRENZE IL VERO RITRATTO DI DANTE
FATTO DA GIOTTO.
Qual grazia a noi ti mostra,
O prima gloria italica, per cui
Mostrò ciò che potea la lingua nostra?
Come degnasti di volgerti a nui
Dal punto ove s’acqueta ogni desio?
Tanto il loco natio
Nel cor ti sta, che di tornar t’è caro
Ancor nel mondo senza fine amaro?
Ma da seggio immortale
Ben puoi rieder quaggiù dove si piange;
Tu sei fatto da Dio, sua mercè, tale,
Che la nostra miseria non ti tange.
Soluto hai nelle menti un dubbio grave,
E quel desio soave
Che lungamente n’ha tenuti in fame,
Di mirar gli occhi tuoi senza velame.
Nel mirabile aspetto
Arde e sfavilla un non so che divino
Che a noi ti rende nel vero concetto:
A te dinanzi, come il pellegrino
Nel tempio del suo voto rimirando,
Tacito sospirando,
Sento l’anima mia che tutta lieta
Mi dice: or che non parli al tuo Poeta?
Diffusa una serena
Mestizia arde per gli occhi e per le gene,
E grave il guardo e vivido balena
Come a tanto intelletto si conviene;
E nello specchio della fronte austera,
Qual sole in acqua mera,
Splende l’ingegno e l’anima, sicura
Sotto l’usbergo del sentirsi pura.
Tal nella vita nuova
Fosti, e benigne stelle ti levaro
Di cortesia, d’ingegno in bella prova,
E di valor, che allora ivan del paro.
Così poi ti lasciò la tua diletta,
La bella giovinetta,
Nella selva selvaggia incerto e solo,
Armandoti le penne a tanto volo.
Così fermo e virile
Frenar tentasti il tuo popolo ingiusto;
Così, cacciato poi del bello ovile,
Mendicasti la vita a frusto a frusto,
Ben tetragono ai colpi di ventura;
E della tua sciagura
Virtù ti crebbe, e potè meglio il verso
Descriver fondo a tutto l’Universo.
Solingo e senza parte
Librasti in equa lance il bene e il male,
E nell’angusto circolo dell’arte
Come in libero ciel spiegasti l’ale.
Novella Musa ti mostrava l’Orse,
E fino a Dio ti scôrse
Per lo gran mar dell’essere l’antenna,
Che non raggiunse mai lingua nè penna.
Sempre più c’innamora
Tua visïon che poggia a tanta altezza:
Nessun la vide tante volte ancora,
Che non trovasse in lei nuova bellezza.
Ben gusta il frutto della nuova pianta
Chi la sa tutta quanta;
In lei si specchia cui di ben far giova,
Per esempio di lei Beltà si prova.
Forse intera non vedo
La bellezza ch’io dico, e si trasmoda
Non pur di là da noi; ma certo io credo
Che solo il suo Fattor tutta la goda.
E così cela lei l’esser profonda:
E l’occhio che per l’onda
Di lei s’immerge prova il suo valore;
Tanto si dà quanto trova d’ardore.
Per mille penne è tôrta
La sua sentenza; e chi là entro pesca,
Per gran sete d’attingere vi porta
Ambagi e sogni onde i semplici invesca.
Uno la fugge, un altro la coarta,
O va di carta in carta
Tessendo enimmi, e sforza la scrittura
D’un tempo che delira alla misura.
Per arte e per inganno
Di tal cui sol diletta il pappo e il dindi,
Mille siffatte favole per anno
Di cattedra si gridan quinci e quindi:
O di te stesso guida e fondamento,
Ai pasciuti di vento
Dirai che indarno da riva si parte
Chi cerca per lo vero e non ha l’arte.
Ben v’ha chi sente il danno,
E chi si stringe a te, ma son sì pochi
Che le cappe fornisce poco panno:
Padre, perdona agl’intelletti fiochi,
Se tardo orecchio ancor non ha sentito
Tuo nobile ruggito;
Se fraude spiuma, se iattanza veste
D’ali di struzzo l’aquila celeste.
Io, che laudarti intendo
Veracemente, con ardito innesto,
Tremando all’opra e diffidando, prendo
La tua loquela a farti manifesto.
Se troppa libertà m’allarga il freno,
Il dir non mi vien meno:
Lascia ch’io venga in piccioletta barca
Dietro il tuo legno che cantando varca.
Maestro, o Signore,
O degli altri poeti onore e lume,
Vagliami il lungo studio e il grande amore
Che m’han fatto cercar lo tuo volume.
Io ho veduto quel che s’io ridico,
Del ver libero amico,
Da molti mi verrà noia e rampogna,
O per la propria o per l’altrui vergogna.
Tantalo a lauta mensa
D’ogni saper, vegg’io scarno e digiuno,
Che scede e prose e poesie dispensa,
E scrivendo non è nè due nè uno.
Oimè, Filosofla, come ti muti,
Se per viltà rifiuti
De’ padri nostri il senno, e mostri a dito
Il settentrïonal povero sito!
Qui l’asino s’indraca
Stolidamente, e con delirio alterno
Vista la greppia poi raglia, si placa,
E muta basto dalla state al verno.
Libertà va gridando ch’è sì cara
Ciurma ozïosa, ignara,
E chi per barattare ha l’occhio aguzzo;
Nè basta Giuda a sostenerne il puzzo.
L’antica gloria è spenta,
E le terre d’Italia tutte piene
Son di tiranni, e un martire doventa
Ogni villan che parteggiando viene.
Pasciuto in vita di rimorsi e d’onte,
Dai gioghi di Piemonte,
E per l’antiche e per le nuove offense
Caina attende chi vita ci spense.
Oggi mutata al certo
La mente tua s’adira e si compiagne
Che il Giardin dell’Imperio abbia sofferto
Cesare armato con l’unghie grifagne.
La mala signoria che tutti accora
Vedi come divora
E la lombarda e la veneta gente,
E Modena con Parma n’è dolente.
Volge e rinnova membre
Fiorenza, e larve di virtù profila
Mai colorando, che a mezzo novembre
Non giunge quello che d’ottobre fila.
Qual è de’ figli suoi che in onor l’ama,
A gente senza fama
Soggiace, e i vermi di Giustinïano
Hanno fatto il suo fior sudicio e vano.
Basso e feccioso sgorga
Nel Serchio il bulicame di Borbone,
E in quel corno d’Ausonia che s’imborga
Di Bari, di Gaeta e di Crotone;
E la bella Trinacrï
Che là dov’arde e fuma
Dall’alto monte vede ad ora ad ora
Messo Palermo a gridar — mora, mora!
Al basso della ruota
La vendetta di Dio volge la chierca:
La gente che dovrebbe esser devota,
Là dove Cristo tutto dì si merca,
Puttaneggiar co’ regi al mondo è vista;
Che di farla più trista
In dubbio avidi stanno, e l’assicura
Di fede invece la comun paura.
Del par colla papale
Già l’ottomanna tirannia si sciolse,
Là dove Gabriello aperse l’ale,
E dove Costantin l’aquila volse.
Forse Roma, Sionne e Nazarette,
E l’altre parti elette,
Il gran decreto, che da sè è vero,
Libere a un tempo vuol dall’adultero.
Europa, Affrica è vaga
Della doppia ruina; e le sta sopra
Il Barbaro, venendo da tal plaga
Che tutto giorno d’Elice si cuopra,
E l’angla nave all’orïente accenna:
Ma, lenta, della Senna
Turba con rete le volubili acque
La Volpe che mal regna e che mal nacque,
E palpitando tiene
L’occhio per mille frodi esercitato
All’opposito scoglio di Pirene
Delle libere fiamme inghirlandato,
Temendo sempre alle propinque ville
Non volin le faville
Di spenta libertà sopra i vestigi,
E d’uno stesso incendio arda Parigi.
Ma del corporeo velo
Scarco, e da tutte queste cose sciolto,
Con Beatrice tua suso nel Cielo
Cotanto glorïosamente accolto,
La vita intera d’amore e di pace
Del secolo verace
Ti svia di questa nostra inferma e vile;
Sì è dolce miracolo e gentile.
E beato mirando
Nel volume lassù triplice ed uno,
Ove si appunta ogni ubi ed ogni quando,
U’ non si muta mai bianco nè bruno,
Sai che per via d’affanni e di ruine
Nostre terre latine
Rinnoverà, come piante novelle,
L’Amor che muove il Sole e l’altre stelle.