Viaggio in Dalmazia/De' Costumi de' Morlacchi/14. Musica, e Poesia; danze, e giuochi

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14. Musica, e Poesia; danze, e giuochi

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14. Musica, e Poesia; danze, e giuochi
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§. 14. Musica, e Poesia; danze, e giuochi.

Nelle rustiche conversazioni, che si raccolgono particolarmente nelle case dove v’ànno di molte fanciulle, si perpetua la memoria delle Storie Nazionali de’ tempi antichi. V’è sempre qualche Cantore, il quale accompagnandosi con uno stromento detto Guzla, che à una sola corda composta di molti crini di cavallo, si fa ascoltare ripetendo, e spesso impasticciando di nuovo le vecchie Pisme, o Canzoni. Il canto Eroico de’ Morlacchi è flebile al maggior segno, e monotono: usano anche di cantare un poco nel naso, il che s’accorda benissimo collo stromento, cui suonano; i versi delle più antiche loro Canzoni tradizionali sono di dieci sillabe, non rimati. Queste poesie ànno de’ tratti forti d’espressione, ma appena qualche lampo di fuoco d’immaginazione, nè quello ancora è sempre felice. Esse fanno però un grand’effetto sull’anima degli ascoltanti, che a poco, a poco le imparano a memoria; io ne ò veduto alcuno piagnere, e sospirare per qualche tratto, che a me non risvegliava veruna commozione. È probabile che il valore delle parole Illiriche meglio inteso dai Morlacchi abbia prodotto questo effetto; o forse, il che mi sembra più ragionevole, le anime loro semplici, e poco arricchite d’idee raffinate ànno bisogno di piccioli urti per iscuotersi. La semplicità, e il disordine, che si trovano sovente combinati nelle antiche Poesie de’ Trovatori Provenzali, formano il principal carattere de’ racconti poetici Morlacchi generalmente parlando. Ve n’ànno però di ben [p. 89 modifica]ordinati: ma è sempre necessario, che chi gli ascolta, o legge supplisca da per se a un gran numero di piccioli dettagli di precisione, de’ quali non possono mancare senza una sorte di mostruosità le narrazioni in prosa, o in versi delle Nazioni colte d’Europa. Non m’è riuscito di trovare Canzoni, la data delle quali sia ben provata anteriore al XIV. secolo; del che temo possa esservi una cagione analoga a quella, che ci fè perdere tanti libri Greci, e Latini ne’ tempi della barbarie religiosa. Mi è venuto sospetto, che si potrebbe forse rinvenire qualche cosa d’antico molto più addentro fra’ Merediti, e gli abitanti de’ Monti Clementini, che menano una vita pastorale, separati quasi intieramente dal commercio delle altre Nazioni: ma chi può lusingarsi di penetrare impunemente fra quelle popolazioni affatto selvaggie, e impraticabili? Io confesso, che mi sentirei coraggio bastevole per intraprendervi un viaggio; non solamente coll’oggetto di trovarvi delle antiche Poesie, ma per conoscere la Storia fisica di quelle contrade totalmente incognite, e rinvenirvi forse de’ gran vestigj Greci, o Romani: ma troppe cose vi vogliono per mandare ad effetto sì fatti desiderj.

Io ò messo in Italiano parecchi Canti Eroici de’ Morlacchi, uno de’ quali, che mi sembra nel tempo medesimo ben condotto, e interessante, unirò a questa mia lunga diceria. Non pretenderei di farne confronto colle Poesie del celebre Bardo Scozzese, cui la nobiltà dell’animo Vostro donò all’Italia in più completa forma, facendone ripubblicare la versione del Ch. Abate Cesarotti: ma mi lusingo, che la finezza del Vostro gusto vi ritroverà un’altra spezie di merito, ricordante la semplicità de’ tempi Omerici, e relativo ai costumi della Nazione. Il testo Illirico, cui troverete dopo la mia traduzione, vi metterà a portata di giudicare quan[p. 90 modifica]to disposta a ben servire alla Musica, e alla Poesia sarebbe questa lingua, vocalissima, ed armoniosa, che pur è quasi totalmente abbandonata, anche dalle Nazioni colte, che la parlano. Ovidio, mentre vivea fra gli Slavi del Mar Nero, non isdegnò di esercitare il suo talento poetico facendo versi nell’idioma loro, e n’ottenne lode, ed applauso da que’ selvaggi; quantunque si vergognasse poi d’aver profanato i metri Latini, per un ritorno di orgoglio Romano1. La Città di Ragusi à prodotto molti Poeti elegantissimi, ed anche delle Poetesse di lingua Illirica, fra’ quali è celebratissimo Giovanni Gondola; nè le altre Città litorali, e dell’Isole di Dalmazia ne furono sprovvedute: ma i troppo frequenti italianismi ne’ dialetti loro introdottisi ànno alterato di molto l’antica semplicità della Lingua. I conoscitori di essa (col più dotto de’ quali, ch’è l’Arcidiacono Matteo Sovich di Ossero, io ò avuto su di questo particolare lunghissime conferenze) trovano egualmente barbaro, e ripieno di voci, e frasi straniere il dialetto de’ Morlacchi2. Ad ogni modo, il Bosnese, che parlasi da’ Morlacchi fra terra, [p. 91 modifica]è pegli orecchi miei più armonioso, che l’Illirico litorale; nè questo possono aver per male i Dalmatini maritimi, da che gli orecchi miei sono ben lontani dal pretendere d’esser giudici competenti in sì fatta materia. Ma torniamo alle Canzoni.

Il Morlacco, viaggiando pelle montagne deserte, canta, e particolarmente in tempo di notte i fatti antichi de’ Baroni, e Re Slavi, o qualche tragico avvenimento. Se s’incontra, che su le vette d’un monte vicino un altro viaggiatore cammini, ei ripete il verso cantato dal primo; e questa alternazione di cantare continua [p. 92 modifica]fino a tanto, che la distanza divide le due voci. Un lungo urlo, ch’è un oh! modulato barbaramente precede sempre il verso; le parole, che lo formano, sono rapidamente pronunziate quasi senz’alcuna modulazione, ch’è poi tutta riserbata all’ultima sillaba, e finisce con un urlo allungato a foggia di trillo, che rialzasi nello spirare. La Poesia non è già del tutto spenta fra i Morlacchi, e ridotta al ricantare le cose antiche. V’ànno ancora molti Cantori, che dopo d’aver cantato un pezzo antico, accompagnandosi colla Guzla, lo chiudono con alquanti versi fatti all’improvviso in lode della persona riguardevole, per cui si sono mossi a cantare; e v’è più d’un Morlacco, che canta improvvisando dal principio al fine, accompagnandosi sempre su la Guzla; nè vi manca del tutto la Poesia scritta, quando le occasioni di conservar la memoria di qualche avvenimento si presentino. Lo zufolo, e le sampogne pastorali da più canne, ed un otre, cui suonano coi fiato accompagnandosi colle strette del braccio, sotto del quale lo tengono, sono anche rustici stromenti musicali comunissimi in Morlacchia.

Le Canzoni tradizionali contribuiscono moltissimo a mantenere le usanze antiche; quindi come i loro riti, anche i loro giuochi, e le danze sono di rimotissimi tempi. I giuochi consistono quasi tutti in prove di forza, o di destrezza, com’è quello di fare a chi salta più alto, a chi corre più veloce, a chi scaglia più da lontano una grossa pietra, che può a gran fatica esser alzata di terra. Al canto delle Canzoni, e al suono dell’otre, che non mal rassomiglia a quelli, cui portano in giro i Maestri dell’Orso, fanno i Morlacchi la loro danza favorita, che chiamasi Kolo, o cerchio, la quale poi degenera in Skoççi-gori, cioè salti alti. Tutti i danzanti, uomini, e donne, prendendosi per mano formano [p. 93 modifica]un circolo, e incominciano prima a girare lentamente ondeggiando, su le rozze, e monotone note dello stromento, che suonasi da un valente nel mestiere. Il circolo va cangiando forme, e diviene ora ellissi, or quadrato, a misura, che la danza si anima; e alfine trasformasi in salti sperticatissimi, a’ quali si prestano anche le femmine, con una rivoluzione totale della loro macchina, e delle vesti. Il trasporto, che ànno i Morlacchi per questa danza selvaggia, è incredibile. Eglino l’intraprendono sovente ad onta dell’essere stanchi pel lavoro, o per lungo cammino, e mal pasciuti; e sogliono impiegare con picciole interruzioni molte ore in così violento esercizio.

  1. Ah! pudet, & Getico scripsi sermone libellum,
    Structaque sunt nostris barbara verba modis.
    Et placui (gratare mihi), coepique Poetæ
    Inter inhumanos nomen habere Getas.

    De Ponto IV. Ep. 13.

  2. Il dotto, pio, benefico ed ospitale Arcidiacono Matteo Sovich è passato da questa a miglior vita, verso la fine dello scaduto Febbrajo, con vero dolore di tutti i buoni, e gravissima perdita Nazionale. La memoria di quest’uomo degnissimo di più lunghi anni, e di più luminosa fortuna, non dovrà perire, se i Dalmatini vorranno aver a cuore il proprio onore, e vantaggio. Il Sovich nacque a Pietroburgo sul principio del secolo, da Padre chersino colà passato al servigio di Pietro il Grande. Restovvi orfano nella più tenera età: ma v’ebbe nobilissima educazione in casa dell’Ammiraglio Zmajevich, dopo la morte del quale fu condotto in Dalmazia dall’allora Abate Caraman, ch’era stato spedito in Russia per acquistar notizie inservienti alla correzione de’ Breviarj, e Messali Glagolitici. Il giovinetto Sovich fu accettato, per le raccomandazioni di Monsignor Zmajevich allora Arcivescovo di Zara, nel Seminario della Propaganda, dove si applicò agli studj sacri, e particolarmente a quello degli antichi Codici Glagolitici. Fu di grande aiuto a Monsignore Caraman, che morì anch’egli tre anni sono Arcivescovo di Zara, nella correzione del Messale, e nella redazione di una voluminosa Apologia, che restò inedita. Ottenne in premio delle sue fatiche l’Arcidiaconato della Cattedrale di Ossero, dove visse contento in filosofica pace, dividendo lietamente coi poveri, e cogli Ospiti quel poco, ch’ei possedeva. Fu richiamato a Roma più volte pella correzione del Breviario; v’andò una sola, e se ne tornò malcontento. Non abbandonò gli studj nella sua solitudine, e ne rende buona testimonianza la quantità di pregevoli schede, ch’io vidi più volte standomene presso di lui. Fra queste deve trovarsi una fatica condotta a perfezione, ch’è la Grammatica Slavonica di Melezio Smotriski, messa in latino, col testo a fronte, purgata dalle superfluità ed arricchita di nuove osservazioni per uso de’ giovani Ecclesiastici Illirici. Quest’opera è tanto più meritevole di vedere la luce, quanto che la Lingua Sacra Slavonica, che si studia ne’ Seminarj di Zara, e d’Almissa, non à Grammatiche ben condotte; e che, morto l’Arcidiacono Sovich, non v’è più (sia detto con buona pace de’ vivi) chi possa a buon diritto chiamarsene Professore.