Visioni sacre e morali/Visione III

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Visione III

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VISIONE III.




PER LA MORTE

DEL CARDINALE

CORNELIO BENTIVOGLIO




L’aurora, umida il crin di vapor molli
     Rannodato col vel rancio e vermiglio,
     3Fea biancheggiar d’incerta luce i colli,
Quand’io, cui cieco ardir porse consiglio
     Di toccar l’erta del festevol monte
     6Sacro dei malnati ozj al peggior figlio,
Le piante mossi a un sentier dubbio pronte,
     Che partendo pel mezzo una palude
     9Era ivi all’acque pigre argin e ponte.
Parvermi quelle non affatto ignude
     Lacune di beltà, perchè Natura
     12In ciascun’opra sua beltà rinchiude;
Ch’or al mio sguardo offriasi algosa, impura
     Gora, ove il nido intreccia, e il pascol àve
     15Lo smergo amico della valle oscura,
E or ampio gorgo, in cui, qual vota nave,
     L’Isole su la cheta acqua nuotanti
     18Moveansi al soffio d’ogni vento grave:

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Chè queste lunga età di galleggianti
     Secche radici, e canne, e antichi bronchi
     21Strinse, e le fe’ terre su l’onda erranti:
Poi verdi prati informi in varie tronchi
     Fogge dai lisci giunchi, e dai rugosi
     24Salci pendenti co’ scavati tronchi,
Dintorno a cui fra i ceppi lor fangosi
     Palustri erbe con fiori e larghe foglie
     27Serpeggiando vestían que’ piani acquosi;
Ma forse il moto di mie calde voglie
     Fise al piacer, che il monte lor pingea,
     30Beltà mi finse, ove l’orror s’accoglie.
Dell’ angusta al cammin via, che sporgea
     Su il lento stagno, oltrepassai gran parte
     33Lieto nel cor per l’amorosa idea,
E superar credei con facil arte
     L’estremo del sentier, che le curvate
     36Canne dal vento m’ascondean in parte;
Quando atra nebbia coll’ali spruzzate
     De’ paludosi umori ombrando tinse
     39E l’inospiti strade e le calcate;
E con sì denso vel la mia ristrinse
     Visiva forza, che in languida luna
     42Fosca notte non mai tanto la vinse:
Pur contrastando al loco e alla fortuna
     Proseguii l’orme prime in sul cammino
     45Lubrico, e in mezzo alla caligin bruna,
E con occhi al suol fitti a capo chino
     Tentando il rio terren col piede incerto,
     48E in atto d’uom sempre a cader vicino,
Giunsi di limo e di sudor coperto
     Stanco, e sparuto là ’ve il monte aprico
     51Nel pendío della falda era men erto.

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Su pian erboso, e ai placid’ozj amico
     Mi posai presso a una voragin cinta
     54Da un orlo rozzo di macigno antico,
Entro cui rimirai sculta e distinta
     Pietrosa scala in tortuosi giri,
     57Ch’alto salía col margin primo avvinta.
Benchè Natura ad esplorar ne ispiri
     Quell’obbietto, che nuovo agli occhi addita,
     60Pur tacquer a tal vista i miei desiri;
Chè intenti solo alla fatal salita
     Pungean la salma, cui l’usata increbbe
     63Forza nella palude aver smarrita,
E sì l’insano lor impeto crebbe,
     Ch’io m’alzai; e nel mio sorger m’avvidi,
     66Che il suo vigor perduto il piè riebbe,
E mossi.... Quando un uom a fronte io vidi
     Cinto i grigi capei d’ostro lucente,
     69Che gli atti aggiunse al bieco volto, e i gridi,
E disse: Ah sconsigliato! e qual furente
     Ingannatrice voglia il cor ti move
     72L’orme a seguir della perduta gente?
Perchè dei danni tuoi l’ultime prove
     Nel colle cerchi in falsa immagin lieto,
     75Su cui l’alta Pietà grazia non piove?
Odimi: Il Ciel nol soffre, ed io tel vieto,
     Più oltre non andrai. Tacque, e col teso
     78Braccio al mio petto ei mi rispinse indreto,
Negommi lo stupor, onde fui preso,
     Ch’io ravvisassi all’improvviso assalto
     81L’uom grave, che il sentier m’avea conteso.
Ma a poco a poco poi dall’imo all’alto
     Guatando lui, su gli occhi miei l’impresso
     84Volto nella memoria entrò di salto,

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E ai glauchi lumi, ed al cipiglio spesso,
     Che la dolce aria fea parer severa,
     87Lo conobbi, e gridai: Sì, tu sei desso,
Tu sei Cornelio Bentivoglio. O vera
     Gloria della tua stirpe, e chi t’ha spinto
     90Fuor del gran cerchio dell’eterna sera
Per affrenar me a gir in parte accinto,
     Ove Amor fassi al piacer guida, e segno?
     93Sei tu nud’alma? o non sei anche estinto?
Ed egli a me: Della mia morte il pegno
     Non dubbio è il cener mio, che freddo ingombra
     96L’urna nel centro dell’Ausonio regno;
E però tu del viver mio disgombra
     La vana idea, che non è quel, che vedi,
     99Il corpo mio, ma del mio corpo un’ombra;
E questa col più denso aere, cui diedi
     Moto, forma e color, visibil resi
     102Nel mover l’ale dall’eteree sedi:
Perchè non sian da’ rai, ch’io spargo accesi
     Del celeste fulgor che mi circonda,
     105I terreni occhi tuoi vinti ed offesi.
Ben deggio la felice aura seconda,
     Che mi sospinse nel beato porto
     108Contro l’impeto fier dell’ultim’onda,
Deggio a lei sola, che a me stanco e smorto
     Su la terribil via d’eternitade
     111Colla sua diva man porse conforto.
Essa madre di grazia e di pietade,
     Che il Figlio onnipotente in don le diede,
     114Di me parlò coll’immortal Bontade,
E su l’estremo varco, ove risiede
     L’Angel reo tentator, mille diffuse
     117D’Amor, di Speme in me raggi e di Fede;

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Talchè in quel gran momento il mio si schiuse
     Fonte del vero pianto, e in quel momento
     120L’Alma si sciolse, e il tentator deluse.
Nè a ravvivar il mio valor già spento
     Mi diéro aíta allor le illustri avite
     123Geste, che io fui nell’imitar non lento,
Nè le insegne dai voti altrui sì ambite
     Dell’ostro, onde splendei, nè dell’altere
     126Mie penne il volo in seguir Stazio ardite,
Nè da me le frenate, e pria sì fiere
     Genti d’Emilia, nè il mio nome chiaro
     129Su le Galliche sponde e sull’Ibere;
Chè quel che dolce è nella vita e raro,
     Sul duro passo del mortal confine
     132Tutto, credilo a me, torna in amaro.
Or io benchè nel sen delle divine
     Delizie colmo di piacer immensi
     135Goda il beato mio principio e fine,
Pur in questi aleggiai vapor condensi
     Per sacra legge d’amistade antica,
     138Ch’io serbo ancor fra il rotto vel de’ sensi.
Nè qual foss’ella è d’uopo a te che il dica
     Il labbro mio, chè richiamar ne puoi
     141Con un lieve pensier l’immago amica.
Rammenta quante s’alternár fra noi
     Sincere note in cento fogli impresse
     144De’ gravi affetti miei piene e de’ tuoi:
Rammenta quel che la mia voce espresse
     A te fermo desío di partir teco
     147L’ore, ovunque il mio fral viver scegliesse;
Ma se tutt’altre obblii, questa ch’io reco
     D’un’amichevol fede invitta prova
     150Parli al tuo cor nelle sue furie cieco;

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Poichè iniquo desio par che ti mova
     Del piacer tristo a penetrar ne’ regni,
     153Nè ragion, ove amor contrasta, or giova,
Nudri, e seconda pur i moti indegni
     D’un libero voler; ma pria t’appresta
     156Del mio piè sacro a tener dietro ai segni.
Nè più sul colle, no, ma sol per questa
     Vorago il fin vedrai, cui non attendi,
     159Di turba amante eternamente mesta:
Nè t’inspirin terror que’ giri orrendi
     Della scesa feral. Teco son io,
     162Che t’allumo la via; seguimi, e scendi.
Disse, e me trasse, come augel restío
     A gir là dove udì d’aquila il rombo
     165Presso al cerchio spiral del gran pendío,
E ratto scese, e qual piuma sul piombo
     Nullo diè suon sovra i marmorei gradi,
     168Che rendean pieno ai passi miei rimbombo:
Ed io, come smarrito uom, che non badi
     Qual sentier varchi, e sol intento stia
     171Al suo timor, per cui tremando agghiadi,
Doglioso, e muto il Condottier seguía,
     Che con un raggio in fronte i spazj oscuri
     174Lieve scorrea dell’aggirevol via;
Quand’ei riprese: Aspri tu provi e duri
     Questi marmi, che pur calcati avresti
     177Lieto scendendo fra i piacer non puri;
E temei, perchè sai qual ria funesti
     Meta il cammin, che que’ che il monte accolse,
     180Compion con annebbiati occhi, e non desti.
Parte d’essi, che il piè lassù rivolse,
     Paga del nome espugnator de’ cuori
     183Neil’ingannar altrui, l’inganno avvolse;

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Parte dall’igneo spron de’ lor furori
     Balzata fu sovra l’infauste cime
     186Fra il lezzo vil de’ scellerati amori:
E ben raro è fra lor, cui tanta imprime
     Il Ciel luce nel cor, che l’empia terra
     189Fugga, e ricalchi le vestigie prime.
Perchè mille in sè il monte alto disserra
     Simili a questa vorticose scale,
     192Che i ciechi abitator guidan sotterra;
E ad essi par, che presti a scender l’ale
     Del lordo immaginar l’impeto e il pondo,
     195Contro cui la ragion vinta non vale.
Varcan da un imo loco a più profondo,
     Che varj piani un sotto all’altro pose
     198Di varie ingorde voglie Amor fecondo.
Ivi pasconsi ognor delle fangose
     Delizie, che l’infame donna Assira
     201Nell’ingannevol suo calice ascose;
Poi giunti al pian estremo, in cui s’aggira
     Notte alle colpe amica, e falsa pace
     204Mista di Dio coll’implacabil ira,
Dietro al costume iniquamente audace
     Piomban entro l’ultore eterno foco
     207Col verme eterno in lor, che mai non tace.
Or ecco aperto a te l’amaro loco,
     Che all’ostinato alletta ardir nel fallo
     210Color, che il mal oprar hanno per gioco;
Questi il cor guasti da indomabil callo
     Vivon lieti quaggiù per far poi varco
     213Al carcer chiuso da invincibil vallo.
Tacque; ed io che il seguía di pensier carco
     Pavidi m’affrettai pur col piè lasso.
     216Che della scala giunsi all’ultim’arco;

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E allor la Guida al terminar del passo
     Quel raggio accrebbe, che gli uscía dal volto,
     219Per rischiarar la sculta via nel sasso,
E me condusse in terren ampio, e folto
     D’ erbe, e di fior fra impure acque tranquille
     222Da tenebrata e torpid’aria involto,
Fra cui strisciavan pallide faville
     Atte a mostrar smorta di luce immago,
     225Non gli allumati obbietti alle pupille.
Qual se vapor surto fra monte e lago
     Piove in grandine fredda, e peste, e rotte
     228Lascia le spoglie del Maggio più vago,
Le lucciole dal gel cadon ridotte
     Semivive ne’ prati, e di lor scarso
     231Languido stuol fende l’opaca notte;
Tal in quell’ombre era il barlume sparso:
     Funeste ombre infelici, in cui sì lieve
     234Apparía lampo, ed ascondeasi apparso.
Fra quelle un popol reo pascol riceve
     Soave ai desir suoi, non già dall’Alma,
     237Ma dalle fogne putride, ch’ei beve;
E intento a saziar l’ingorda salma,
     D’empie voglie i pensier grava, e gli sforza
     240Nell’empie voglie a ritrovar la calma;
Onde, poich’egli in sè l’infuso ammorza
     Lume del vero, in lui ragiona, e vive
     243L’Alma non più, ma l’impudica scorza.
Benchè fosser de’ rai del giorno prive
     Le genti, io vidi in pormi loro al fianco
     246Qual traean vita in quelle infami rive.
Uomini e Donne, altri con roseo e bianco
     Giovane volto, altri in viril sembiante,
     249E col frale altri in vecchie membra stanco

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Movendo il pie ne’ verdi campi errante
     Suggean dai fior più guasti il velen dolce,
     252Che inebbria il cor d’immondi paschi amante;
Ch’ivi l’un l’altro ognor conforta e folce
     Su quelle vie di morte, e i lunghi affanni
     255Con alterna empietade allevia e molce.
Miseri! Che non mai per volger d’anni,
     Nè per tuonar fra nubi atre di fitto
     258Struggitor nembo odian gli antichi inganni;
Ch’eglin anzi, se avvien che alcun trafitto
     Da folgore improvvisa in cener vada,
     261Scherzan fra l’arso busto e il vil delitto.
Nè, perchè un ríamato Amante cada
     Ne’ precipizj dell’eterno lutto,
     264Che infiniti apre in sè l’oscura strada,
L’altro ricusa il venenato frutto;
     Ma in ricercar nuov’esca aggiunge moto
     267De’ pensier pravi al tempestoso flutto;
Chè il trascorrere il mar sordido a nuoto
     Fra scogli e secche, e senza scorta e lume
     270È il solo e iniquo lor tríonfo, e voto.
Quindi volgendo per fatal costume
     Gli occhi al fallace Adone, e a Dio le spalle,
     273Gridan: Adone è il piacer sommo, e il Nume;
E l’esecrata voce in ogni calle
     Rigogliosa s’aggira, e la ripete
     276Con raddoppiato suon tutta la valle.
L’aere maligno, e le tenébre liete
     Per la viva degli atti immagin molle
     279Già m’infiammavan d’amorosa sete,
E il Duce, che in me lesse il desir folle,
     Tempo è, gridò, ch’altro a’ tuoi sguardi surto
     282Foco t’ammorzi quel che in cor ti bolle;

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E urtando il fianco mio, qual chi di furto
     Uom, che s’affida, assale, entro un abisso
     285Mi spinse, e insiem precipitò coll’urto.
Gelido pel terror col guardo affisso
     Invan nel fosco a ricercar la meta
     288Del salto enorme ai soli augei prefisso,
Tanti spazj varcai, che il gran pianeta
     Avría nel scender mio le lucid’ore
     291Dall’alba tratte entro alla notte cheta;
E la Guida, cui piacque il mio timore,
     Tardi temprollo, e disse: Amaro, e duro
     294È questo passo a un empio cor, che more;
Ma a te, che col tuo fral scendi, è sicuro:
     Ben ti fu amico il Ciel, cui sceglier parve
     297Te non estinto ad un cammin sì oscuro,
Già siam presso al confin; già il primo apparve
     Ondeggiamento del pungente fumo
     300Coll’erranti nel fumo orride larve.
Non temer; ch’io coll’ali mie t’impiumo.
     Urta, apri, e passa. Ecco che appena il dissi,
     303E già passasti l’infernal profumo.
Nel compier questi accenti un largo udissi
     Suon d’alti pianti, e disperati lai,
     306Cui rispondean muggendo i ciechi abissi;
E fra tanto fragor, ch’altro non mai
     Simil tuonò l’orecchio mio scuotendo
     309Sotto una ferrea volta il piè posai,
Da cui per due, che aprìrsi a me stridendo
     Su cardin fermi, adamantine porte
     312Scoprii d’immense fiamme un mare orrendo.
Or chi al mio stil darà lena sì forte,
     Che adombri almen di que’ dogliosi Spirti
     315La riaascente ognor continua morte?

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Non tanti han gli animai velli aspri ed irti,
     Quante arder vidi Alme, e cader nuov’Alme
     318Fra il golfo acceso, e le focose sirti;
Chè benchè sciolte dall’estinte salme,
     Pur parean per mostrarmi il sommo affanno
     321Aver corpo, e agitar l’anche e le palme.
Ivi altri a par di questi ardenti stanno
     Golfi, ove i rei soffron d’atroci e vari
     324Delitti varia pena, ed egual danno;
Ma gli occhi a tanta immensitade impári
     Fisai solo là, dove han l’Alme impure
     327Del già dolce piacer frutti sì amari.
O caos perpetuo! oh spirti avvinti in dure
     Catene! oh fiamme ultrici! oh inferni, e bui
     330Regni sacri alle Furie, e all’Ombre oscure!
Di quel, cui, lasso! spettator già fui,
     Voi rinnovate al cor l’immagin tetra
     333Sì ch’io la pianga in queste carte altrui.
Cinti non sol da foco aspro, che spetra
     Ove arde, eran color, che in sozzi studi
     336Visser cangiando il cor protervo in pietra;
Ma in tutti penetrava i membri ignudi
     Fiero incendio, maggior di quel che strugge
     339Il ferro, che sfavilla in su l’incudi;
E fornace parean chiusa, onde fugge
     Di fuor scintilla e fumo, e oppresse tiene
     342Vampe alte, e dentro sè mormora e rugge:
Tal che di fuoco eran grondanti e piene
     Le viscere, e sconca bollente il sangue,
     345Come squagliato bronzo, entro le vene;
E il pianto, che non mai ristagna, o langue,
     Qual fusa pece, in giù stillando giva
     348Per la lor faccia immortalmente esangue,

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Dal cui lurido labbro un lungo usciva
     Disperato fra i gemiti sospiro
     351Sciolto in lampi e in vapor, qual nube estiva.
Ma intollerabil più d’altro martíro
     Apparía d’essi entro al squarciato petto
     354Un serpe al cor attorcigliato in giro,
Cui se aggiungeasi impresso il santo eletto
     Nella fronte di lor segno di Cristo,
     357Sovra ogni pena era il dolor perfetto.
Fremea nel mar cocente il popol tristo,
     E da natura spinto ergeva un volo
     360Del Ciel, per cui già nacque, al dolce acquisto;
Ma il rispingea l’ira divina, e solo
     Era a lui dato obbliquamente i cupi
     363Rader abissi, e accrescer duolo a duolo,
Ch’altri percossi all’avvampate rupi,
     Altri sbattuti orrendamente insieme
     366Ululavan nell’urto a par dei lupi,
E ricadean nel golfo; e poi l’estreme
     Forze unían ad alzarse, e fean eterno
     369Vortice, ch’arde e vola e piomba e geme.
Fra le molte malnate Ombre d’Averno
     Misere più di quel, che il rozzo esprima
     372Mio stil non pari al mio terrore interno,
Vidi una Donna a un igneo scoglio in cima,
     Che stridea lacerata in modo atroce
     375D’alto dolor da più pungente lima,
E con dirotto pianto, e orribil voce
     Tentava il serpe sviluppar dal seno,
     378E dalla fronte un’infocata croce;
Ma stretta, e vinta da infrangibil freno
     Sdegnosa si torcea, come compressa
     381Vipera, cui rigonfia ira il veleno.

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A questa in sì gran lutto Anima oppressa
     Rivolse il Duce mio lo sguardo, e disse:
     384O tu, che immenso affanno apri in te stessa,
Nel Nome dell’Uom-Dio, che per te visse,
     Per te indarno morì, dimmi qual cieca
     387Voglia rea tanto danno a te prescrisse.
Ella chinando ad onta sua la bieca
     Faccia in udir il sacrosanto Nome,
     390Che pace ai Giusti imperturbabil reca,
E agli Empj aggrava le dogliose some,
     Divise, e alzò cogli abbronzati diti
     393Le sparse sovra gli occhi ignite chiome,
E sì rispose: Ah perchè mai m’inviti
     A dir quel, che a cui dir dovea lo tacqui,
     396E la mia piaga in favellar m’irríti?
Di chiaro sangue unica prole io nacqui,
     E in forme di beltà sì elette crebbi,
     399Che a mille cor gentili, ahi! troppo io piacqui.
Fiamme in essi vibrai, nè da lor bebbi
     Mai scintilla d’amor, che grata, e sola
     402Cura, che altrui dar legge, altra non ebbi.
Ma ratto in nebbia il vano orgoglio vola,
     Ed il cader nel suo già teso laccio
     405Debita è pena al predator, che invola;
Misera! il sen, che mi parea di ghiaccio,
     Arse improvviso ai lusinghieri sguardi
     408D’obbietto vil, che vergognando io taccio.
Con languida onestade ai primi dardi
     Resistei lieve, e allor che scudo opporre
     411Più saldo volli, inutil era, e tardi;
Perchè Amor, che fuggir deluso abborre,
     S’annidò in me più arditamente fermo
     414Di fier nemico entro espugnata torre.

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Già divenìa soave al petto infermo
     La scellerata febbre, ed era, ahi lassa!
     417Dolce a me vinta il non trovar più schermo.
Quindi, poichè ogni segno amor trapassa,
     Da que’ tenaci nodi, in cui m’avvolsi,
     420Stretta, agitata, accesa, e d’arder lassa,
L’ultimo in preda all’Amator disciolsi
     Freno di mia virtude. Oimè! che feci?
     423Oimè! per dargli vita a me la tolsi:
Ch’io dal suo pianto e dalle vive preci
     Spinta, ma più dal mio furor, aggiunsi
     426Falli al gran fallo in raddoppiate veci;
E tal dell’error mio frutto congiunsi
     Alle viscere mie, che d’atra fama
     429Pel vicin danno a inorridirmi io giunsi.
Nel duro stato, e in sì discorde brama
     D’amar chi m’offendea, d’odiar l’offesa
     432Col dubbio cor, mentre odia a un tempo, ed ama,
Tentai mille arti, ond’io già grave resa
     Scuotessi il peso accusator dal grembo;
     435Ma il colpo errò nell’omicida impresa.
De’ miei desir contrarj allor fra il nembo
     Al peggior dei pensier tristi m’attenni,
     438Qual chi in mar del naufragio erra sul lembo;
E contro al Padre mio cruda divenni
     Tigre, e con mani in mal oprar non rozze,
     441Quello, ond’io nacqui, di tradir sostenni;
Ch’ei sol potea le temerarie e sozze
     Mie fiamme vendicar col sangue reo,
     444E a me vietar le inonorate nozze.
Oh mie colpe! oh mie furie! Egli perdéo
     La vita col velen, ch’empia gli porsi,
     447E fra sì ingrate braccia alfin cadéo.

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Sciolta dal grave giogo avida io corsi
     Per recar pronto all’onta infame ajuto,
     450E insiem rimedio agli amorosi morsi;
Ma il Ciel sdegnò col più crudel rifiuto
     L’indegno nodo, e dell’Amante in vece
     453Agli occhi il suo m’offrì cadaver muto,
Lacerato da quante a un corpo lece
     In sè ricever piaghe, in cui le aperse
     456Ferro ignoto, che fier scempio ne fece.
In quelle di pallor livido asperse
     Membra, che pria parvermi sì leggiadre,
     459Col guardo il cor attonito s’immerse;
E allor confusa dall’orride squadre
     De’ miei delitti, e dall’amor rapito,
     462E dall’agitatrice Ombra del Padre,
Piegai di morte al disperato invito,
     E alla stessa feral tazza, che uccise
     465Il Genitor, io posi il labbro ardito.
Ben all’egro mio fianco il pio s’assise
     Del Ciel Ministro, e quel, che a Dio non piacque,
     468Corso degli anni ad esplorar si mise.
Piansi, è ver, che il perduto idol mi spiacque,
     Non l’error, che mi fe’ creder felice,
     471Che la lingua in morir perfida tacque.
Così amando, e tacendo all’infelice
     Terra d’affanno e d’ira io giunsi, e trassi
     474Meco l’infetta del mio mal radice.
Or veggio ovunque gli occhi io volga lassi
     Qual seguii ben fallace. Era egli forse
     477Degno, che tal per lui doglia io provassi?
Ah! dove è il loco e l’ora, e amor, che porse
     L’esca, a me pria sì dolce, or troppo acerba?
     480Oimè! che tutto in un balen trascorse.

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Ma dove, dove è Dio, che non mai snerba
     Le pene, in cui senza perir mi struggo?
     483Dov’è il crudel, che in me l’impeto serba,
Che a lui mi spinge? Io tento, e nol distruggo
     Col mio furor; ma in sempre alterna voglia
     486A lui tendo, odio lui, lo cerco, e il fuggo.
Deh! chi sarà, che dal mio cor discioglia
     L’ingordo verme, e dalla fronte afflitta
     489L’orme delle lustrali acque mi toglia?
Che se la fiamma è a chi già errò prescritta,
     M’agiti pur con invincibil lena
     492L’Alma da Dio, che la creò, trafitta;
Ma non m’accresca ardor in ogni vena
     La Croce, e il Serpe almen non mi rammenti
     495L’eterno mio delitto e la mia pena.
Disse; e il manco afferrò braccio co’ denti
     Rabida, e il morse: ed io fisando in lei
     498Gli occhi per l’atto fiero ancor più intenti,
E nell’amara storia i pensier miei,
     Con subito sclamai grido affannato:
     501Oimè! ch’io ti ravviso: oimè! Tu sei...
Ma una vampa scorrendo alta al mio lato
     Strisciò, mi spinse addietro; e fra lo strano
     504Lampo e il caldo ai miei rai fumo vibrato,
E il suon delle rasenti il ferreo piano
     Porte in serrarse, io cieco, e in me confuso,
     507Dammi, udii replicar, dammi la mano;
E la mia man al caso offerta in chiuso
     Pugno fu stretta, e allor sentii levarmi
     510Con tal vigor velocemente in suso,
Che nullo in mente ordin potei serbarmi
     Di via, di tempo; e alfin mi vidi assiso
     513Della scala, ond’io scesi, all’orlo e ai marmi.

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Diedi un largo respiro allor che affiso
     Tenni lo sguardo al racquistato giorno,
     516E al Duce, ch’io temea da me diviso;
Ed Ei, che me stupidamente intorno
     Scorse guatar la florida montagna,
     519Fuggi, gridò, dal lusinghier soggiorno;
Ripassa la palude ima, che bagna
     Questa rupe ai desir folli sì vaga;
     522Ricalca l’argin fra l’acqua, che stagna;
Chè benchè l’Alma tua deggia esser paga
     Dell’orror preso, pur ha il monte crudo
     525Sembianza troppo allettatrice e maga.
Così parlando a me di forze nudo
     Diè lena, e su ’l sentier meco il piè mosse
     528Egli, che fu scorta a’ miei passi e scudo.
Quand’io pien del terror, che in me commosse
     L’idea di tanto duol, che fora immenso,
     531S’anche a lui mista Eternità non fosse,
Dissi angoscioso: A vortice sì denso
     D’atroci mali, cui ognor s’aggiunge
     534Nel continuo soffrir peso più intenso,
Non si porrà termin giammai? Mi punge
     Pietà così, che sceso per le gote
     537Largo a innondare il sen pianto mi giunge.
Ed Ei rispose: D’ogni speme vote
     Son le dannate al duolo Alme infelici;
     540E Dio, che tutto può, questo non puote;
Ch’egli giurò perpetuo a’ suoi nemici
     Lutto, e il fe’ noto colla sacra legge,
     543Ed eterne a’ suoi fidi ore felici;
Or, poichè i suoi pensieri immenso regge
     Divo Saper, che immense ornan virtuti,
     546Non mai quel ch’ei pensò tempra, o corregge.

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Mentre, perchè un destin Dio svolga e muti,
     D’uop’è che a un altro ottimo allor s’appigli,
     549E quel, che pria miglior parve, rifiuti:
Quindi avverrìa, quand’Esso un ordin pigli
     Nuovo di ragionar, che in sua ragione
     552Manchevol fu co’ primi suoi consigli:
E l’Ente appien perfetto ognor dispone
     L’ottimo in sè destin col suo prim’atto,
     555Cui mai null’altro a quel contrario oppone;
Talchè in mente di Dio rimane intatto
     Alla pietade il corso e alla vendetta,
     558E co’ giusti e co’ rei l’eterno patto.
Nè da sua libertà somma tu aspetta,
     Ch’Ei liber anche in non voler proveggia
     561Alla sorte immortai dagli empj eletta;
Poichè il voler, con cui Dio vuol, pareggia
     Pienamente il voler, con cui non vuole,
     564Nè avvien che questo vincer quel non deggia.
Qual se duo corpi d’egual forza e mole
     E peso opposti urtano stabil rota,
     567Sta immobil questa in sè, com’esser suole;
Tal nel voler di Dio, che volle, immota
     Sta su gl’iniqui la lor pena eterna,
     570E null’altro voler v’ha che la scuota.
Or tu più saggio i tuoi desir governa,
     E a tríonfar del breve duolo impara,
     573Che provi al cor guerra movendo interna:
E ben posporre in vigor sommo rara
     Doglia tu dei di corti anni agitati
     576A un’infinita, ancor che poco amara.
Che se un rettangol fingerai, fra i lati
     Di cui siedano mille ampie montagne,
     579Grande ci sarà, ma fra confin segnati;

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E se ad un altro poi tu l’accompagne,
     Che poche accolga in sè paglie sottili,
     582Ma in lor lunghezza immensamente magne,
Immenso questo fia, che i dritti fili
     Con infinito stendersi protragge,
     585Benchè uno i monti, e un chiuda paglie umìli.
Ma poichè sai, che nell’inferne spiagge
     Misera Eternitade addoppia e carca
     588Gli affanni, onde non mai dramma sottragge,
Qual furor scerre un mar, su cui si scarca
     L’ira immortal, per non attinger fiele
     591Scarso, e terrena acerbità sì parca?
Che se dubbio quel mar sempre crudele
     Pur fosse, in dubbie interminabil’onde
     594Stolto ardir fora anche affidar le vele.
Ma tu del lago già premi le sponde,
     E coll’Alma al funesto obbietto intenta
     597Volger puoi gli occhi, ed i tuoi passi altronde.
Addio. Ti lascio. Aura soave e lenta
     Questa che vedi offre a me nube aurata:
     600Serba i miei detti; e ch’io t’amai, rammenta.
Ei, qual aquila allor al ciel levata,
     Che nel gran volo al guardo altrui si rube,
     603Prese la via dal bel vapore ombrata,
E svanì fra il leggier vento e la nube.



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ANNOTAZIONI

ALLA TERZA VISIONE.




P. 40 ....che l’infame donna Assira
Nell’ingannevol suo calice ascose;

Questa donna metaforica viene descritta da san Giovanni nell’Apoc. al cap. XVII e XVIII, e vien chiamata Babylon, magna mater fornicationum, et abominationum terræ. E di lei pur dicesi nell’istesso capo, che tiene in mano un calice d'oro pieno d’abbominazioni e immondezze. Il che tutto s’intende degli effetti e dei danni funestissimi della lascivia.

Pag. 44. Ma in tutti penetrava i membri ignudi
Fiero incendio, ec.

E la cagione e forza di questo incendio viene espressavivamente da Isaia (cap. XXX) con quelle enfatiche parole: Flatus Domini sicut torrens sulphuris succendens eos.

P. 45. Vidi una Donna a un igneo scoglio in cima, ec.

Chi sia questa donna condannata all’inferno per i peccati, a cui la spinse un furioso amore disordinato, noi dice l’Autore, benchè asserisca d’averla conosciuta. Ma o vera o ideata che sia quest’istoria, non può non essere che troppo avverata nell’immensa moltitudine dell’anime, che si dannano per la sensualità.

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P. 51. Mentre, perchè un destin Dio svolga e muti, ec.

Quello, che l'Autore chiama poeticamente destino, altro non è che il suo decreto, il quale, ove non sia condizionato, è sempre immutabile, come si è quello che riguarda il premio eterno dei giusti, o la pena eterna dei reprobi.