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IMMAGINI E TESTIMONIANZE DEL 25 APRILE A MILANO NEL 60° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE A cura di Giuseppe Deiana Fotografie di Matteo Deiana Presentazione di Alessandro Pezzoni Istituto di Istruzione Superiore "S. Allende" Milano 2006 IMMAGINI E TESTIMONIANZE DEL 25 APRILE A MILANO NEL 60° ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE A cura di Giuseppe Deiana Fotografie di Matteo Deiana Presentazione di Alessandro Pezzoni Istituto di Istruzione Superiore "S. Allende" Milano 2006 Copiright 2006 Istituto Istruzione Superiore "S. Allende" Via U. Dini 7 20142 Milano Fotocomposizione e stampa Attilio Negri srl Rozzano (Milano) Finito di stampare nel mese di gennaio 2006 Edizione fuori commercio realizzata con il contributo della Provincia di Milano, Assessorato all'Istruzione In copertina: un momento della deposizione delle corone in onore dei caduti, in una via del quartiere Stadera di Milano, alla vigilia del 25 aprile 2005. Indice Presentazione di Alessandro Pezzoni Pag. 5 Introduzione di Giuseppe Deiana Pag. 7 Inserto fotografico di Matteo Deiana Pag. 9 Atti del Convegno "Giancarlo Puecher prima medaglia d'oro della Resistenza nel 60° anniversario della Liberazione" Interventi di Giuseppe Deiana Pag. 45 Loredana di Lecce Pag. 74 Cesare Grampa Pag. 79 Giacomo de Antonellis Pag. 81 Stefano De Allegri Pag. 83 Aldo Ugliano Pag. 83 Costantino Peli Pag. 85 Sandro Barzaghi Pag. 86 Contributo dell' on. Virginio Rognoni Pag. 88 Presentazione dello spettacolo teatrale Solstizio d'inverno di Marco Pernich Pag. 91 Presentazione di Alessandro Pezzoni (consigliere della Provincia di Milano) Il ricordo e la memoria: due sentimenti particolarmente presenti in chi ha vissuto il periodo della lotta di Liberazione. Il ricordo impresso nei volti delle persone anziane mentre depongono le corone al quartiere Stadera e sui monumenti, mentre ricordano coloro che non sono più tra noi da molti anni, ma anche coloro che ci hanno lasciato da poco: la passione nel leggere le poesie sulla Resistenza, il lieve sorriso di chi ha passato momenti tristi e ha vissuto con fatica i sessant'anni che ci separano dal 25 aprile 1945, il dolore per la perdita dei propri cari, ma anche la forza e l'entusiasmo nel vivere i giorni nostri trasmettendo ai giovani la passione politica e i contenuti degli ideali che li hanno visti protagonisti prima e dopo i giorni della liberazione: sono questi i sentimenti che si provano guardando le immagini fotografiche di Matteo Deiana, il quale ha saputo coagulare il ricordo e la memoria nei volti delle persone e nei loro atteggiamenti. I giovani liceali dell'Istituto Allende coinvolti da Giuseppe Deiana - professore di storia e filosofia, che da anni è impegnato con gli studenti in ricerche e studi importanti e unici sul territorio, in particolare dell'ex zona 15 di Milano (Chiesa Rossa—Gratosoglio) hanno, in occasione del sessantesimo anniversario della Liberazione, effettuato una ricerca sulla figura di Giancarlo Puecher, giovane partigiano cristiano, fucilato a 20 anni dai fascisti a Erba in provincia di Como. La ricerca ha portato ad un'iniziativa presso l'auditorium del Centro Comunitario Giancarlo Puecher di Via Dini a Milano (dove hanno sede tre importanti istituti scolastici: Allende - Custodi, Torricelli e Varalli) ed ha visto gli studenti leggere e recitare la Resistenza e la vita di G. Puecher. La sala colma di studenti e cittadini ha con entusiasmo applaudito la testimonianza del partigiano Costantino Peli quando ha ricordato i momenti della sua gioventù passati a combattere il fascismo, ed ha ascoltato con attenzione gli interventi dei relatori riportati nel volume. Un ringraziamento quindi a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione delle iniziative riguardanti il sessantesimo della Liberazione e la presente pubblicazione: dalla Provincia di Milano che tramite l'assessore Giansandro Barzaghi ne ha permesso la stampa, ai professori, studenti e regista che hanno dato vita alla iniziativa del 23 aprile, ai cittadini e abitanti della zona che hanno "partecipato" e che ogni anno sono presenti nel ricordare e nel costruire. Una pubblicazione che sarà la memoria storica di questi momenti: un ricordo per tutti coloro che hanno vissuto pienamente i giorni del sessantesimo anniversario della Liberazione; ma anche il ricordo di coloro che hanno costruito nella nostra zona e nel nostro quartiere le radici solide dell'antifascismo: i partigiani Paolo Guffanti, Virginio Gallazzi, Demo Martinelli, Emilio Sarzi Amadè, Francesco di Bisceglie e altri, ancora tra noi, come Emma Grandini, Biagio Colamonico, Emilio Ventura ed altri ancora: tutti hanno permesso di rendere ancora viva la data del 25 aprile, una data in grado di unire gli italiani attorno ai valori fondanti della nostra democrazia. Introduzione Giuseppe Deiana (docente di storia e filosofia nel Liceo Allende di Milano) Si dice: Milano capitale della Resistenza. Per rendersi conto concretamente di questa verità storica basta percorrere le sue strade, sia del centro che delle periferie, dove è facile trovare in ricordo dei partigiani caduti numerose lapidi, quasi sempre semicoperte dalle corone che ogni anno, nella ricorrenza del 25 aprile, i compagni di lotta di ieri e di oggi depongono per ricordare il sacrificio della vita nella guerra contro il nazifascismo. Uno dei quartieri popolari della semi-periferia compreso nella ex-Zona 15, oggi Zona 5 (che copre una lunga sezione triangolare del centro-sud della città) è lo Stadera (o Baia del re), in cui c'è forse uno dei più alti concentrati di lapidi-ricordo, segno di una intensa partecipazione popolare alla lotta antifascista, che ha avuto le sue prime manifestazioni già nel 1926, quando la popolazione del nuovo quartiere si è ribellata al tentativo delle autorità fasciste di denominarlo "Quartiere 28 ottobre" nel nome della marcia su Roma del 1922. Alla conoscenza dell'esperienza resistenziale dei cittadini del quartiere ho dedicato, nel recente passato, un libretto intitolato Partigiani della Zona 15. Frammenti della Resistenza italiana e milanese (Milano, 1997), frutto del lavoro di ricerca didattica realizzato con gli studenti nell'ambito del Laboratorio di storia nel Liceo Scientifico "S. Allende" di Milano, istituto superiore territorialmente molto vicino al quartiere Stadera. Del volumetto vanno segnalati almeno tre aspetti: a) la contestualizzazione della lotta resistenziale organizzata nell'ambito del III settore, che ha visto come protagoniste la 1138 e la 114' Brigata Garibaldi, secondo la ricostruzione di Luigi Borgomaneri, che ha contribuito al nostro lavoro e che rappresenta oggi il più qualificato studioso della Resistenza milanese (Due inverni, un'estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943 - 1945, E Angeli, Milano 1995 e Hitler a Milano. I crimini di Theodor Saevecke capo della Gestapo, Datanews Ed., Roma 1997); b) l'inserto fotografico contenente le lapidi (e alcune immagini) dei caduti, curato da Sergio Manera: si tratta del primo censimento organico e, perciò, particolarmente prezioso anche come documentazione storica; c) l'elenco dei morti dello Stadera, caduti in città, o in montagna, per contribuire a conquistare la libertà e la democrazia. Di ognuno viene fornita una scheda sintetica, costruita attingendo alla memoria orale dei compagni di vita e di resistenza; in particolare di Biagio Colamonico, di Emilio Ventura, di Paolo Imperato, di Paolo Guffanti (deceduto nel 1999), di Francesco di Bisceglie (scomparso nel 2004), di Carla Priori (morta di recente), di Virginio Gallazzi (morto nel 2005) e di altri. Nel 2005 sono stati insigniti dal Presidente della Repubblica dell'onorificenza di "Cavalieri al merito della Repubblica Italiana" Francesco Di Bisceglie (alla memoria) e Biagio Colamonico. Va notato che nel libro manca la fotografia della lapide di Paolo Garanzini e Leopoldo Fagnani, uccisi dai tedeschi in ritirata nelle vicinanze di Pavia. Va anche rilevato che l'unico dei caduti dello Stadera a non avere una lapide-ricordo è Achille De Vincenti, per motivi che oggi sanno dell'incredibile se si prescinde dal clima di "guerra fredda" nell'immediato dopoguerra, quando le lapidi sono state apposte sui muri delle case. Credo che sia giunto il tempo di rimediare a questa mancanza. Credo, più in generale, che il recupero della memoria storica - e lo Stadera ha una bellissima storia resistenziale - sia un ottimo antidoto da contrapporre al degrado sociale che da oltre quindici anni affligge il quartiere, da quando cioè sono state smantellate le fabbriche dei dintorni (Binda, Grazioli, ecc.) e Milano ha cambiato fisionomia assumendo gli aspetti peggiori della città mondializzata (carenza/assenza di lavoro, ghettizzazione della popolazione immigrata, violenza diffusa, ecc.) che ci impegna nelle ricerca di nuovi modelli di identità e di radicamento nel territorio attingendo al valore della memoria storica che, nel caso dello Stadera, è soprattutto memoria di vita operaia e di lotta antifascista. Oltre ai caduti del quartiere Stadera, il libro è dedicato anche alla memoria di Giancarlo Puecher, prima medaglia d'oro della Resistenza in Lombardia, morto a vent'anni per contribuire a restituire all'Italia la libertà e la democrazia. Inserto fotografico di Matteo Deiana Le fotografie, realizzate nei giorni 23, 24 e 25 aprile 2005 sono ordinate in tre gruppi: -il primo riguarda la deposizione delle corone in corrispondenza delle lapidi poste nelle vie del quartiere Stadera (vie Barrili, Neera e Palmieri) e in altre vie limitrofe (vie Spaventa, Boifava e Chiesa Rossa), compresa la lapide di due caduti nei pressi di Pavia; -il secondo presenta la commemorazione dei caduti nel centro sociale di via Palmieri 20 (quartiere Stadera); -il terzo si riferisce al convegno sul 60° della Liberazione realizzato nell'auditorium del Centro Puecher (via U. Dini 7, Milano), compreso lo spettacolo teatrale. Matteo Deiana fa parte dell'associazione "Liblab Nyatepe" di Milano (www.liblab.org). 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Giuseppe Deiana Docente nel Liceo Scientifico "Allende" di Milano L'Istituto "Allende" ha una tradizione di partecipazione non solo alla vita civile del nostro Paese e della nostra città ma anche ai problemi internazionali. E' intestato, infatti, a Salvador Allende, sulla cui figura di "resistente" in questa sala abbiamo fatto diversi convegni, in occasione del 25° e del 30° anniversario del colpo di Stato militare del generale Pinochet. Oggi vogliamo dare un piccolo contributo alla celebrazione del 60° anniversario della Liberazione mettendo al centro della riflessione la Resistenza di Giancarlo Puecher, che era un giovane ventenne di Milano, ricco e cattolico. Egli ha sacrificato la vita consapevolmente. La lettera che ha scritto prima di morire viene riprodotta nell'immagine proiettata sul telone e soprattutto sul giornale "La conca" che raccoglie i contributi scritti dagli studenti. Ecco il testo della lettera (riportata nei due volumi: Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli, Einaudi, Torino 1994, p. 267 e Lettere della Resistenza europea, a cura di G. Pirelli, Einaudi, Torino 1969, p. 219), scritta prima di essere fucilato nella notte del 21 dicembre 1943: "Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato. Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto... Accetto con rassegnazione il suo volere. Non piangetemi, ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l'Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia Mamma che santamente mi educò e mi protesse per i vent'anni della mia vita. L'amavo troppo la mia Patria; non la tradite, e voi tutti giovani d'Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale. Perdono coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l'uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia (...). A te Papà l'imperituro grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare e mi concedesti (...). Ginio e Gianni siano degni continuatori delle gesta eroiche della nostra famiglia e non si sgomentino di fronte alla mia perdita. I martiri convalidano la fede in una Idea. Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la Sua volontà. Baci a tutti. Giancarlo". Giancarlo Puecher, riconosciuto ufficialmente come prima medaglia d'oro della Resistenza in Lombardia, ha sacrificato la vita per contribuire a restituire agli italiani la libertà e la democrazia. Questo credo sia il lascito morale di Giancarlo Puecher, che noi non possiamo non raccogliere. E quindi non possiamo non impegnarci, soprattutto oggi, a sviluppare la conoscenza della Resistenza. Questo con particolare riferimento al compito della scuola e al futuro delle nuove generazioni. Un impegno a vivere concretamente lo spirito e la cultura della Liberazione nella vita quotidiana anche oggi. Infatti - e questo potrebbe essere il motto del nostro convegno - la Resistenza e la Liberazione non solo finite il 25 aprile del 1945. Si tratta di due valori fondativi del nostro vivere civile e della democrazia repubblicana assolutamente fondamentali. Ce li ricorda quasi tutti i giorni il presidente Ciampi. Quindi, la Resistenza e la Liberazione sono valori che restano sempre, oggi e domani. Questo mi pare l'elemento fondamentale che ci ha guidati nel preparare questa manifestazione, che è strutturata in tre momenti. All'inizio verranno esposti due lavori didattici, realizzati con due strumenti diversi ma complementari. Il primo nella forma della scrittura, frutto di letture e di elaborazione storiografica (in fondo al giornale "La conca" che avete a disposizione c'è la bibliografia scelta, che gli studenti hanno utilizzato per il loro lavoro di ricerca didattica). Poi ci sarà un contributo realizzato con le nuove tecnologie, le tecnologie multimediali: è stato prodotto un cd che contiene un ipertesto, che verrà presentato dalla collega Loredana Di Lecce. Alla fine, in conclusione della prima parte, sarà rappresentata una drammaturgia, intitolata "Solstizio d'inverno" e realizzata da un gruppo di studenti, facenti parte del gruppo teatro, guidato da un regista professionista nella persona di Marco Pernich. In mezzo ci saranno alcune testimonianze, come nel caso del dottor Giacomo de Antonellis che ha scritto una biografia di Puecher e poi interverranno i rappresentanti delle istituzioni, in particolare l'assessore all'Istruzione della Provincia di Milano Sandro Barzaghi, il consigliere comunale di Milano Aldo Ugliano e un esponente del Consiglio di Zona 5 di Milano, Stefano De Allegri. Questo è l'impianto complessivo della manifestazione, che ci consente ora di entrare nel merito coinvolgendo direttamente gli studenti. Prima però devo ricoredare un'altra cosa: alla fine del nostro incontro ci sarà la deposizione di una corona sulla lapide di Giancarlo Puecher, che è affissa nell'atrio dell' auditorium, unitamente alla distribuzione a tutti i presenti di una medaglia ricordo coniata appositamente per questa occasione da Mario Fontana, incisore milanese, che dovrebbe esser qui presente. Lo ringraziamo per il lavoro che ha fatto. A questo punto coinvolgo direttamente gli studenti per approfondire le motivazioni di questo convegno. Le relazioni del lavoro didattico degli studenti verteranno sui seguenti temi, che sono stati individuati scomponendo la lettera di Puecher: 1) La Resistenza di Giancarlo Puecher; 2) I cattolici e le Resistenza; 3) La Resistenza a Milano; 4) La Resistenza in Lombardia; 5) La Resistenza in Italia; 6) La Resistenza in Europa; 7) Il patriottismo; 8) La deportazione; 9) Letteratura e Resistenza; 10) La storiografia della Resistenza tra antifascismo e revisionismo; 11) Il 25 aprile e la cultura della Liberazione. I contenuti sono stati pubblicati sul numero speciale per il 60° della Liberazione del giornale zonale "La conca" (aprile 2005). Complessivamente gli studenti sono stati coinvolti in tre laboratori: due di storia e uno di teatro. E' stata una scelta cultura e didattica quella di lavorare con metotodo laboratoriale, che ci sembra il più fruttuoso. Se ci siamo riusciti lo vedremo alla fine di questa manifestazione. Dopo gli studenti parleranno testimoni e rappresentanti delle istituzioni: la domanda di fondo che pongo a loro è se ha ancora senso presentare e tenere vivo il tema della Resistenza e della Liberazione in riferimento alle nuove generazioni; in particolare, se ha ancora qualcosa da dire per loro l'esperienza resistenziale di Giancarlo Puecher. All'Assessore all'Istruzione vorremmo dire questo: gli studenti e i giovani hanno bisogno di conoscere, hanno anche bisogno di luoghi in cui ritrovarsi. Questo Centro, il Centro Puecher, negli ultimi 15 anni è diventato sempre meno' centro comunitario (come è scritto a chiare lettere nell'entrata) riducendosi quasi esclusivamente a centro scolastico. Noi vorremmo rilanciare il Centro Puecher come centro di aggregazione giovanile, centro comunitario, centro di elaborazione culturale sui temi forti, come il tema della Resistenza, il tema della Liberazione, il tema della pace e altri. Vorremmo sentire la sua opinione circa la possibilità di fare questo a partire dalla ristrutturazione futura nel breve tempo, perché - come potete vedere - questo auditorium versa in condizioni quasi inagibili. Questa dunque la duplice finalità del convegno: il recupero della memoria della Resistenza e il rilancio del Centro Puecher. Ma è il caso di far parlare gli studenti. 2. Studenti del Liceo Scientifico "Allende" La Resistenza di Giancarlo Puecher e il valore della memoria Le ragioni di un convegno e di un lavoro didattico Lo scopo del convegno è duplice: innanzitutto, contribuire a tenere viva la memoria storica della Resistenza e della Liberazione coinvolgendo direttamente gli studenti; in secondo luogo, rilanciare il Centro Comunitario Provinciale Giancarlo Puecher che, dopo oltre trent'anni di vita deve essere sottratto al crescente degrado e soprattutto recuperare la sua funzione comunitaria originaria, che non è solo scolastica ma anche sociale, come centro di aggregazione giovanile. In questo senso, risulta particolarmente significativo il richiamo alla figura di Giancarlo Puecher, giovane milanese, ricco e cattolico, fucilato dai fascisti nel territorio di Erba (Como) il 21 dicembre 1943. Nelle due note raccolte di lettere della Resistenza, italiana ed europea (Einaudi, 1952 e 1969), è riprodotta anche la sua lettera, scritta prima di essere ucciso. Da essa ha preso spunto il progetto di lavoro didattico, che è stato attuato in tre direzioni: a) la realizzazione di una drammaturgia teatrale ispirata dalla scelta resistenziale di Giancarlo Puecher e costruita direttamente dagli studenti sotto la guida del regista Marco Pernich; b) inoltre, la puntualizzazione, attraverso la scrittura, dei molteplici aspetti della Resistenza che emergono dalla lettera di Puecher: dalla dimensione territoriale (Resistenza milanese, lombarda, italiana ed europea) a quella simbolica e ideale (il 25 aprile, il patriottismo, la motivazione dei cattolici, ecc.), dalle conseguenze devastanti, come la deportazione ( di cui è stato vittima il padre, il notaio Giorgio Puecher) all'interpretazione letteraria (letteratura e Resistenza), fino al dibattito storiografico, che oggi contrappone alle distorsioni del revisionismo ideologico e strumentale le acquisizioni "scientifiche" di una nuova storiografia rivolta a risolvere la crisi della monumetalizzazione retorica del mito resistenziale nella salvaguardia di una memoria che per alcuni è memoria "condivisa", per altri è memoria "divisa" e non "pacificata" (Luzzatto, 2004); c) infine, la costruzione di un ipertesto sulla Resistenza con lo scopo di coniugare le esigenza della buona divulgazione con le potenzialità della tecnologia multimediale utilizzando diverse fonti (fotografiche, audiovisive, ecc.). E' chiaro, quindi, il senso del lavoro didattico-educativo: riproporre alla conoscenza ed alla riflessione delle nuove generazioni il protagonismo resistenziale di un giovane che, come tanti altri, ha testimoniato con la vita la fedeltà agli ideali della Resistenza, in cui affondano le radici i valori della nostra democrazia repubblicana. L'eredità morale della breve vita di Giancarlo Puecher sta soprattutto nella consapevolezza di morire per la liberazione della "Patria" dal nazifascismo e la ricostruzione di "una nuova unità nazionale" coniugando libertà e democrazia (Giuseppe Deiana). La Resistenza di Giancarlo Puecher Quella del Puecher viene definita una figura emblematica del movimento antifascista globalmente inteso e di quello cattolico in particolare. Nella sua storia personale si esprime l'intera storia della Resistenza: quella di tanti giovani che, a migliaia, si unirono agli adulti per costruire una componente, quella cattolica, non unica ma essenziale e necessaria della Resistenza italiana. Giancarlo Puecher Passavalli nasce a Milano nel 1923 sotto auspici favorevoli, appartenendo ad una famiglia agiata che poteva vantare un titolo nobiliare. Il padre Giorgio, stimato notaio, era stato volontario nel primo conflitto mondiale; politicamente si considerava un liberale ma l'avvento del regime l'aveva indotto a dedicarsi esclusivamente alla famiglia e al lavoro. La madre Annamaria Gianelli era una donna disinvolta, moderna nei gusti e in grado di trasmettere ai suoi cari la propria giovialità. Entrambi nutrivano una profonda fede in Cristo e nella sua istituzione terrena, la Chiesa cattolica. Nell'arco della sua breve esistenza Giancarlo è sempre accompagnato dalla travolgente passione sportiva che lo porta ad affermarsi nel ciclismo, nel nuoto, nell'equitazione, nell'atletica, nel tennis, nelle discipline invernali e nelle competizioni motoristiche. Questa sua passione non gli impedisce di applicarsi con profitto nello studio. - La sua formazione iniziale avviene nella scuola elementare di via Spiga, luogo deputato ad accogliere i figli della Milano-bene. Terminate le elementari frequenta le medie inferiori all'istituto statale Parini; si iscrive poi all'Istituto Leone XIII, gestito dai padri gesuiti. Terminato anche questo ciclo di studi decide, seppur contro voglia, di intraprendere gli studi giuridici per seguire il padre nella carriera notarile. Ricco, intelligente e vivace, il giovane Puecher può superare le asprezze e i sacrifici della vita grazie all'attenzione dei genitori, che gli trasmettono una profonda devozione religiosa. Nel 1941 la signora Annamaria Gianelli cede improvvisamente al male incurabile che l'aveva aggredita un anno prima; ne deriva un profondo periodo di crisi per il giovane, il quale tenta di colmare il vuoto venutosi a creare ricercando nuovi affetti nelle figure della zia Lia Gianelli e di Elisa Daccò, ragazza che egli aveva già scelto come compagna della sua vita. Durante l'università Giancarlo porta avanti i suoi sogni di "defensor patriae" (Bianchi, 1965) e fa domanda di volontario quale pilota nell'Arma Azzurra, ma la destituzione di Mussolini nel luglio del 1943 gli impedisce di rendersi utile come aviatore. Il giovane Puecher è estraneo alla politica, ma vive l'amor di patria come sentimento naturale, senza una specifica preparazione ideologica, se non quella del Vangelo. La strada scelta da Giancarlo rientra nel filone cattolico democratico che si collega al Movimento guelfo d'azione, anche se egli non lo conosce direttamente. Spinto dal desiderio di un profondo rinnovamento etico, viene a contatto con un'embrionale formazione partigiana autonoma, organizzata sui monti a nord di Erba dal tenente degli alpini Franco Fucci, diventandone uno dei punti di riferimento. Il gruppo è composto da pochi giovanissimi, dai diciotto ai ventitré anni; nel loro programma pochi obbiettivi ma funzionali: offrire assistenza agli sbandati, arrecare disturbo ai tedeschi, colpire il nemico senza spargimenti di sangue con azioni di risonanza. Giancarlo e il suo gruppo non hanno né remore né timori: quando si affronta una strada anti-conformista occorre accettare la circostanza dell'imprevisto; hanno solo un sogno: vedere un'Italia libera e ricostruita soprattutto nello spirito. Se l'epilogo del sogno dovesse coincidere con la morte, questo non li turba. L'imprevisto si presenta la notte del 12 dicembre '43: nel corso del trasporto di esplosivo e di materiale di propaganda, Giancarlo viene sorpreso e catturato nei pressi di Erba, mentre Fucci, che lo accompagna, rimane gravemente ferito al ventre in un tentativo di reazione. La sua condizione di prigioniero politico lo rende pericolosamente oggetto delle rappresaglie repubblichine. Il giorno 20 dicembre, a causa dell'uccisione di un noto squadrista locale Germano Frigerio, il prefetto di Como Franco Scassellati impone la costituzione di un tribunale straordinario che sentenzia la morte per Puecher e altri tre partigiani. Le condanne a morte di questi vengono subito commutate in pesanti pene detentive, quella di Puecher viene mantenuta. L'avvocato Beltramini non riesce ad impedire la fucilazione di Giancarlo, essendo questa un atto preventivamente deciso dai dirigenti fascisti. A Puecher rimane solo il tempo di scrivere un'ultima lettera al padre, che succesivamente deportato, morirà a Mauthausen. Poi viene condotto al cimitero di Erba dove, dopo aver abbracciato in segno di perdono cristiano i componenti del plotone d'esecuzione, viene fucilato alle 2 del mattino del 21 dicembre 1943, alla luce dei fari di un camion. Giancarlo Puecher Passavalli, partigiano e cristiano, è una delle prime vittime della guerra di liberazione. Come sottolinea Giacomo De Antonellis (autore della seconda biografia di Puecher), "il caso Puecher" deve servire a ricordare e non dimenticare chi ha perso la vita per riconquistare la libertà e la democrazia. (Massimiliano Suardi e Alessandro Vecchi) I cattolici e la Resistenza I cattolici ebbero un ruolo fondamentale nella Resistenza in Italia, soprattutto nella parte settentrionale della penisola: si impegnarono attivamente contro il nazifascismo "per una definitiva sistemazione pacifica della nostra patria [...] in una nuova unità nazionale", come afferma Giancarlo Puecher, prima medaglia d'oro della Resistenza cattolica lombarda. Sono state condotte numerose ricerche storiche che, a partire da interviste a testimoni diretti (Crivellin, 2000), dalla consultazione dei "Libri Cronici" della Chiesa e da documenti provenienti dalla Repubblica Sociale Italiana, hanno raccolto dati importanti sulla formazione dei cattolici in quel periodo: è stato rilevato che le parrocchie erano i luoghi in cui si sviluppava prevalentemente la coscienza critica rispetto a ciò che stava succedendo in Italia e nel mondo. Sono emerse anche interessanti testimonianze sulla percezione del fascismo da parte dei cattolici (Carlotti, 1997), sul perché molti abbiano cambiato idea rispetto alle prime buone impressioni e sui motivi per cui molti cattolici abbiano deciso di operare la scelta resistenziale partecipando alla lotta contro il nazifascismo. In un primo momento i cattolici sono stati positivamente colpiti dal fascismo, perché esso appariva come una forza nuova e vincente, in grado di garantire l'ordine sociale e il futuro politico della nazione. Il Duce era ben visto perché rappresentava una figura prestigiosa, con volontà di affermazione, e faceva leva sulla grandezza nazionale, sul colonialismo e sul patriottismo, organizzando manifestazioni sportive di grande effetto. Il fascismo era considerato una forza capace di contrastare il fenomeno del comunismo, la cui diffusione era percepita con preoccupazione dalla Santa Sede. Nel '31 i cattolici iniziarono a mostrare le prime perplessità nei confronti del regime poiché esso mirava ad avere l'egemonia in tutti i campi, compreso quello dell'educazione, che era estremamente importante per le famiglie e le comunità parrocchiali e locali, in cui si radicava il potere della Chiesa, che non era disposta a cederlo al fascismo. A partire dal '38 i cattolici si opposero ancora di più al fascismo, a causa delle leggi razziali che erano in contrasto con la loro morale e non rispettavano la dignità dell'individuo. I cattolici parteciparono alla Resistenza con un impegno sia civile sia armato. Essi si impegnarono prevalentemente nel campo dell'assistenzialismo, non meno rischioso della lotta armata, mossi dallo spirito di carità. Offrivano il loro aiuto a quanti avessero avuto bisogno, anche agli sbandati e ai perseguitati, senza fare nessuna distinzione di cultura, razza e religione. Per l'impegno assistenziale la Chiesa mise a disposizione le sue strutture, come le parrocchie, gli oratori, i campanili e i seminari, per nascondere armi, e soprattutto persone: ebrei, ex prigionieri, alleati fuggiti dai campi di concentramento, renitenti alla leva e militari italiani ricercati dopo l'armistizio; e per ospitare le riunioni segrete del CLN locale. Aderendo alla lotta armata, benché con minor partecipazione rispetto a quella civile, i cattolici non tradirono i propri principi: molti si rifiutarono di usare le armi se non in casi di estrema necessità e di ricorrere all'uccisione fine a se, stessa. Presero infatti le distanze dalle altre formazioni a partire dal nome (si autodefinivano spesso "patrioti" e non "partigiani"), in particolare da quelle comuniste che, secondo loro, compiendo inutili atti di terrorismo, provocavano rappresaglie da parte dei nazisti contro l'innocente popolazione civile. All'inizio i cattolici non disponevano, come i comunisti, di quadri già organizzati e preparati per una "guerra per bande". Così si organizzarono e a Ponte Lambro venne formato il primo gruppo autonomo lombardo, del quale faceva parte anche Giancarlo Puecher Passavalli. Gli ecclesiastici non reagirono tutti nello stesso modo: gli arcivescovi e i vescovi tendevano a uniformarsi alle indicazioni della Santa Sede tentando di diffonderne il pensiero nelle comunità, condannando le prime manifestazioni di resistenza armata per mantenere l'ordine ed evitare la guerra civile. Dal giugno del 1944, quando gli eserciti alleati entrarono a Roma rendendo difficile la comunicazione con il Vaticano, i vescovi furono costretti ad operare autonomamente intensificando i rapporti tra le varie diocesi. Alcuni parroci, coadiutori e cappellani, più vicini alle realtà bisognose della popolazione, parteciparono in prima persona sia alle attività di assistenzialismo sia alle azioni armate, prestando ai partigiani anche le cure spirituali di cui avevano bisogno e adempiendo una funzione di supplenza dell'autorità civile disgregata e impotente. Valutando il ruolo dei cattolici nella Resistenza emergono anche aspetti negativi, soprattutto per quanto riguarda i rapporti conflittuali con le bande comuniste, dovuti a divergenze ideologiche e morali su come condurre la lotta armata. Tuttavia la Resistenza cattolica ha dato un importante contributo alla liberazione dell'Italia e dell'Europa da un regime oppressivo e ingannevole, come era quello nazifascista, perché mossa da valori universali di libertà, di giustizia e di solidarietà che hanno coinvolto un gran numero di cattolici, "ribelli per amore", come il giovane Giancarlo Puecher. (Tamara Medugno e Matteo Picozzi) La Resistenza a Milano Cosa s'intende per "Resistenza"? Con questo termine, "si indica in generale l'insieme delle attività e delle azioni condotte durante la seconda guerra mondiale (1939-45) contro la Germania nazista e i suoi alleati da parte di membri delle popolazioni dei paesi occupati"(Enciclopedia storica, Zanichelli, 2000, pag 1328). Questo fenomeno ha avuto sviluppi praticamente in tutta Europa (anche se non sempre con esiti positivi), compresa la città di Milano. Qui il risultato è stato la liberazione della città, anche se questo ha richiesto molto tempo e molti sacrifici umani (chi non moriva in battaglia, poteva essere catturato e fucilato in piazza dai nazisti). Agli inizi del Novecento, Milano era diventata sede della maggior parte delle principali industrie italiane e il più importante centro industriale, commerciale e finanziario del Paese. Ma nel periodo della 2a guerra mondiale la vita era molto difficile. La città, in parte sfollata, era sotto continui bombardamenti da parte di aerei angloamericani. Questi bombardamenti, che avvenivano anche su zone abitate come Porta Ticinese, Porta Genova e l'area a nord dell'Arena, miravano a spingere la monarchia e il governo Badoglio a firmare l'armistizio. I caccia inglesi mitragliavano i mezzi militari, ma anche carri di fieno, biciclette, corrieri, ecc.; il terrore portò la gente ad inventarsi la figura di un solitario e onnisciente pilota che mitragliava tutto ciò che si muoveva, chiamandolo Pippo (Bogomaneri, 1994). La famiglia Puecher fu costretta a trasferirsi nel Comasco, dove possedeva una villa. Ai. bombardamenti si aggiungeva il caro vita. L'impennata dei prezzi al mercato nero precludeva ai meno abbienti la possibilità di acquisti integrativi. Il rialzo dei prezzi era causato anche dall'arrivo dei tedeschi che, appena occupata la parte centrosettentrionale della penisola, imposero con forza il cambio valuta, lira-marco, in rapporto 10 a 1. Queste condizioni portarono il popolo alla ribellione. Il panorama resistenziale milanese fu dominato per tutta la lunga fase iniziale quasi esclusivamente dall'organizzazione comunista e dalle brigate Garibaldi, alle quali poi si affiancarono le formazioni composte da socialisti e repubblicani. I democristiani, invece, si caratterizzarono fondamentalmente nel fiancheggiamento della lotta e nel soccorso ad ex prigionieri di guerra, ebrei, ricercati e arrestati, sfruttando la rete assistenziale e le organizzazioni clandestine dello scoutismo cattolico. Immediatamente dopo l'occupazione nazista, interrotti i collegamenti con numerose fabbriche a causa dei licenziamenti, il Pci (costituito il comando generale delle brigate Garibaldi il 20 settembre 1943) mobilitò le proprie forze nell'attivazione dei Gruppi d'azione patriottica (Gap). Diretta dal comando militare del Pci, la III brigata Garibaldi Lombardia compì, tra l'ottobre '43 e il gennaio '44, 56 azioni, infliggendo al nemico (fascista e nazista) sensibili perdite. Sull'onda dello sciopero torinese del 18 settembre il Pci, facendo leva sul malcontento del popolo per l'aggravarsi delle condizioni di vita e di lavoro, paralizzò la produzione e i trasporti urbani dal 13 al 18 dicembre con uno sciopero che coinvolse decine di migliaia di operai. La tensione nelle fabbriche giunse al massimo con lo sciopero generale del marzo '43 che, nonostante il successo politico della mobilitazione, lasciò amarezza e delusione per il mancato ottenimento di miglioramenti economici e per le deportazioni selettive attuate dai nazisti. Si aggiunse inoltre l'arresto di quasi tutti i membri dei gap (ricordato come la caduta del I gap) che privò gli scioperanti della copertura armata. Gli sforzi intrapresi da Pci e Pda sembrarono annullati dai rastrellamenti e dalla repressione poliziesca. Dopo un vuoto di circa due mesi, tra maggio e giugno '43, vi fu una sorta di risveglio dell'attività gappista, guidata dal nuovo comandante Giovanni Pesce, a Milano e in provincia, con la comparsa di squadre armate impiegate a difesa degli scioperi delle mondine e in azioni di sabotaggio alle mietitrebbiatrici per impedire la consegna del grano all'ammasso. Le nuove squadre rappresentarono il salto di qualità che conferì alla lotta armata un carattere di massa. La creazione in giugno del comando provinciale retto da Italo Busetto accelerò lo sviluppo del movimento sappista che a settembre vantava un totale di circa 3.000 uomini, il 10-15% dei quali, capaci anche di azioni di stampo gappista, fu utilizzato nelle cosiddette squadre di punta, mentre il restante fu impiegato nel sabotaggio in fabbrica, in azioni di propaganda, disarmi, e altre azioni di minore rilevanza militare che, moltiplicandosi, concorsero a preparare il clima insurrezionale (Borgomaneri, 2001). Ai rovesci militari e all'intensificata attività gappista e sappista i nazifascisti risposero nell'estate del '44 riprendendo e accentuando provvedimenti terroristici. Per contrasto, i comandi intensificarono le azioni gappiste e sappiste, e il Pci, attraverso i Comitati d'agitazione clandestina, cercò di rivitalizzare la combattività in fabbrica, avviando con lo sciopero del 21 settembre un nuovo ciclo di lotte. L'attacco autunnale contro le zone libere, i rastrellamenti del novembre-dicembre `44 e la repressione in pianura, misero in crisi l'intero movimento resistenziale, mentre il crescente calo della produzione bellica privò la classe operaia di forza contrattuale, e così il 23 novembre il tentativo di chiudere con uno sciopero di solidarietà le lotte aziendali, riprese da settembre, registrò una riuscita deludente, e fu inoltre represso duramente. Durante la reazione, Giovanni Pesce, allontanato da Milano nel settembre del '44, fu chiamato a ricostruire la III Gap, mentre il movimento sappista fu incaricato di compensare la perdita della centralità operaia, spostando la lotta dalle fabbriche alla strada. - Tra marzo e i primi di aprile si intensificarono le azioni di fabbrica, e a partire dal 3 aprile '44 si mobilitò il proletariato industriale in una catena di scioperi rivendicativi. Diversamente dai piani operativi preparati dal comando di piazza milanese l'insurrezione nacque spontaneamente: nel pomeriggio del 24 aprile, dei tedeschi in transito nella zona di Niguarda intervennero in aiuto di alcuni fascisti disarmati da una squadra garibaldina. I sappisti, anziché sganciarsi, ingaggiarono una sparatoria che in breve si dilatò con l'arrivo di altri nazifascisti e altri garibaldini; e in breve cominciano a sorgere le prime barricate. Il 25 aprile fu caratterizzato da innumerevoli scontri a fuoco che si susseguirono fino a sera quando alle 17 Mussolini, sperando in una resa, incontrò l'Arcivescovo Schuster, il comandante supremo delle forze partigiane Cadorna e i rappresentanti del Clnai. Richiesta una sospensione delle trattative di un'ora, Mussolini ne approfittò per lasciare Milano e dirigersi verso la Svizzera. Il 27 aprile la Resistenza aveva in pratica il controllo della città tranne alcuni avamposti tedeschi; ma è il 28 aprile la data in cui, le leggendarie formazioni garibaldine di Cino Moscatelli entrarono a Milano accolti da un tripudio di folla osannante: Milano era libera (Borgomaneri, 1995). (Daniele Chianese e Jacopo Cremonesi)

La Resistenza in Lombardia

La Resistenza in Lombardia fu contrassegnata dalla dura repressione nazifascista seguita all'occupazione tedesca e all'insediamento del governo e dei comandi militari della Repubblica sociale italiana (Rsi). Le fasi organizzative della lotta partigiana furono contrastate dai rastrellamenti, dagli arresti, dalle torture, dalle fucilazioni e dalle deportazioni di militanti comunisti (inquadrati nelle brigate Garibaldi), socialisti (brigate Matteotti), azionisti (brigate Giustizia e Libertà), cattolici (Fiamme Verdi) e di singoli esponenti di bande autonome. Nonostante la vasta offensiva antipartigiana messa in atto dai nazisti, lo sviluppo del movimento armato lombardo si è consolidato con la creazione delle Squadre di azione patriottica (Sap) e dei Gruppi di azione patriottica (Gap), a cui i fascisti contrapposero le Brigate nere, come la famigerata Muti. A partire dal marzo 1945, la crescente attività delle forze gappiste e sappiste e la ripresa di vigore delle agitazioni operaie hanno debellato "le trame del variegato schieramento moderato-nazifascista gravitante attorno ai tentativi di mediazione antinsurrezionale della curia milanese" (Borgomaneri, 2001, p. 533), creando le condizioni favorevoli all'insurrezione del 25 aprile nel capoluogo lombardo, che fu liberato dalle divisioni garibaldine e dalle prime avanguardie americane. La liberazione dei capoluoghi provinciali è stata effettuata prevalentemente in modo incruento. Ma quali sono stati i principali fatti di Resistenza nelle maggiori province lombarde? Nella città di Bergamo i primi tentativi di organizzazione di rivolte antifasciste cominciarono l'8 settembre 1943 sui monti della zona attorno a Lovere e Clusone. Queste organizzazioni erano costituite da comunisti, da azionisti e da alcuni antifascisti autonomi dai partiti, protagonisti della nascita della brigata 538 Garibaldi Martini di Lovere e nell'autunno 1944 della brigata Giustizia e Libertà Conazzi in Val Seriana. In pianura ci fu la formazione delle squadre di azione patriottica che svolsero un importante movimento resistenziale nel tessuto sociale di fabbrica e di paese. Tra la fine del novembre e l'inizio del dicembre 1944, ad eccezione della 53' brigata Garibaldi, le formazioni della resistenza vennero tutte smembrate dalla pressione nazifascista e da compromessi con il nemico. Tuttavia, all'inizio del '45 le brigate GL e Garibaldi riuscirono a imporre il loro livello di alta combattività arrivando così a fare arrendere le ultime SS. Nella città di Brescia, il movimento si distinse per la presenza in larga parte dei partigiani cattolici e per la tensione, talvolta estrema, tra questi e le formazioni garibaldine. L'avversità cattolica alla politicizzazione delle bande, sostenuta invece dai comunisti, impedì la formazione di una organizzazione militare a carattere unitario sfociando cosi, 1'11 novembre 1944, nella costituzione delle Fiamme Verdi. Queste erano sostenute dall' associazionismo parrocchiale sia di città che di provincia, oltre che dai cospicui aiuti finanziari da parte dell'imprenditoria locale. I comunisti e i socialisti diedero vita al primo Gap di città comandato da Leonardo Speziale; contemporaneamente i cattolici si impegnarono nel trasferimento in Svizzera di molti ex prigionieri slavi e inglesi fuggiti dal campo di concentramento di Vestone. Le avanguardie americane entrarono in città il 28 aprile del 1945 aiutando le formazioni partigiane nella liberazione del territorio della provincia bresciana. A Como l'avvio del movimento resistenziale si concretizzò a partire dalla primavera del 1944 con un più consistente sforzo organizzativo e assistenziale dei partiti antifascisti e del Cln locale, appoggiati anche dal clero come nel caso di don Achille Bolis, che verrà torturato fino alla morte nel carcere milanese di San Vittore. L'attività clandestina e partigiana si svolgeva in condizioni ambientali particolarmente sfavorevoli per la presenza nel Comasco di importanti comandi e residenze di ministri della Rsi e di famigerati bande poliziesche repubblichine. Molti gruppi costituiti da ex militari che si erano rifugiati sui monti per sfuggire alla repressione nazista furono catturati, unitamente ad altre formazioni di partigiani, come quella di Giancarlo Puecher Passavalli. La liberazione della città avvenne in modo incruento il 26 aprile dopo la sosta notturna di Mussolini e dei gerarchi in fuga. A Lecco, subito dopol'8 settembre 1943, ex militari sbandati e numerosi prigionieri di varia nazionalità, fuggiti dai campi di prigionia, si radunarono sul monte Erna, diretti dai comunisti Renato Carenini e Gaetano Invernizzi. Circondati e attaccati concentricamente da quattro colonne tedesche, i sopravvissuti furono costretti a disperdersi. Mentre sui monti a nord di Lecco sopravvisse la I brigata Cacciatori delle Grigne. I collegamenti e una nuova organizzazione dei gruppi superstiti portò, nell'estate del 1944, alla costituzione della 898 brigata Garibaldi Poletti e della 558 Fratelli Rosselli. La creazione e l'attività del movimento resistenziale nel Basso Lecchese furono particolarmente ardui e pericolosi data la presenza, oltre che dei presidi fascisti, di comandi e servizi della legione SS italiana. A fianco dell'attività più prettamente militare svolta dai garibaldini e dai gappisti, si sviluppò l'impegno dei cattolici nella propaganda e nell'assistenza a sbandati, prigionieri alleati e partigiani. Gli scontri più sanguinosi si verificarono nell'Alta Brianza dove gli appartenenti alle brigate del Popolo della divisione insurrezionale Puecher persero oltre una trentina di partigiani. Le operazioni insurrezionali in città cominciarono il pomeriggio del 26 aprile 1945 e si conclusero la mattina del 27 quando i partigiani riuscirono ad avere ragione sui tedeschi e sui fascisti. Nel territorio di Lodi la lotta partigiana fu fortemente condizionata dal terreno pianeggiante attraversato dalla ferrovia Milano-Piacenza costantemente controllata dai nazifascisti e dalle difficoltà di penetrazione nell'ambiente contadino, restio all'impegno armato. Notevole fu, comunque, il contributo dei giovani lodigiani alla lotta in Valsesia, nell'Ossola, in Valtaleggia e nell'Oltrepo. Il Cln si costituì con l'appoggio esterno del clero locale, frenato da un attendismo di natura morale, che svolse un'attività assistenziale e di collegamento, senza assumere una reale funzione di direzione nella lotta. Nonostante la repressione e le fucilazioni da parte dei tedeschi, l'insurrezione nel Lodigiano si affermò in modo incruento nella giornata del 26 aprile 1945. A Mantova non si sviluppò un consistente movimento resistenziale al fascismo per ragioni di natura geografica e per divisioni interne al movimento democratico e socialista. Nel caso della lotta partigiana, sono circa trecento i mantovani che vi parteciparono, agendo soprattutto in altre province. D'altra parte, però, l'ostilità nei confronti della occupazione tedesca è testimoniata dal numero dei militari in fuga a causa dell'arruolamento imposto dalla Germania nazista per i lavori forzati. Complessivamente i mantovani caduti e dispersi nella guerra di liberazione in Italia e all'estero sono stati 460, i fucilati 101, i deceduti o dispersi nei lager nazisti 437, i prigionieri in mano tedesca dispersi in mare 82. Zona di diffusione del forte movimento delle leghe contadine bianche, animate da Guido Miglioli, il Cremonese nel ventennio fascista divenne il feudo di Roberto Farinacci, organizzatore di uno dei più feroci squadrismi agrari e urbani, che si distinse per i numerosi arresti delle formazioni partigiane, mettendo in crisi il movimento gappista e sappista. I126 aprile 1945 Farinacci fuggì, ma venne catturato il giorno successivo dai partigiani garibaldini. Dopo essere stato processato a Vimercate, fu fucilato il 28 aprile. Nella città di Pavia, nell'autunno del 1943, i comunisti e gli azionisti si costituirono in nuclei Gap; nelle zone della Lomellina e dell'Oltrepò videro la luce i primi scioperi organizzati dai Comitati di agitazione. Il clima di lotta fu mantenuto vivo dai comitati clandestini di fabbrica che organizzarono scioperi alla Necchi e alla Snia di Pavia. Nell'Oltrepò si costituirono le brigate garibaldine, matteottine e gielliste, mentre nella Lomellina si verificarono, verso la fine di maggio 1944, le lotte delle mondine che registrarono l'intervento protettivo delle prime Sap. L'insurrezione a Pavia prese l'avvio nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1945 con la neutralizzazione, operata dai sappisti ferrovieri, dei dispositivi predisposti dai tedeschi per la distruzione degli impianti e dei locomotori. Il 26, mentre negli altri centri della provincia si registrarono scontri a fuoco di varie entità, i comandi nazifascisti si arresero ai partigiani locali e ai primi reparti americani. Le valli della provincia di Sondrio diventarono rifugio di gruppi di ex-militari sbandati e giovani renitenti. Questi non riuscirono però a sopravvivere ai primi rastrellamenti dell'inverno 1943. Successivamente, nell'alta valle si affermò la presenza delle brigate Sondrio, Stelvio, Mortirolo e Gufi comandata da ex ufficiali dei carabinieri e del Servizio informazioni militari, finanziata dalla società Edison, interessata alle forze ritenute politicamente più affidabili per la difesa degli impianti idroelettrici. Iniziate le operazioni insurrezionali, tutta la provincia fu liberata tra il 26 e il 29 aprile. I tedeschi evacuarono il capoluogo il giorno 28, mentre i distaccamenti della brigata Rinaldi e Sondrio cominciavano a farvi il loro ingresso. Infine, la città di Varese, caratterizzata dall'insediamento nel proprio territorio dai numerosi impianti industriali, come le più importanti fabbriche aeronautiche. La vicinanza con la Svizzera, fece di Varese la zona con il più intenso afflusso di militari sbandati e di ebrei che, dopo 1'8 settembre 1943, tentarono l'espatrio clandestino. Accanto alle manifestazioni di lotta armata, si svilupparono intense lotte di fabbrica che resero necessario l'intervento diretto dell'incaricato nazista per la produzione bellica, generale Zimmermann, il quale - tra l'altro - ordinò la deportazione in Germania di undici operai delle Officine Ercole Comerio di Busto Arsizio. La crescente attività partigiana fu favorita dalle numerose formazioni di diverso orientamento politico che, nonostante l'accanimento repressivo, portò all'insurrezione coinvolgendo molte aziende di tutta la provincia in una serie di scioperi a scacchiera. In conclusione, in Lombardia svolsero un ruolo molto importante le Brigate Garibaldi (circa il 40% delle forze partigiane), legate al Partito comunista italiano, comandate da Luigi Longo e le Brigate Giustizia e Libertà (25% delle forze partigiane) legate al Partito d'Azione; queste furono comandate da Ferruccio Parri e Franco Solari. Oltre a queste ci furono le Brigate cattoliche (15%) divise nelle formazioni delle Fiamme Verdi, Fratelli di Dio e Brigate del Popolo; poi, le Brigate Autonome (15%); infine, le Brigate Matteotti legate al partito Socialista Italiano (5%). "L'apposita commissione paritetica, il 31 agosto 1947 riconobbe alla Lombardia 3.938 caduti, 1.697 feriti, 15.056 partigiani combattenti, 8.943 patrioti e 13.296 benemeriti, ai quali vanno aggiunti i numerosi resistenti - in maggior parte impegnati in strutture più prettamente politiche — che non vennero riconosciuti perché giudicati non in possesso dei requisiti essenzialmente in base a criteri burocratico-militari" (Borgomaneri, 2001, p. 534). Il 26 ottobre 1945, da Umberto di Savoia, Luogotenente generale del Regno, fu conferita la Medaglia d'oro al Valore Militare (alla memoria) a Giancarlo Puecher (Bianchi, 1965, p. 134). (Eric Righetti e Fabio Sverzelati)

La Resistenza in Italia

Il periodo della Resistenza, che si estende dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, è senza dubbio uno dei più importanti e dei più simbolici della storia recente del nostro Paese, poiché ha portato alla fine del fascismo e alla nascita della Repubblica. La comparsa dei primi nuclei di partigiani avvenne già dopo l'armistizio dell'8 settembre, quando il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai) iniziò a discutere l'impostazione da conferire alla guerra partigiana. Da un lato Ferruccio Parri, comandante delle brigate GL, voleva un esercito "patriottico" e non "partigiano"; dal lato opposto i comunisti ponevano l'esigenza di una guerra di popolo. Fu adottato quest'ultimo progetto poiché il disegno di Parri riduceva il valore della ribellione popolare. Infatti, i gruppi partigiani erano formati in gran parte da esponenti del PCI (brigate Garibaldi), anche se parteciparono attivamente membri del P.d.A (brigate GL), della DC (brigate cattoliche), del PSI (brigate Matteotti), nonché da ex militari e monarchici uniti nelle brigate autonome. Tuttavia le modalità classiche della guerriglia partigiana (mobilità, rapidità di attacchi e ritirate, rinuncia a difese rigide frontali e tecniche di dispersione di fronte al contrattacco nemico) non furono subito patrimonio di tutte le bande. Così i primi mesi furono molto difficili per l'offensiva partigiana, poiché mancava un'adeguata preparazione militare e l'organizzazione era scarsa, in particolare erano difficili i collegamenti. A tale limite si cercò di rimediare con lo sviluppo della rete di staffette, particolarmente fitta in alcune zone. Questo compito fu assolto soprattutto da donne, ma anche da giovani come Puecher e compagni. In alcuni casi, il protagonismo o l'inadeguata preparazione di alcuni capi esposero le bande ad avventure troppo rischiose. Le figure di "colpisti" solitari e di comandanti amanti dell'azzardo, se in alcuni casi riuscirono a realizzare imprese clamorose, in molti altri misero a repentaglio oltre misura le sorti delle formazioni e soprattutto le vite dei civili (Giovana, 2000). Già dalle prime rappresaglie, fu chiaro che il carattere oppressivo della presenza tedesca non costituiva la risposta alla ribellione popolare, ma era intento a prevenire l'esplosione di un'ostilità maggiore. Il primo provvedimento adottato dai nazisti fu il disarmo, la cattura e la deportazione in massa dei soldati italiani. Qualunque tentativo di resistenza fu duramente represso con stermini senza pietà (il più brutale fu quello di Cefalonia, dove ci furono circa 5000 vittime). Oltre a guerreggiare contro le bande, la controffensiva nazista tentò di coinvolgere le popolazioni civili, ree di sostenere ed offrire copertura alle formazioni partigiane. La libertà concessa ai comandanti tedeschi spinse il 17 giugno '44 il generale nazista Kesselring a dare l' ordine di combattere i partigiani in ogni modo e con ogni mezzo. Il generale nazista inoltre avrebbe coperto ogni comandante che avesse superato la misura solitamente riservatagli. Questo fu il periodo più difficile per la lotta partigiana con numerose manifestazioni di violenza da parte della coalizione nazi-fascista. Tali manifestazioni si distinguono in "strage" (uccisione di almeno cinque persone) ed in "eccidio" ( da due a quattro persone) (Collotti e Matta, 2001). Dal punto di vista della distribuzione geografica degli episodi si possono individuare tre aree principali caratterizzate da una maggiore ed omogenea diffusione del fenomeno delle stragi di civili. La prima area era la zona compresa tra il Golfo di Napoli e l'Abruzzo, dove i massacri furono eseguiti con la funzione di prevenire la formazione di nuclei partigiani. Nella seconda area, compresa tra il Lazio e le Marche, i massacri furono eseguiti soprattutto nelle zone montuose. La terza zona era quella dell'Appennino tosco-emiliano, dove morirono il 25% del totale delle vittime delle stragi naziste in Italia. Il conflitto si può suddividere in cinque fasi principali. La prima comprende il mese di settembre del '43 ed è successiva alla formazione dei primi nuclei partigiani, all'occupazione e allo stabilizzarsi del controllo tedesco in Italia. La seconda (ottobre '43-maggio '44) è quella in cui avvennero le prime rappresaglie della RSI e fu attuata, in particolare, la strage delle "Fosse Ardeatine", uno dei crimini nazisti più noti. La terza (giugno '44-ottobre '44) e la quarta fase (novembre '44-marzo '45) furono quelle più critiche per il movimento partigiano perché ci fu il maggior numero di stragi contro la popolazione, soprattutto in Toscana e in Emilia. L'ultima fase (aprile '45-maggio '45) fu la più breve ma la più importante; infatti portò alla liberazione del popolo italiano e alla ritirata nazista. Secondo la tesi di Claudio Pavone, da molti riconosciuto come il massimo storico della Resistenza italiana, si può parlare di " tre guerre" (Bollati Boringhieri, 1991). La prima guerra, la più ovvia, possiamo chiamarla "guerra patriottica", in cui il nemico principale era costituito dagli invasori nazisti. La seconda guerra, può definirsi "guerra civile", ed aveva come nemico i fascisti e come obiettivo la liberazione del popolo italiano dal fascismo. Infine la terza, la più complessa, può essere definita "guerra di classe", anche se questa guerra nella Resistenza non ha mai avuto una fisionomia del tutto autonoma dalle altre due (Pavone,1994). In conclusione, si deve dire che la guerriglia partigiana non vinse la cosiddetta "guerra dei venti mesi". Non vinse, né lo avrebbe potuto, poiché non era ovviamente nel suo potenziale bellico raggiungere questo traguardo. Anche se assolse pienamente il compito per cui era stata proclamata, al costo di pesanti perdite di vite umane, come nel caso di Giancarlo Puecher. (Gaetano Servidio) La Resistenza in Europa Il termine Resistenza indica il movimento di opposizione popolare, politico e militare organizzato durante la seconda guerra mondiale, contro la Germania nazista e i suoi alleati da parte delle popolazioni dei paesi occupati. Si trattò del più grande movimento di massa verificatosi nella storia europea. Esso assunse caratteri diversi a seconda dell'organizzazione politica e sociale dei vari stati occupati, ma anche a seconda degli alleati che contribuirono alla loro liberazione. Per quanto riguarda l'Europa orientale, gli aiuti furono forniti prevalentemente dall'Unione Sovietica, mentre nell'Europa occidentale furono prevalenti quelli americani e britannici. Gli inglesi contribuirono inoltre con la formazione della SOE (Special Operations Executive), specializzata nel rifornimento di quadri tecnici e nel collegamento delle missioni. Le zone d'azione della Resistenza furono tre: Europa orientale, Europa occidentale e Germania, la quale, a causa della complessità della formazione di una Resistenza, viene considerata un caso a sé. Importante è la distinzione da fare fra gli stati nei quali venne organizzata una Resistenza per ripristinare il potere precedente all'occupazione, e quelli in cui la Resistenza oltre che lotta di liberazione, rappresentò un movimento di opposizione e di rinnovamento contro il regime precedente (Collotti, 1980). Vi furono inoltre due diversi tipi di Resistenza: quella attiva, che contemplava l'organizzazione di atti militari clandestini e quindi lo scontro armato, e quella passiva, che consisteva prevalentemente nella protesta (scioperi) e nell'opposizione moderata (stampa clandestina, propaganda, ecc.): si trattò nel secondo caso di Resistenza operaia e intellettuale. Quest'ultima ebbe un ruolo importantissimo nella diffusione dei messaggi antifascisti, tanto è vero che in paesi come la Germania, in cui ogni tentativo di scontro armato e anche di propaganda contro il regime fu fortemente represso, gli intellettuali divennero simbolo della Resistenza. Si pensi ad esempio ai fratelli Scholl (fondatori della "Rosa bianca"), a Bertolt Brecht e a Thomas Mann, coinvolto nella conservazione delle memorie dei caduti in guerra (Einaudi, 1963). Analizziamo ora la Resistenza formatasi nei vari stati. Cominciamo dalla Germania, ovvero dal caso più complesso. Essa si trovava sotto il regime nazista, instaurato sin dal 1933, che stroncava ogni tentativo di Resistenza. Come detto in precedenza, la Resistenza dominante in Germania fu quella passiva, condotta dagli intellettuali (molti dei quali però esuli) e dagli operai. Vi furono però anche dei tentativi di Resistenza armata, soprattutto quello di Beck e Gòerdeler, che fallì l'attentato a Hiltler il 20 luglio 1944. In Germania quindi non si ebbero risultati concreti fino al 1941. Dopo la battaglia di Stalingrado infatti vi fu l'appoggio sovietico contro il regime nazista, e dal 1943 vi furono gli aiuti angloamericani. Tra le due superpotenze USA e URSS, però, in seguito si creò uno scontro diretto che portò, alla fine della seconda guerra mondiale, alla divisione della Germania in due: Germania orientale (sovietica) e Germania occidentale (angloamericana), e allo scoppio della cosiddetta "guerra fredda". Dopo quello tedesco il caso più complesso fu quello della Polonia, poiché fu il primo territorio invaso (fatta eccezione per Cecoslovacchia, smembrata a Monaco e in seguito aggregata al Reich nazista) e la sede del più "infernale" luogo di sterminio del regime (Auschwitz). La formazione di una Resistenza fu particolarmente complessa poiché, oltre al forte controllo da parte del regime, il paese era diviso in due zone, quella tedesca e quella sovietica. Dopo Stalingrado però vi fu un forte appoggio sovietico che permise l'insurrezione di Varsavia (8 ottobre 1944) e la successiva liberazione. E' molto importante notare che alla Resistenza polacca partecipò anche la cosiddetta "Resistenza ebrea", costituita da coloro che erano perseguitati dal regime, che non volevano scomparire e cercavano di dimostrare la propria validità e potenzialità. In Jugoslavia, sin dall'inizio della presenza straniera vi fu un movimento di Resistenza e questa assunse i caratteri di un movimento popolare, che coinvolse tutte le classi sociali. In Italia il movimento di Resistenza vero e proprio cominciò all'indomani dell'armistizio (8 settembre 1943): esso fu fortemente appoggiato dal CLN, costituito dai partiti riformatisi in clandestinità. L'Italia, inizialmente alleata alla Germania, dopo 1'8 settembre si trovò divisa territorialmente in due zone, quella settentrionale, occupata dai tedeschi, con il governo di Mussolini (fondatore della RSI) e quella meridionale, sotto il governo Badoglio. In Francia la Resistenza per molti versi fu analoga a quella italiana; il paese infatti si trovò diviso, a nord occupata dai nazisti e a sud dai francesi, e dai partigiani guidati dal generale De Gaulle. In Grecia la prima forma di Resistenza si manifestò subito dopo l'occupazione italiana, e dopo l'otto settembre vi fu quella contro l'occupazione tedesca. Il paese era diviso politicamente in due schieramenti: EDES (comunisti) ed EAM (anticomunisti). Tale discordia portò, dopo la fine della guerra, ad una guerra civile. In Olanda e in Norvegia si trattò di una resistenza passiva, finalizzata principalmente alla liberazione dal dominio straniero e al ripristino del regime precedente all'occupazione. Analogo fu il caso della Danimarca: in quest'ultima il re divenne addirittura emblema della Resistenza. L'Unione Sovietica fu l'unico paese in cui la Resistenza antitedesca ebbe alle sue spalle l'appoggio diretto dello stato e un'organizzazione militare regolare. Essa, subito dopo la battaglia di Stalingrado e quindi dopo la rottura del trattato con la Germania, ebbe un ruolo di primo piano nella Resistenza europea in quanto fornì gli aiuti necessari a diversi stati per la liberazione, soprattutto a quelli dell'Europa dell'Est (Collotti, 2000). La guerra poteva essere vinta dalle potenze della coalizione antinazista anche senza la Resistenza: senza di essa però l'Europa non avrebbe mai acquistato una sua identità. (Juan Pazmino F.)

Il patriottismo

"Muoio per la mia patria". Queste sono le parole con cui Giancarlo Puecher inizia la lettera scritta poco prima di essere fucilato dai fascisti a fianco del cimitero di Erba, all'età di vent'anni. Ma che cos'è il patriottismo? Il tema del patriottismo ha interessato e coinvolto gli intellettuali, che lo hanno interpretato in modi differenti. Inizialmente, nel mondo romano, è stato identificato con l'amore per la patria repubblicana che, come insegnava Cicerone, era la forma migliore di impegno pubblico."Alla patria va un amore di tipo particolare, ovvero la pietas e la caritas. I cittadini devono alla loro patria un amore simile all'affetto che essi provano per familiari ed amici: un amore che si esprime in atti di servizio e di cura per la cosa pubblica. La pietas e la caritas non comportano né brama né desiderio di possedere in modo esclusivo l'oggetto dell'amore e del desiderio; sono invece affetti generosi che si estendono alla cerchia degli amici per abbracciare la repubblica e i concittadini."(Viroli, 1995, p.24) Successivamente è stato sottolineato come l'amore per la patria non significasse necessariamente amore per le istituzioni repubblicane. Infatti nel XVI secolo i difensori dell'assolutismo monarchico hanno identificato la lealtà alla patria con la lealtà al re, o al principe, e hanno sostenuto che "patria" non significava necessariamente repubblica; infatti molti erano già allora gli esempi che le storie tramandavano di azioni virtuose compiute da sudditi di re e principi. Fu così che i caratteri repubblicani del linguaggio del patriottismo si andarono lentamente perdendo per essere poi ritrovati solo nel secolo successivo, ovvero negli anni della rivoluzione inglese. Infatti fu proprio in questi anni che scrittori come John Toland affrontarono l'argomento sostenendo (contro i difensori, come Herder, del patriottismo naturale, che affermavano che noi siamo legati alla nostra patria da un vincolo segreto della natura che è in primo luogo un attaccamento al suolo nativo, che abbiamo toccato con il nostro corpo e calpestato con i piedi), che "amare un pezzo di terra per il semplice fatto di esserci nati non è solo una falsa nozione di patria, ma un pregiudizio infantile simile a quello di alcuni vecchi, i quali ordinano che le loro salme siano trasportate per centinaia di miglia per essere sepolte accanto ai progenitori morti, alle loro mogli, ai loro amici". (p.56). Con questo J. Toland intendeva dire, secondo Maurizio Viroli, che " il vero amore della patria deve essere un amore puramente politico per la repubblica e non contaminato dall'attaccamento a un luogo ed a una cultura" (p.56). A questa interpretazione se ne aggiunse un'altra, nel XVIII secolo, ad opera di pensatori, come Voltaire, i quali intesero l' amor di patria semplicemente come fedeltà alla costituzione, fosse essa monarchica o repubblicana e amore verso i propri concittadini più che verso la propria terra. E' poi a partire dal XIX secolo che la concezione di patriottismo andò lentamente trasformandosi in nazionalismo politico. "Un nazionalismo politico che deve operare come una forza religiosa perché solo la nazione può assicurare all'uomo moderno il senso di radicamento e l'equilibrio spirituale di cui ha bisogno" (p.156). La Germania fu una delle prime nazioni in cui si è diffusa la concezione nazionalistica del patriottismo. Si consideri però che il patriottismo repubblicano non costituì mai una tradizione importante per il popolo germanico, per il quale il patriottismo si identificò con l'impegno a proteggere l'unicità spirituale del loro Paese. Un'unicità per cui combatterono già gli antichi germani nella loro guerra vittoriosa contro le legioni romane per la libertà di rimanere tedeschi. Accogliendo questa concezione nazionalistica, nel Novecento, in Francia si è sviluppata una nuova interpretazione di patriottismo che si fondava sugli ideali della repubblica riconoscendo il valore della nazione; teoria, quest'ultima, destinata però a rimanere isolata in quanto nell'età contemporanea il linguaggio del nazionalismo ha assorbito interamente quello del patriottismo. A questo proposito Umberto Saba scrive: "Patriottismo, Nazionalismo e Razzismo stanno tra loro come la salute, la nevrosi e la pazzia. Il Nazionalismo mostra, come la nevrosi, il rovescio della medaglia, attraverso l'esasperazione di un sentimento, così naturale nell'uomo come l'amore per il proprio paese" (Mondadori, 1994).Un orientamento a cui bisogna però reagire. Infatti, secondo Maurizio Viroli, solo attraverso una riscoperta della corretta interpretazione dei termini "patria" e "repubblica" moralmente accettabili e alla portata dei popoli che attualmente vivono nelle nostre democrazie, sarà possibile far sorgere un amore della libertà capace di vincere gli ostacoli che impediscono la maturazione della virtù civile. Una condizione, quest'ultima, nella quale sarà possibile far valere nel giusto modo un dovere definito "sacro" dall'articolo 52 della nostra Costituzione italiana, che prescrive la difesa della Patria. Questo mi pare il senso del patriottismo esaltato e vissuto fino alla morte da Giancarlo Puecher, che ha sacrificato la vita per amore della Patria e che ci esorta a non tradirla. (Eva Briz Pasqualetto)

La deportazione

Dopo la fucilazione di Giancarlo Puecher il padre Giorgio fu arrestato e deportato nel campo di concetramento di Mauthausen, dove è morto poco prima della caduta del nazismo. Ma che cos'è stata la deportazione dall'Italia? Nel periodo che va dalla crisi dell'estate del 1943 alla liberazione della primavera del '45, circa novecentomila italiani furono trasferiti forzatamente nel territorio del Terzo Reich. Con il crollo del regime nazista e la conclusione della guerra in Europa, "questi novecentomila esseri umani, o meglio quelli di loro che erano ancora in vita, condivisero le traversie di un lento e difficile ritorno in patria, che spesso era poco interessata ad ascoltare le loro vicende (...) e a farle diventare parte integrante della storia nazionale" (Mantelli, 2001, p. 124). Così nacque un uso generico dei termini "deportati e deportazioni"; inoltre, con la diffusione di notizie sul sistema nazista e sui nomi di alcuni suoi campi (come Auschwitz, Dachau, Mauthausen, ecc.) si generò una seconda deformazione concettuale: tutti coloro che erano stati deportati avrebbero conosciuto i lager; quindi si originò un corto circuito psicologico in base al quale si presumeva che chiunque fosse stato in Germania dall'autunno del 1943 alla guerra avesse conosciuto i campi di concentramento, identificati come campi di sterminio. In realtà, il concetto di deportazione indica condizioni molto diverse tra di loro. Infatti, dei circa novecentomila italiani presenti in Germania nella fine della seconda guerra mondiale, solo ottocentomila vi erano stati trasferiti dopo 1'8 settembre, gli altri centomila erano arrivati in seguito agli accordi che avevano previsto l'invio nel Reich di manodopera agricola e industriale italiana. Questi centomila vennero tuttavia definiti deportati; ma, anche nel senso più estensivo del termine, non dovrebbero essere definiti tali. Gli altri ottocentomila, invece, possono essere denominati deportati. Questi erano divisi in diverse categorie: la più numerosa era quella degli Internati militari italiani (Imi), che erano costituiti da ufficiali, sottufficiali e soldati delle Forze armate del Regno d'Italia catturati dalla Wehrmacht nei giorni successivi all' 8 settembre 1943 nella Francia meridionale e nei Balcani. Essi vennero detenuti fino all'agosto del 1944 in campi di prigionia militari; gli ufficiali nei cosiddetti "Oflager", mentre i sottufficiali e i soldati nei "Stammlager". Nell'agosto del '44 gli Imi vennero tramutati in lavoratori civili forzati e trasferiti negli "Arbeiterlager" (campi per lavoratori stranieri). Questi campi di prigionia militare non avevano nulla a che fare con i campi di concentramento, poiché i campi di prigionia militare erano subordinati all'autorità del Comando supremo delle Forze armate tedesche, mentre i campi di concentramento (KL) dipendevano dall'apparato SS. Oltre il novanta per cento riuscì a sopravvivere alla prigionia. E' più corretto e più utile analiticamente, quindi, definire la loro vicenda come "internamento militare", e non "deportazione" (Mantelli, 2001, p. 126). Un secondo gruppo, composto da circa centomila persone, comprende i lavoratori portati in Germania dopo 1'8 settembre 1943: un piccolo nucleo fu assunto nel Reich dal plenipotenziario generale per l'impiego della manodopera; gli altri invece vennero catturati durante rastrellamenti operati dalle unità tedesche e dagli apparati fascisti e furono in seguito trasferiti in Germania come lavoratori coatti. Un terzo gruppo, numericamente più ridotto, comprende coloro che vennero deportati dall'Italia avendo come destinazione il sistema concentrazionario nazista vero e proprio, dipendente della struttura SS. Di loro solo il dieci per cento riuscì a sopravvivere (circa quattromila). Solo a questo gruppo è opportuno attribuire l'appellativo di "deportati", restringendo perciò il senso del termine "deportazione" a quello di "deportazione nei campi di concentramento e di sterminio nazisti". Inoltre, vanno fatte altre ulteriori precisazioni: prima di tutto la categoria "deportazione" deve essere scomposto ulteriormente, poiché il sistema concentrazionario nazista era composto da due apparati con logiche differenti. Al sistema del campo di concentramento (KL) si aggiunse il sistema del campo di sterminio (VL) pensati come installazioni incaricate di eliminare fisicamente in massa e in tempi brevi gli ebrei d'Europa. I VL erano concepiti sul sistema dei KL; amministrativamente legati ad essi, ne differivano però per finalità e funzionamento. Solo dopo l'8 settembre 1943 l'Italia fu coinvolta a pieno nel sistema nazista: non soltanto dal 1941 ai KL si sarebbero affiancati i VL, ma con lo scoppio della guerra il numero dei deportati nei KL sarebbe aumentato (dal 1933 al 1945 si sarebbe passati dai trentamila ai settecentocinquantamila). Questi deportati furono successivamente usati dall'apparato SS come una grande riserva di braccia a bassissimo costo. I deportati perciò erano addetti a lavori in attività di scavo, sterro, sfruttamento di cave, ecc., come nel caso dell'avvocato Giorgio Puecher (Bianchi, 1965 e de Antonellis, s.d.), con razioni alimentari inconsistenti e infinite forme di violenza. Dal 1942 i deportati vennero impiegati nella produzione industriale appaltandoli alle imprese private che stavano dislocando le loro officine fuori dalle aree urbane.(Mayda, 2002) Il fascismo italiano, invece, non ha costruito una rete di campi di concentramento paragonabile a quella nazista, e non ha attuato misure di annientamento così radicali come quelle messe in pratica dal Terzo Reich. Ciò ha contribuito a far passare in secondo piano sia la responsabilità del fascismo della Rsi nella deportazione degli ebrei verso Auschwitz e di coloro che erano classificati come oppositore politici verso i KL, sia l'esistenza di un apparato concentrazionario edificato dal regime monarchico-fascista nell'ultimo periodo della sua ventennale esistenza. In Italia dal 1940 al 1943 il Ministero degli Interni aveva disposto l'apertura di oltre cinquanta campi di concentramento. In essi venivano rinchiusi oppositori politici, ebrei stranieri ed ebrei italiani giudicati come particolarmente pericolosi per motivi politici e sociali. Infatti nel 1940 il Ministero degli Interni indirizzò alle prefetture due circolari in cui sollecitava la compilazione di elenchi di cittadini di "razza ebraica" da internare. Il 25 luglio 1943 però non servì a segnare una svolta: oltre a mantenere le leggi razziste del '38 il governo Badoglio non toccò la legislazione sull'internamento limitandosi a disporre la liberazione dei reclusi a esclusione dei comunisti, degli anarchici e degli "allogeni" (slavi). Soltanto all'annuncio dell'armistizio alcuni campi aprirono i cancelli, altri invece continuarono la loro attività. Al 26 novembre del 1944 risultavano ancora funzionanti dodici campi di concentramento costruiti durante la guerra. Il primo grande lager tedesco ad essere liberato fu Auschwitz, alla fine di gennaio 1945; l'ultimo fu Mauthausen il 5 maggio successivo. Ma nelle settimane successive non pochi dei sopravvissuti continuarono a morire per gli effetti delle sofferenze patite. L'avvocato Giorgio Puecher era morto di fame e di stenti il 7 aprile, a poche settimane dalla liberazione. I pochi sopravvissuti italiani che tornarono a casa trovarono un Paese che usciva da una fase tragica della sua esistenza e che non era molto disponibile ad ascoltarli. Alcuni decisero di continuare a testimoniare, altri si chiusero in un silenzio che ruppero solo dopo molti anni. Come sostiene lo storico Brunello Mantelli "Ci vollero quasi trent'anni perché la deportazione cominciasse a diventare parte integrante della storia dell'Italia nella seconda guerra mondiale e a essere conosciuta, almeno nelle sue grandi linee, dall'opinione pubblica" (p.140). In conclusione, vediamo come Giacomo de Antonellis descrive le sofferenze che hanno portato alla morte dell'avv. Giorgio Puecher, padre di Giancarlo. "Nel lager di Mauthausen, blocco 2, la segregazione si stava rivelando terribilmente penosa per un professionista abituato alla vita ordinata dello studio notarile, al personale decoro intimo ed esteriore, al rispetto dei conoscenti e della clientela, a uno stile da galantuomo. Puecher sopravviveva chiuso in se stesso. Il compagno di angosce Mino Micheli così lo ricordava al ritorno in patria quando potè descrivere gli orrori della prigionia comune: 'Vi era qualcosa in questo uomo, qualcosa che non traspariva ma che si sentiva, direi quasi si vedeva, tanto era palese il suo sforzo di non volersi esprimere. Tutto ormai gli appariva falso ora, i rapporti umani, le leggi, la morale. Si sentiva spogliato dai valori più elementari e più sacri...Puecher non vuole che ci si curi di lui, ha il pudore dei suoi sentimenti, non vuole essere confortato; anche il dolore ha diritto alla libertà, e lui il suo lo vuole per sé. E fu passivo in tutto, indifferente a tutto, senza un lamento, senza un'imprecazione. Più i giorni passavano, più si affievoliva, assieme al suo spirito, anche la resistenza fisica'. Raramente parlava ma quando lo faceva - e riusciva a scambiare qualche parola soltanto con pochissime persone: il socialista Mino Micheli, l'avvocato Dino Monelli, il medico Carlo Vallardi — allora prorompeva in filippiche quasi profetiche: 'Il genere umano non vive più la sua vita, qualcosa è scoppiato nel mondo, qualcosa che ne ha infranto lo spirito. La storia dirà che questo nostro tempo fu uno dei più tristi e tribolati che l'umanità abbia vissuto, perché essa è stata investita da un'ondata di pazzia frenetica. Quando la guerra sarà finita nessuno l'avrà voluta, e pochi avranno interesse a ricordarla'. Il suo pensiero era sempre rivolto a Giancarlo, al suo sacrificio, forse utile quale insegnamento alla società ma certamente sterile per il povero giovane e per la sua famiglia: 'In questo momento i saggi del 'dopo' dove sono? Cosa fanno? Sentono oggi l'eco della scarica di piombo che ha fulminato il mio ragazzo? Capiranno cosa c'è qui, in questo terribile luogo?' L'esistenza ormai non aveva più alcuna presa su quest'uomo, rassegnato più che disperato: 'Qui hanno inventato la morte in serie, non c'è scampo, se qualcuno tornerà e avrà voce per farsi intendere provi a dire, provi a raccontare queste pazzie, queste negazioni, queste infamie, provi. Dubito che possa essere compreso. Io sono certo di non tornare, trovo più ragionevole cedere che resistere'. E cedette davvero il 7 aprile 1945, a poche giorni dalla liberazione. Distrutto dalla diarrea, giaceva quella mattina al suo 'castello' quando entrò un'ispezione e secondo le regole nessuno poteva più muoversi durante l'intero periodo del controllo. Lo videro invece scendere piano piano, per avviarsi al gabinetto, il viso stravolto dal dolore. La latrina si trovava proprio dietro il gruppo delle SS: non avrebbero permesso il suo passaggio qualunque cosa fosse accaduto. I compagni volevano fermarlo ma ciò era impossibile, tutti fermi ai propri posti. Puecher procedeva arrancando come se non vedesse e non gli interessasse affatto la presenza dei guardiani. A loro volta i tedeschi sembravano o fingevano di ignorarlo. Sempre carponi, il notaio raggiungeva una traversa, l'afferrava allungando le braccia e tirandosi su cercava poi di passare a un'altra traversa. Lo sforzo era visibile, tremendo. Respirava con affanno; ogni volta che superava un ostacolo, si fermava e abbozzava addirittura un sorriso, soddisfatto dell'impresa. Andava avanti di qualche metro. 'I primi passi sono sicuri; ma poi perde l'equilibrio, annaspa nell'aria con le mani, le ginocchia cedono, e con un rantolo soffocato cade di schianto ai piedi delle SS. E' rimasto così, con la schiena a terra, le braccia a croce, gli occhi spalancati'. Venne cremato il giorno successivo...come risultò dall'atto di morte ... redatto a uso della Croce rossa internazionale. Rientrato in Italia, il professore Vallardi, primario al Fatebenefratelli di Milano, confermava la scomparsa attribuendola a `grave deperimento da carenza alimentare accompagnato da fenomeni tossici intestinali" (de Antonellis, pp. 185-187) (Alessandro Siciliano e Matteo Grasso)

Letteratura e Resistenza

Ricordando la definizione di Resistenza come insieme delle attività e delle azioni condotte, durante la seconda guerra mondiale, contro la Germania nazista e i suoi alleati, da parte di membri dei paesi occupati, si può certamente affermare che essa sia stata un evento rilevante nella costruzione dell'Italia repubblicana. Ad essa ha fatto costante riferimento la cultura dei partiti politici, oltre che una parte consistente della letteratura, delle arti e del cinema. In particolare vorrei analizzare il rapporto che si è sviluppato tra letteratura e Resistenza partendo dal fatto che la definizione di tale rapporto risulta alquanto incerta e problematica, anche in seguito al rilevante mutamento che si è registrato nel corso degli ultimi trent'anni. E' avvenuto infatti un lavoro di interpretazione storiografica che ha restituito i vari testi di argomento resistenziale ai generi letterari d'origine: se si prendono in considerazione manuali recenti, come la Storia della letteratura italiana di Giulio Ferroni, non si trovano più paragrafi specifici su letteratura e Resistenza, ma se ne danno riferimenti solo nelle biografie e produzioni letterarie dei singoli autori. C'è chi parla di letteratura della Resistenza per parlare di letteratura dell'antifascismo; chi invece parla della Resistenza letteraria in senso proprio; oggi questa categoria non esiste più e il rischio è la non considerazione di opere memorialistiche di straordinaria importanza. La prima distinzione da fare sull'argomento è quella tra letteratura sulla Resistenza e letteratura di Resistenza: la prima ha come oggetto gli avvenimenti e i tempi, mentre la seconda ha funzione direttamente resistenziale. Quest'ultima è molto più limitata e di non rilevante valore artistico ed è quella che è stata prodotta, per esempio, con i giornali clandestini nelle pubblicazioni delle varie brigate dei reparti partigiani. Essa comprende anche una letteratura di versi e racconti, generalmente però retoricamente enfatici e celebrativi. La letteratura sulla Resistenza invece comprende produzioni memorialistiche e romanzesche: le prime si sono diffuse anche in seguito al desiderio che ogni uomo aveva di raccontare, stimolato spesso dai lenti spostamenti ferroviari dell'epoca e dal diffuso bisogno di autobiografia collettiva. Si leggono testi molto elementari di Livio Bianco, Pietro Chiodi o Nardo Dunchi con le sue Memorie partigiane; racconti diarieschi come Un salto nel buio di Mario Bonfantini, La Quarantasettesima di Ubaldo Bertoli, o ancora i racconti di Romano Bilenchi. Per quanto riguarda le produzioni romanzesche, problema non marginale è quello della periodizzazione, che individua più fasi di produzione: una prima collocata tra la conclusione della guerra e la fine degli anni quaranta, coincidente con il neorealismo, con autori come Silvio Micheli, Angelo Del Boca, Giuseppe Berto, Mario Vicentini, Guido Seborga e il più impegnato Italo Calvino con il suo famoso romanzo Il sentiero dei nidi di ragno (Einaudi, 1947). A marcare la conclusione dell'esperienza neorealista si possono individuare tre romanzi che ne segnalano le difficoltà interne: L'Agnese va a morire (Einaudi, 1949) di Renata Viganò, La quinta generazione di Dante Arfelli e, sul versante poetico, I poeti muoiono di Gaio Fratini. Una seconda fase, coincidente con il quinquennio 1948-62, presenta autori quali Beppe Fenoglio, Cesare Pavese e Elio Vittorini, che affrontano e indagano territori, esperienze, vicende che si relazionano indirettamente con la storia della Resistenza italiana (problema morale di ex partigiani, "zona grigia" che non si schiera nel conflitto tra fascismo e antifascismo, la Resistenza armata come "rivelazione politico-ideologica"). Volendo approfondire più specificamente il romanzo di Calvino e quello della Viganò, si può affermare che entrambi sono stati tra gli esiti più emblematici del genere e anche i più riusciti. L'autrice affronta la questione della Resistenza armata nei termini semplificati, ma efficaci, di una contrapposizione tra il bene e il male, giocata con una carica emotiva perentoria; essa riesce a donare al testo anche efficacia didascalica che vuole trasmettere la sua idea di difendere la Resistenza e i suoi valori ed insegnarli ai giovani. Agnese, la protagonista, è l' immagine della collettività, è soggetto e oggetto del sacrificio, è la rappresentazione di tutti coloro che volontariamente si annullarono per seguire un'idea, una causa. Calvino, invece, legge la sua opera come "un libro nato anonimamente, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva" (p. 7). Alcune pagine del romanzo infatti hanno origine da questa tradizione, ma lo scrittore è stato principalmente ispirato dalla libertà incarnatasi nella volontà di esprimere se stesso e il sapore della vita che aveva appreso. L'opera è impostata sulla rappresentazione immediata e oggettiva, sia nel linguaggio che nelle immagini, che come afferma Calvino, "poteva avere senso poetico ai miei occhi solo se descritta nella negatività" (p. 12). Sentendo la sua responsabilità di scrittore troppo impegnativa, l'autore ha preferito affrontarla di scorcio. vedendo il tutto con gli occhi di un bambino, in margine alla guerra partigiana. Ma l'identificazione tra sè e il protagonista diviene qualcosa di così complesso che il rapporto tra Pin, il bambino e la guerra partigiana, corrisponde simbolicamente a quello dell'autore con essa. Affrontando questo lavoro sono venuta a conoscenza di quanto l'esperienza della Resistenza abbia segnato pesantemente la vita di ogni individuo che ha vissuto sulla propria pelle quei momenti di complessiva negatività. E riflettendo su ciò, mi rendo conto di come essa possa aver portato alcune di quelle persone a sfogare le proprie paure, le proprie delusioni o semplicemente le proprie emozioni, date da esperienze personali, sopra pezzi di carta e con semplice inchiostro, per renderle memorie indelebili di quel tempo passato. In questo senso si possono leggere anche le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, in cui spicca quella di Giancarlo Puecher. (Anna Gandini) La storiografia della Resistenza tra antifascismo e revisionismo Un problema che l'Italia del 21° secolo deve affrontare è la crisi dell'antifascismo e della Resistenza. Antifascismo e Resistenza sono andati incontro in questi anni ad analisi storiografiche e revisionistiche al cui interno possiamo trovare le cause di tale crisi. Tuttavia prima è meglio definire i concetti di antifascismo e Resistenza. Con antifascismo si intende lo schieramento politico che si oppose al fascismo, ovvero l'insieme di tutti i partiti contrari alla dittatura di Mussolini. Il movimento è nato con la secessione dell'Aventino quando i partiti antifascisti lasciarono il parlamento in seguito all'uccisione del deputato socialista Matteotti.Tuttavia il movimento antifascista non ottenne mai grandi successi a causa delle divisioni all'interno dei vari partiti sulla linea operativa da seguire e perchè il fascismo venne considerato come un movimento temporaneo, destinato ad esaurirsi in breve tempo. Inoltre, il movimento non riuscì a penetrare ampiamente nelle masse popolari e nelle fabbriche. Solo dopo l'armistizio firmato 1'8 settembre 1943 l'antifascismo, con una mobilitazione di massa, intraprese la lotta per la democrazia in Italia. Ed è proprio con l'armistizio dell'8 settembre che è nata la Resistenza, con la formazione dei primi nuclei di partigiani. Per Resistenza si intende l'insieme delle attività e delle azioni condotte durante la 2a guerra mondiale contro i fascisti e i nazisti, per liberare il territorio italiano dalla loro occupazione. Quasi tutti i partiti antifascisti parteciparono alla Resistenza ed ebbero poi un ruolo fondamentale nella nascita della Repubblica italiana e nella definizione del suo ordinamento costituzionale. Nel primo dopo guerra i valori dell'antifascismo e della Resistenza furono sostenuti dai partiti ciellenisti per gettare le basi dell'Italia repubblicana e della nuova carta costituzionale. La storiografia della Resistenza, pertanto, nacque e si sviluppò con un segno politico forte e rivendicativo: la difesa della Resistenza. (Rochat, 2000) Negli anni '50 gli studi sulla Resistenza furono caratterizzati da una forte politicizzazione: questo fu un limite da cui la storiografia faticò a liberarsi. In quegli anni furono date altre due importanti interpretazioni del movimento resistenziale: fu considerato come un secondo Risorgimento o come una guerra di popolo. La prima interpretazione si rivelò del tutto inadeguata a dare conto delle dimensioni e delle complessità della lotta contro il nazifascismo (Rochat, 2000) e perciò venne presto abbandonata. Per quanto riguarda la guerra di popolo, è vero che le persone, ovvero i partigiani e gli operai, ebbero un ruolo da protagonisti, ma non furono gli unici, perchè ad essi bisogna aggiungere anche i militanti dei partiti del CLN. Negli anni '50 e '60 la situazione politica che si era venuta a creare non permetteva più ai dirigenti partigiani di appoggiarsi alle strutture ufficiali, così essi diedero vita agli Istituti per la storia della Resistenza. La crescita degli Istituti ha portato a una crescita della storiografia sulla Resistenza. Infatti negli anni '70 essa raggiunse la piena maturità: vennero fatti studi in una prospettiva più ampia e ricerche a tutto campo, più estese e articolate. Negli anni '80 e '90 vi fu un potenziamento degli esistenti Istituti sulla Resistenza e la creazione di nuovi, gestiti dalla nuova generazione di storici. Ma è proprio negli ultimi anni che la storiografia ha allargato il suo campo di intervento: da poco sono iniziati studi analitici sulle deportazioni razziali e sugli aspetti militari della Resistenza. Tuttavia ci sono alcuni punti su cui la storiografia sembra essersi troppo focalizzata, tralasciandone altri: la monumentalizzazione dell'eroismo partigiano sembra aver rimosso la memoria delle vittime civili, dei bombardamenti, delle stragi e della guerra civile (De Bernardi, 2004). Un altro punto che il revisionismo sta tentando di chiarire è se i valori dell'antifascismo e della Resistenza hanno posto le basi per la rinascita della patria in chiave democratica e sono quindi a fondamento dell'Italia repubblicana. Negli ultimi anni, infatti, antifascismo e Resistenza sono stati sottoposti a un processo revisionistico che in alcuni casi ha tentato di ridurne l'importanza o di attribuire ad essi la causa della cattiva situazione della politica italiana. Per esempio, alcuni politici ritengono che la cultura della Resistenza andrebbe eliminata o ridimensionata, poichè è ritenuta la causa della crisi della Reubblica italiana. Ma ci sono altri studiosi che ritengono sia doveroso salvaguardare la memoria e l'importanza dell'antifascismo e della Resistenza. Uno di questi è Sergio Luzzatto che, nel suo libro La crisi dell'antifascismo (Torino, 2004), lamenta la sempre minore importanza riconoscita al periodo resistenziale. La prima causa di tale crisi è innanzitutto generazionale perché i giovani di oggi non hanno vissuto in prima persona la" guerra civile" del periodo '43 -'45 e, dunque, ai loro occhi il fascismo si presenta come fatto ormai lontano, un'esperianza defunta piuttosto che vissuta. La scomparsa del comunismo e del fascismo è, secondo Luzzatto, un altro delle grandi cause della crisi dell'antifascismo. Infatti, dopo la caduta del muro di Berlino i partiti di sinistra, nel tentativo di rinnovarsi, hanno smesso di difendere la memoria della Resistenza. Allo stesso modo negli ultimi anni è avvenuta la scomparsa dei fascisti o quantomeno il tentativo di parte di essi di approdare "verso i lidi della rispettabilità politica e della leggitimità costituzionale" (pag. 5). Anche i "massmedia" con la loro continua ricerca dello "scoop" hanno privilegiato la diffusione di testimonianze che tendono a parificare il fascismo all'antifascismo ignorando le ricerche storiografiche basate su un' impostazione scientifica. Inoltre, ciò ha permesso la diffusione di una memoria condivisa sia dei partigiani che dei fascisti. Secondo Luzzatto, al contrario, è improponibile una memoria condivisa, poichè non si vede quale affinità ci sia tra un partigiano e un saloino, e perché, sebbene possano essere considerati uguali nella morte, essi non lo sono stati sicuramente nella vita. Altri storici hanno provato a dare delle soluzioni a questa crisi dell'antifascismo: una di esse è la definizione di nuove griglie metodologiche, nuovi campi di indagine, nuovi oggetti da studiare. L'attuale storiografia lavora a rifondare il racconto della "guerra civile" sopra nuove basi ideologiche e storiografiche, smitizzando la Resistenza dall' eroismo partigiano, senza per questo svenderla. In conclusione, possiamo dire che su questo argomento oggi l'Italia si trova a decidere se recuperare la Resistenza e l'antifascismo come valori fondamentali per la nostra nazione o decretarne il loro definitivo superamento. Il nostro lavoro didattico va nella prima direzione: quella di conoscere la Resistenza e di salvaguardarla come valore fondativo della democrazia repubblicana. (Luca Passerini)

Il 25 aprile e la cultura della Liberazione

Giancarlo Puecher è morto per contribuire a liberare l'Italia dal nazifascismo. Ma che cosa significa oggi la Liberazione? Il termine "liberazione" in Italia ha assunto vari significati: a livello popolare quello di lotta contro la RSI (Repubblica Sociale Italiana) e contro il fascismo in generale; quella inoltre di lotta di classe, come "liberazione dal padrone", soprattutto nel mondo operaio e nelle campagne. Nel primo significato, la Liberazione è un evento che ha segnato la storia dell'Italia a partire dal 1943 con la nascita del CLN (Comitato di liberazione nazionale) fino al 25 aprile con l'insurrezione vittoriosa contro i tedeschi e i fascisti . La Liberazione si è concretizzata nell'aprile del 1945, quando si è concluso lo scontro tra i due eserciti: quello anglo-americano e quello tedesco. Il primo, nonostante fosse numericamente inferiore, è riuscito a vincere grazie alla sua organizzazione militare. L'avanzata alleata ha fatto cadere lentamente tutti i fronti difensivi dell'occupazione tedesca, che è terminata il 29 aprile con l'entrata a Milano dell'esercito americano e inglese. Accanto all'esercito alleato, che avanzava verso Nord, si è organizzato un movimento di Resistenza che ha avuto una durata di circa 20 mesi, cui hanno partecipato circa 250.000 combattenti (soprattutto nelle città del Centro-Nord) e che si è conclusa con l'insurrezione del 25 aprile. Questa data rappresenta qualcosa di decisivo per la storia del nostro Paese: punto d'arrivo di una vicenda drammatica e punto di partenza della ricostruzione democratica. Proprio per questo il 25 aprile è una data che viene ricordata e riproposta agli italiani per alimentare in loro il senso di identità nazionale e di cittadinanza democratica. In questo senso, occorre un'opera di riflessione continuativa per far riemergere gli elementi più profondi e duraturi dell'esperienza resistenziale. Il primo di questi elementi è l'identità nazionale che non è mai stata un punto fermo della realtà italiana. Infatti, già durante il periodo fascista, c'è stata una netta spaccatura tra fascisti e antifascisti, che ha portato ad una vera e propria "guerra civile". Con la formazione della RSI, l'Italia era divisa in due e sul suo territorio c'erano addirittura tre eserciti: quello nazifascista, quello badogliano e quello anglo-americano. Al termine della guerra si è confermata la forte crisi d'identità. La questione dell'identità nazionale non si pone oggi solo a livello di èlite politiche, ma anche e soprattutto delle masse popolari: "solo la coscienza di un'appartenenza e di una responsabilità comune è un dato sentito e vissuto dalla generalità o almeno dalla maggioranza dei cittadini, solo se diventa senso attivo di una cittadinanza si può parlare compiutamente di identità nazionale" (Scoppola, 1995, p 33). Questa affonda le radici nella cultura della liberazione, che costituisce il lascito materiale e simbolico del 25 aprile. Nel senso che, secondo lo storico Pietro Scoppola, "il processo di liberazione non è mai compiuto: non è compiuto nelle coscienze dei singoli, non lo è nella vita sociale. La liberazione dell'uomo, di tutti gli uomini, dall'oppressione, dalla miseria, dall'ignoranza, dalla paura - e in una parola dal male - è un obiettivo sempre valido, sempre necessario e sempre aperto. La cultura della liberazione non implica un punto di arrivo, non ha, come la cultura della rivoluzione, modelli definiti di società da proporre, si coniuga con il realismo della politica, ma rappresenta un principio costante di non appagamento rispetto a tutti i risultati raggiunti e costituisce perciò quell'elemento di tensione utopica che tiene viva la democrazia e ne garantisce lo sviluppo. La storia dell'Italia è segnata da una domanda di liberazione che parte dal Risorgimento nazionale e si rinnova nella Resistenza. Se la Resistenza è entrata in crisi come momento mitico di unità e di identità collettiva, non è entrata in crisi la volontà di liberazione che ha ispirato quella esperienza e che ha trovato nella carta costituzionale una sua espressione compiuta: la Costituzione del '48 è ancora un punto di riferimento sicuro per indicare il cammino della liberazione. I valori della Costituzione possono, oggi, venute meno le condizioni storiche che ne hanno bloccato lo sviluppo, dispiegarsi nelle loro inesaurite potenzialità. Si pensi ad esempio alla esigenza di ridefinire il principio della libertà di espressione del pensiero non più solo rispetto ai soggetti attivi che esprimono il pensiero medesimo ma anche e soprattutto rispetto ai soggetti passivi che ricevono il messaggio e che rischiano di essere asserviti dalle dinamiche proprie della civiltà mediatica. Celebrare il 25 aprile significa dunque aprirsi alla cultura della liberazione, all'idea di traguardi più avanzati di dignità e di libertà umana, a un'idea di democrazia che coniuga tensione utopica e ricerca di adeguati strumenti istituzionali; significa aprirsi alla prospettiva di una lotta per la liberazione che continua oggi e deve continuare domani" (pp. 100-101). In queste parole si riassume il senso del nostro lavoro di ricerca didattica sulla Resistenza e sulla Liberazione, a partire dal caso Puecher. (Andrea Preda)

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Questo laboratorio è nato dopo che ci siamo posto il problema dei nostri studenti che di fronte allo studio della storia (e non solo di questa disciplina purtroppo) sembrano annoiati e poco interessati. E allora, mettendoci in discussione, abbiamo pensato che probabilmente dipende dalla metodologia di lavoro. E quindi non più una didattica tradizionale fondata sulla lezione frontale, ma una didattica di ricerca, incentrata proprio sui gruppi di lavoro. E quindi una ricerca che si avvalga non solo del materiale cartaceo, perché da quello non si può prescindere: quindi, la lettura, l'analisi dei testi, dei libri e lo studio della critica storica, utilizzando anche quei nuovi mezzi multimediali che i ragazzi sanno usare meglio di noi; perché per i ragazzi sono un linguaggio - come dire - più consono al loro vissuto e al loro quotidiano. E quindi l'idea di un ipertesto, di un ipertesto che li facesse sentire protagonisti. Sono loro che hanno costruito il libro, sono loro che si sono sentiti protagonisti di questa ricerca, come soggetti attivi, quindi, non come soggetti passivi. Insieme agli insegnanti hanno scelto che cosa studiare e che cosa scrivere in particolare. Ovviamente, il tema della Resistenza: due anni fa abbiamo iniziato a lavorare su questa tematica; perché noi adulti a volte pensiamo che alcuni grandi valori, come la libertà, la democrazia, la responsabilità siano trasmissibili attraverso il Dna. Non è così: bisogna assolutamente parlare ai giovani sempre e farli diventare protagonisti di questi nuovi valori, farli sentire propri. E soprattutto, attraverso la Resistenza, riuscire a scoprirne il grande valore. L'ipertesto sulla Resistenza: adesso noi lo facciamo partire. E' un lavoro molto complesso, non abbiamo il tempo per poterlo presentare nella sua integrità. Abbiamo scelto un percorso privilegiato e speriamo di poterlo presentare al meglio. Adesso partiamo appunto con la presentazione dell' ipertesto, a partire dall'introduzione, poi mi soffermerò sul menù [musiche della Resistenza]. Come vedete c'è il menù fondamentale: sono delle macrotematiche, all'interno delle quali voi trovate delle microtematiche. E' un reticolo aperto, strutturato secondo quelle che sono le mappe della conoscenza dell'individuo. Quindi, essendo un reticolo aperto, ognuno sceglie il viaggio che più preferisce e il percorso che ritiene più consono alle proprie curiosità e ai propri interessi. Questo percorso può essere cambiato, infatti lo abbiamo cambiato anche questa mattina proprio per trovare quello più adatto a questa platea. Quindi, le origini della Resistenza, la Resistenza in Europa e in Italia, ecc.: abbiamo presentato la Resistenza appunto nella sua globalità, che lo storico Claudio Pavone ha indicato, appunto come guerra civile, patriottica e di classe, anche attraverso la lettura che della Resistenza fa la letteratura e la filmografia, fino ad arrivare ad altre tematiche fondamentali, come il ruolo della donna e altro. Io voglio partire con la Resistenza in Europa per farvi vedere velocemente come i ragazzi, attraverso l'utilizzo di Internet, oltre che di testi storici piuttosto numerosi, abbiano conosciuto e studiato come la Resistenza è stata diversa nelle diverse nazioni europee. Quindi, in Germania, in Polonia, in Grecia, in Jugoslavia, ecc.: laddove si trovavano immagini significative sono state inserite; laddove sono stati trovati dei filmati interessanti, anche quelli hanno trovato spazio nella ricerca. Si tratta, quindi, di cercare, di imparare a selezionare le fonti: questo è l'approccio attivo dello studente nella ricerca storica; e capire da solo, comprendere anche attraverso immagini significative, dando vita alla ricerca iconografica per scoprire quanto sia stata diversa la Resistenza in Francia rispetto ad altre realtà (...), come la Jugoslavia, in relazione alla quale abbiamo trovato un filmato che è stato inserito all'interno di questa ricerca virtuale. Vedete le immagini cambiano sempre: anche qui la ricchezza visiva [voce del filmato]. Sempre velocemente, la Resistenza in Italia: abbiamo pensato di sottolineare l'importanza di far comprendere ai ragazzi come la Resistenza in Italia sia stata caratterizzata dal contributo di diverse anime ideologiche, considerando importante capire che la Resistenza non è il patrimonio di una classe sociale, o di un partito in particolare, ma il patrimonio di più forze politiche e di più ceti sociali. E quindi un patrimonio comune, un patrimonio da difendere. Soprattutto, quello che premeva a noi attraverso questo studio e questo approfondimento era di far capire ai ragazzi che le radici della Resistenza hanno dato le basi alla Costituzione della Repubblica italiana. E le basi della Repubblica italiana sono, appunto, caratterizzate da questa diversificazione ideologica. I padri della democrazia italiana sono sicuramente uomini che, avendo culture e ideologie, comunque hanno riconosciuto la necessità e l'importanza di lavorare in comune e di muoversi verso il raggiungimento di un obiettivo comune. Oggi il numero dei partigiani, per questioni anagrafiche, si assottiglia purtroppo sempre di più. Quindi, i ragazzi hanno ritenuto opportuno fissare in questo ipertesto le interviste di alcuni partigiani. Noi ve ne facciamo vedere soltanto alcune, nel cd avete l'elenco completo dei nomi [voce degli intervistati]. C'è un'altra sezione, quella dei padri della democrazia italiana: il democristiano De Gasperi, il comunista Togliatti, il socialista Nenni, il repubblicano La Malfa, ecc.: i padri appunto della democrazia italiana. Padri che hanno dato un contributo e una forza incredibile alla nascita della nostra Costituzione. Se oggi la si vuole cambiare, che almeno si conosca e si studi quella originale, in modo che ci si renda conto di quelli che sono i grandi valori della democrazia, della solidarietà, della libertà e della responsabilità. E' questo il messaggio che deve arrivare ai nostri ragazzi, che spesso noi diciamo esser poco responsabili. Ecco proprio attraverso la storia questi grandi valori si assimilano. Ma non è vero poi che i ragazzi sono disinteressati: quando lavorano in maniera diversa, quando comprendono l'obiettivo primario del lavoro che si fa, quindi la comunione di intenti e di volere tra insegnanti e alunni, allora si raggiungo i risultati di un certo livello. Ancora, quello che ci interessava vedere era sicuramente uno studio del fascismo: anche su questo tema abbiamo dei filmati abbastanza interessanti: l'origine del fascismo, la crisi, il 25 luglio e l'arresto di Mussolini, 1'8 settembre, ecc. Ogni macrosezione ha delle microsezioni, da valutare nella loro interezza e nei loro particolari. Quindi, Cefalonia, dove si compì uno dei più grandi e terribili eccidi di tutta la guerra, riguardante la divisione Acqui che venne letteralmente sterminata. Morirono in pochi giorni 9500 soldati e 390 ufficiali. Tematiche diverse e complesse, quindi. Parlare della Resistenza non è facile perché è un fatto estremamente complesso, che va analizzato in tutti i suoi aspetti, come guerra civile, come guerra patriottica e come guerra di popolo. Evidentemente tutte queste tematiche meritano studi, approfondimenti attraverso la valorizzazione del documento storico. Ancora, ci siamo interessati di come la letteratura e la filmografia hanno parlato della Resistenza, del rapporto con gli alleati, con lo sbarco in Sicilia e ad Anzio fino all' arrivo a Roma. Anche qui i ragazzi sono rimasti fortemente colpiti dalle immagini che sono particolarmente significative, soprattutto in riferimento alle città sotto i bombardamenti. Conoscere e vedere Milano sotto i bombardamenti li ha colpiti non poco. Le due sezioni della filmografia e della letteratura sono profondamente legate tra di loro. I contributi della filmografia è stato molto consistente. I ragazzi hanno elaborato una scheda molto precisa per ogni film e hanno inserito spezzoni nel cd recuperandoli via Internet. Ad esempio, il film Il partigiano Jonny, che ritorna nella sezione letteraria, Roma città aperta, ecc. Ancora, la sezione su letteratura e Resistenza, con particolare attenzione agli autori che hanno prodotto letteratura resistenziale di un certo livello, non una mistica della Resistenza, né una liturgia della Resistenza, ma una visione abbastanza critica: da Cassola con La ragazza di Bube a Fenoglio e Vittorini. In particolare ci siamo concentrati su questi tre autori. Considerate che per ogni romanzo i ragazzi hanno fatto degli approfondimenti e un lavoro di critica letteraria. Un lavoro che poi, tra l'altro, va di pari passo con il torneo di lettura che organizziamo ogni anno, incentrato su questi romanzi. Quest'anno, ad esempio, la scelta è caduta su 11 sentiero dei nidi di ragno di Calvino. Un lavoro, quindi, molto coerente rispetto al progetto educativo della nostra scuola. Infine, la sezione riguardante il ruolo della donna nella Resistenza. La Resistenza come movimento militare ha avuto il protagonismo maschile. Però nella Resistenza civile la donna ha avuto un ruolo significativo. Ha portato un patrimonio di idee, di sentimenti e di emozioni molto ricco. E soprattutto grazie al movimento della Resistenza il processo di emancipazione femminile, che era già iniziato dalla prima guerra mondiale, è andato avanti in maniera spedita e significativa. Il sogno della donna era allora non soltanto la libertà, anche quello di raggiungere la pari dignità con l'uomo. Questa, soprattutto attraverso la sua presenza attiva nella Resistenza, è riuscita ad ottenerla. Noi come vedete abbiamo inserito alcune schede significative su alcuni nomi di donne nella Resistenza. A me viene in mente Tina Anselmi, ma ce ne sono veramente molte: Giustina Abbà, Anna Maria Agnolotti, Maria Luisa Alessi, ecc.: tutte donne che sono state insignite della medaglia d'oro al valore militare della memoria. Ci sono alcune lettere veramente toccanti, che mi hanno colpito tantissimo. Ad esempio, una lettera di una giovane operaia condanna a morte, che scrive così alla sua bambina di tre anni: "Io sento di fare la partigiana perché ti voglio molto bene e perché tu cresca domani in una società libera". Mi pare bellissimo. O ancora Tina Anselmi che scrive: "La democrazia è un modo di vivere, non è soltanto un regime politico. E' una concezione della vita che crede che ogni uomo abbia qualcosa da dare". Sono dei contributi che meriterebbero maggiore attenzione e maggior tempo. Abbiamo comunque messo a disposizione copie del cd: se qualcuno di voi ne volesse una copia saremmo onorati e felici di potervela dare. Concludiamo con i canti della Resistenza, perché è interessante appropriarsi anche delle musiche, degli inni che hanno contraddistinto questo grande movimento italiano. Ve ne facciamo sentire solo alcuni [musica]. A volte le immagini possono sembrare crude, ma è giusto che i ragazzi si confrontino anche con queste. Li abbiamo portati ad Auschwitz l'anno scorso ed è stata una delle esperienze più formative che noi abbiamo fatto con i nostri alunni. I nostri alunni sono stati in religioso silenzio e hanno veramente imparato più che da cento lezioni. Io vorrei concludere con alcune parole degli studenti: "La Resistenza doveva divenire il mito fondatore su cui basare la Repubblica democratica scaturita dalle scelte dell'Assemblea costituente, figlia della stessa esperienza partigiana. Purtroppo ciò non è avvenuto completamente. Ma quei valori di uguaglianza, democrazia e giustizia sociale contenuti nella prima parte della nostra Costituzione sono sempre validi e attuali. Ad essi ogni democratico deve fare riferimento nella propria azione quotidiana". Quindi, l'idea è proprio quella della ricchezza e del valore della Resistenza come un valore comune. Studiare la Resistenza è sollecitare questa memoria. Io credo che per noi adulti la memoria è un'arma che va usata. I ragazzi devono conoscere, devono sapere e consapevolmente poi scegliere. Questa è la mia profonda convinzione. Voglio concludere con una ricerca sulle poesie che sono state scritte sulla Resistenza, sui suoi momenti significativi di cui abbiamo dato velocemente ricordo. E mi vorrei soffermare su "25 Aprile". Questa è una poesia di Calamandrei, uno dei più autorevoli membri della Costituente, il fondatore della prima rivista antifascista italiana "Non mollare": una poesia abbastanza significativa per chiudere questo intervento. "L'importante è non rompere lo stelo/ della ginestra che protende/ oltre la siepe dei giorni il suo fiore./ C'è un fremito antico in noi/ che credemmo nella voce del cuore/ piantando alberi della libertà/ sulle pietre arse e sulle croci./ Oggi non osiamo alzare bandiere,/ alziamo solo stinti medaglieri/ ricamati di timide stelle dorate/ come il pudore delle primule./ Noi che viviamo ancora di leggende/ incise sulla pelle umiliata/ dalla vigliaccheria degli immemori./ Quando fummo nel sole/ e la giovinezza fioriva/ come il seme nella zolla,/ sfidammo cantando l'infinito/ con un senso dell'Eterno/ e con mani colme di storia/ consapevoli del prezzo pagato./ Sentiamo il domani sulle ferite/ e un segno impalpabile di pace/ immenso come il profumo del pane./ E sui monti che videro il nostro passo/ colmo di lacrime e fatica/ non resti dissecato/ quel fiore che si nutrì di sangue/ e di rugiada in un aprile stupendo,/ quando il mondo trattenne il respiro/ davanti al vento della libertà/ portato dai figli della Resistenza". 4. Cesare Grampa Segretario del Centro di cultura " G. Puecher" di Milano Vorrei semplicemente fare qualche osservazione. Innanzitutto, è di particolare piacere e commosso coinvolgimento vedere come il ricordo di Giancarlo Puecher sia ancora vivo e operante, soprattutto da parte di coloro che come me hanno proposto per la prima volta, all'inizio degli anni '70, nella sede della Provincia di Milano l'intitolazione di questo grande complesso scolastico al nome della prima medaglia d'oro della Resistenza. E sono certo che la presenza tra noi dell'assessore Giansandro Barzaghi possa confermare l'interesse continuativo e operativo, perché questa struttura possa diventare sempre più potenziata, importante, significativa nel complesso milanese e anche interprovinciale. La seconda osservazione che vorrei fare è quella del ringraziamento verso tutti voi che siete qui presenti attraverso gli studenti che hanno elaborato con tanto impegno e tanta buona volontà queste ricerche, e verso due persone - Loredana Di Lecce e Giuseppe Deiana — che sono due docenti vostri, ma che si dovrebbero dire - con un'espressione antica, ma molto ricca di significato — due veri educatori civili. Poi vorrei dire anche che è bello constatare quello che è rimasto dopo dieci anni: io ricordo che dieci anni fa qui molte persone si sono impegnate in queste ricerche sulla Resistenza e su Puecher, soprattutto giovani, alcuni dei quali hanno avuto anche dei riconoscimenti a livello regionale. Ricordo che dieci anni fa il primo premio della Regione Lombardia per la Resistenza è stato proprio dato a una studentessa, molto simpatica, bella e impegnata, che si occupava proprio del tema della figura di Giancarlo Puecher: è stato proprio il primo premio della Regione Lombardia per il 50° anniversario della Resistenza. Poi vorrei aggiungere qualche osservazione sulle tante cose che ho sentito questa mattina sulla figura e sulla personalità di Giancarlo Puecher. La prima che vorrei fare è la sottolineatura delle motivazioni per cui Giancarlo Puecher e anche - il padre si sono sacrificati nella vicenda dolorosa e gloriosa che ha caratterizzato la nostra Italia. Giancarlo Puecher non aveva nessun motivo di interesse per sacrificare non dico la propria vita, ma neanche il proprio tempo e il proprio impegno. Era uno studente brillante, era uno sportivo appassionato, era un ragazzo della borghesia milanese molto affermata: il padre era addirittura presidente dell'Ordine dei notai, quindi di una organizzazione che ancora oggi è, diremmo, potente e autosufficiente, usiamo questo termine. E allora si è impegnato per motivi di coscienza, per motivi solo ed esclusivamente di coscienza. Ha visto che certe cose non andavano e la sua coscienza gli ha detto - vorrei parafrasare e richiamare un'espressione che poi è stato usata - "Se è un uomo, questa è l'ora dimostrarlo, di farlo vedere". E Giancarlo Puecher si è impegnato con grande entusiasmo, con grande coraggio e con grande generosità fino a sacrificare, alla vigilia di Natale del 1943, la propria vita di ventenne. Ricordo sempre Ferruccio Parri quando, parlando di Giancarlo Puecher, diceva: "Se un'energia così fosse rimasta tra di noi, come sarebbe stata migliore la nostra Italia, come sarebbe stata ricca di testimonianze efficaci e a livello politico e a livello sociale!". E questa è un'altra osservazione da sottolineare. Ed è proprio per questa convinzione personale, per questo problema di coscienza che Giancarlo Puecher si è impegnato. Per questo motivo al nome di Giancarlo Puecher sono stati intitolati formazioni partigiane di un arco vastissimo: da quelle più strettamente comuniste a quelle addirittura badogliane, a quelle dell'arco politico più diverso. Intendo dire la sua testimonianza è stata una testimonianza morale, è stata una testimonianza di coscienza. Ed è proprio solo attraverso le testimonianze che la gente cambia. Anche questa mattina e in questi giorni ci saranno valanghe di parole, ma non si muove una foglia se non c'è una testimonianza coerente e precisa. Ed è per questa testimonianza coerente e precisa che va richiamata la figura di suo padre: l'avvocato Giorgio Puecher viene arrestato un paio di volte, poi viene deportato a Fossoli e a Mauthausen e muore per nessun delitto, se non - come direbbe il biografo de Antonellis, prima citato - per il delitto di essere padre. E quindi, anche questa è un' altra osservazione per dire che alle volte il problema educativo non è un problema di generazioni, ma è un problema di coerenza, è un problema di coscienza, è un problema di ricchezza morale che se uno non ce l'ha non se la può inventare. L'ultima osservazione che qui vorrei fare questa mattina è che tutti questi problemi sembrano oggi un po' anche retorici: si parla, si riflette e si discute, ma tutti questi problemi hanno poi delle manifestazioni tremende. Questa mattina un giovane e poi anche la professoressa Di Lecce, hanno accennato al campo di deportazione, al campo di sterminio e all'olocausto: andare ad Auschwitz non è soltanto fare un pellegrinaggio in un luogo della nostra storia e della nostra civiltà, dove l'uomo è stato sterminato per il fatto stesso di essere uomo, un uomo che non rientrava all'interno di una visione razziale. Ecco allora che questo problema su cui noi oggi riflettiamo è un problema - il problema della democrazia, il problema della libertà, il problema della convivenza - che se non viene vissuto con coerenza e con avvertenza, se non si avverte come la Costituzione sia veramente - come direbbe Calamandrei - il testamento ereditato dalla Resistenza, allora questa è stata inutile, compreso il sacrificio di Giancarlo Puecher. Ma dobbiamo sperare che non sia così. 5. Giacomo de Antonellis Giornalista della RAI di Milano e biografo di Giancarlo Puecher Ringrazio innanzitutto per l'invito a questa manifestazione e mi congratulo con chi l'ha organizzata, perché ho notato un fervore di impostazione veramente interessante, in quanto ha toccato tutti gli aspetti di quel grande mito della storia italiana che è la Resistenza. Dico mito nel senso buono della parola, cioè un fatto che ha trasformato l'Italia, un Paese che era sotto la dittatura in un Paese finalmente libero. Ricordo che negli anni sessanta, quando io ero più giovane e attivo, c'era un grosso dibattito sulla Resistenza incompiuta. Ebbene, oggi che sono passati 60 anni dal 1945 possiamo dire che la Resistenza è stata compiuta in pieno, perché i valori di democrazia, di libertà e di pace li abbiamo goduti per sessant'anni in pieno, totalmente senza alcuna preclusione. Debbo sottolineare, poi, un aspetto che ho notato nelle parole molto sagge del professor Deiana, e anche della professoressa Di Lecce, quando parlavano della Resistenza appartenente a tutti, senza preclusioni di parte. E' vero che le maggiori forze combattenti furono quelle di sinistra (socialisti e comunisti); ma ci fu anche la partecipazione di tanti altre forze - è stato ricordato quella dei badogliani, dei monarchici, dei GL, dei cattolici soprattutto: erano repubblicani che hanno dato un contributo altissimo. Non a caso la prima medaglia d'oro della Resistenza lombarda Giancarlo Puecher è proprio un appartenente al movimento cattolico come giovane fervente. Ma vorrei anche sottolineare un aspetto che i vostri professori di storia avranno certamente raccontato nel corso delle loro lezioni, cioè che la storia è un fatto che non procede attraverso le masse, ma piuttosto attraverso le élite. Sono le élite, cioè i piccoli gruppi, quelli che forgiano la storia, che possono dare una svolta ai momenti più significativi della storia, italiana e mondiale. Non a caso, lo hanno sottolineato tutti gli studiosi della Resistenza: all'inizio subito dopo l'armistizio dell'8 settembre, i militanti partigiani erano appena 1.500 persone grossomodo sulle montagne italiane; successivamente il movimento andò fortificandosi, senza raggiungere alte vette. La mitologia, in questo caso deleteria e la retorica hanno fatto parlare di tutto il popolo. No, non è affatto vero. Fu una minoranza, ma una minoranza pensante e una minoranza che si è saputa sacrificare fino all'estremo. Sono 44 mila i morti, i caduti nella Resistenza tra partigiani delle montagne, persone che furono incarcerate e poi mandate alla deportazione, dove morirono anche militari. Sui luoghi di combattimento - avete visto di recente quel bel filmato su Cefalonia - ben circa 10 mila furono trucidati: si tratta soltanto di un piccolo settore dello scacchiere bellico. Ebbene, questi elementi vanno messi in risalto. Così come vi consiglierei la lettura dei racconti del personaggio Puecher. Io non mi soffermo sulla sua figura perché vedo che sul giornale "La conca" è ampiamente descritta. Vorrei invece sottolineare il contributo di molti altri che, pur avendo svolto un ruolo incisivo, non vengono abbastanza ricordati. Uno di questi, ad esempio, è Teresio Olivelli, un cattolico che, prima di essere imprigionato per aver partecipato alla Resistenza sulle montagne, era venuto a Milano per organizzare dei gruppi di patrioti e. fu bloccato dalle SS in San Babila. Dopo un periodo di detenzione a San Vittore (ho visto la sua cella proprio pochi giorni fa) venne portato a Flossemburg - uno dei tanti campi di sterminio - dove morì perché volle aiutare un compagno che era stato ferito. E mentre lo stava aiutando venne eliminato. Un personaggio bellissimo perché di lui si ricorda soprattutto la sua piccola rivista "Il ribelle", che voleva dare una voce a quanti operavano in montagna e in clandestinità nelle città; una voce appunto di ribellione, ma senza violenza. E' di Teresio Olivelli quella bellissima preghiera che tutti i classi libri di testo riportano: la preghiera del "ribelle per amore". Lasciatemi leggere qualche parola di questa preghiera. "Signore, che tra gli uomini drizzasti la tua croce, Dio che sei verità e libertà, Tu che fosti respinto, vituperato, trucidato, perseguitato, crocifisso, dai monti ventosi e nelle catacombe delle città, dal fondo delle prigioni, noi ti preghiamo. Sia in noi la pace che tu solo sai dare. Ascolta la preghiera di noi ribelli per amore". Ecco, vedete, con questi sentimenti, che non erano sentimenti di odio, non erano sentimenti di arroganza, ma erano sentimenti semplici, sentimenti di vera pace, autentica pace, un uomo come Teresio Olivelli, partigiano cristiano, ha saputo immolarsi. Ma la grandezza della Resistenza del popolo consisteva in questo, che molti operavano silenziosamente, tranquillamente, aiutando il prossimo: aiutando l'ebreo che si doveva nascondere, aiutando il rifugiato che veniva da altre regioni e che non aveva un tozzo di pane perché non aveva tessera alimentare, aiutando il prigioniero straniero che era fuggito e non sapeva cosa fare, nelle parrocchie, negli oratori cercando di portarli in Svizzera per quanto riguarda la Lombardia. Ecco, in tutti questi piccoli atti si svolgeva una Resistenza che possiamo definire silenziosa, ma importantissima. Quindi una Resistenza di pochi, di élite, ma una Resistenza essenziale per le sorti del mondo che doveva cambiare. Mi fermerei qui per lasciare lo spazio agli altri che interverranno. Mi congratulo ancora con gli organizzatori di questa manifestazione, perché veramente dà un senso non retorico, ma concreto, reale e storico, a un episodio della nostra vita che dobbiamo ancora ricordare. 6. Stefano De Allegri Consigliere del Consiglio di Zona 5 del Comune di Milano Da coordinatore dell'opposizione sono qui a rappresentare il Consiglio di Zona 5 al completo, che si è espresso a favore di questa iniziativa e ha dato un sostegno economico: quindi porto il saluto del Presidente che non ha potuto essere qui. Volevo solo darvi una piccola misura dell'orgoglio di abitare e vivere in questa Zona, non parlando solo di Puecher, di cui altri oratori meglio di me sapranno dire e hanno detto molto bene soprattutto i ragazzi: orgoglio, perché in questa Zona dovete sapere che i primi partigiani sono partiti proprio dal quartiere Stadera e sono andati sul monte San Martino, dove è iniziata una delle prime battaglie partigiane dopo 1'8 settembre. Di questi partigiani ne abbiamo alcuni che abitano ancora nella Zona 5 e che sono stati anche insigniti dell'onorificenza di Cavaliere emerito della Repubblica. Abbiamo qui in sala Biagio Colamonico, Cavaliere emerito della Repubblica e partigiano della Zona 5. Non solo, qui è iniziata l'avventura della Resistenza; ma dovete sapere che nell'aprile del '45 proprio qui alla Conca Fallata - un luogo che magari alcuni di noi frequentano perché ci sono molti locali - rientrava nella città di Milano la brigata Garibaldi dell'Oltrepo pavese. Quindi la città di Milano riaccoglieva i partigiani vincitori, che hanno vinto quella lotta di libertà, di giustizia e di pace, per i quali lo stesso Giancarlo Puecher ha donato la vita. 7. Aldo Ugliano Consigliere comunale del Comune di Milano Io sono un consigliere comunale del Comune di Milano. La mia partecipazione a questa vostra iniziativa è una partecipazione particolare: nonostante il patrocinio che il Comune di Milano ha voluto dare a questa manifestazione, la mia è una partecipazione individuale. Registro il fatto che di fronte ad un evento di questo genere dal Comune di Milano, certamente coinvolto in mille iniziative nella nostra città, da parte di coloro i quali reggono l'amministrazione comunale non vi sia una presenza adeguata e necessaria. Potrebbe sembrare una piccola dimenticanza, una "gaffe": invece io credo che vi sia un filo che lega questo episodio con tanti altri che si sono succeduti nel corso di questi anni nella nostra città. Io vorrei portare due brevi esempi, anche perché condivido le cose che diceva Giacomo de Antonellis: il compito nostro è quello di portare testimonianze, ma soprattutto quello di non far annoiare. E io credo che sia un compito al di là di tutto molto arduo quando si succedono così tanti interlocutori ed oratori. Un piccolo esempio della disattenzione di chi amministra la nostra città. Negli anni scorsi, insieme ad alcuni colleghi della opposizione presentammo una richiesta alla presidenza del Consiglio comunale di Milano di costruire, in occasione e in prossimità del 25 aprile, la presenza dell'Amministrazione comunale di Milano, in collaborazione con le associazioni partigiane, in tutte le realtà studentesche della nostra città perché, come dicevano alcuni oratori prima di me, la memoria è fondamentale per non dimenticare, per riaffermare i valori, i principi su cui si fonda la storia della nostra Repubblica. Noi sollecitammo l'Amministrazione comunale ad utilizzare strumenti già presenti all'interno della nostra città e del nostro Paese. Dicemmo - forse de Antonellis lo saprà - che la RAI è uno strumento, un contenitore straordinario. Noi facevamo riferimento a quella trasmissione che è "La nostra storia": un ricchissimo contenitore di documenti, di immagini, di testimonianze che avrebbero davvero supportato efficacemente una campagna presente appunto in tutte le realtà scolastiche della nostra città. Ebbene, questa richiesta dopo un piccolo momento di attenzione è stata lasciata cadere colpevolmente da parte dell'Amministrazione comunale della nostra città. E io credo che da tutto ciò emerga ancora con maggiore forza l'impegno e, davvero, l'abnegazione con cui gli insegnanti che hanno promosso, con la collaborazione degli studenti, questa manifestazione. Emerge ancora con maggiore forza il merito di questi insegnanti che davvero stanno portando avanti un impegno sociale e civile che dovrebbe essere, come dire, riconosciuto ancora con maggiore enfasi. Due parole ancora e ho finito, perché voglio mantenere l'impegno a non annoiare. E' qui insieme a noi l'assessore Barzaghi: una delle cose che diceva il professor Deiana, aprendo questo incontro, vale la pena di ricordare: questo centro scolastico è stato negli anni passati un centro straordinariamente vitale di presenza sociale, civile e anche politica. Da questo piazzale sono emerse anche figure rilevanti nell'immediato, nel presente della nostra città. Qui funzionava un centro di iniziativa culturale e sociale di grande rilievo. Funzionava perché ve ne erano le condizioni all'interno del nostro Paese e della nostra città. Ma perché vi erano anche luoghi adeguati che sapevano accogliere, promuovere e stimolare la partecipazione. Ecco, io credo che questo grande impegno potremmo assumere tutti quanti: ovviamente, la mia è una richiesta nei confronti della nuova Amministrazione provinciale a permettere che questo centro torni ad essere quello che in passato è stato: un luogo fecondo di iniziative, di grande fermento nelle coscienze della gioventù che frequenta gli istituti scolastici. Io credo che questo possa essere sicuramente la scommessa che, con coloro i quali amano la libertà e la democrazia, in tanti e insieme potremmo portare avanti. 8. Costantino Peli Rappresentante dei partigiani cattolici Innanzitutto buongiorno a tutti. E' mio dovere ringraziare gli organizzatori di questo bell'incontro: un incontro veramente degno dei valori della Resistenza. Io sono un partigiano che a 17 anni e mezzo fu chiamato alle armi, ma caduto il fascismo il 25 luglio '43 fino all'8 agosto non mi sono presentato al distretto militare di Modena, con il rischio della pena di morte, perché il bando di allora prevedeva che i renitenti alla leva erano punibili con la fucilazione o l'impiccagione. Vi porto solo un esempio: avevo la vostra età, eravamo come voi, ci siamo trovati in una situazione buia, disastrosa, abbandonati da tutti. E quindi, chi non si presentava quando hanno riorganizzato la Repubblica sociale di Salò, che non aveva nessun riconoscimento da parte di nessuno, se non dai nazisti tedeschi, rischiava la vita. Mandarono le cartoline precetto e io non mi sono presentato: altri due miei amici hanno seguito il mio esempio di non presentarsi. Ebbene, i fascisti venivano a cercare i giovani, non trovando i giovani portavano via i genitori. Sono andato da un amico di mio padre supplicandolo di notte di venire a parlare con il maresciallo dei carabinieri per rilasciare i genitori dei miei due amici e dicendo che mi sarei presentato pure io se avessero prelevato mio padre. Ma mio padre e noi abitavamo in una posizione che ad un tiro di mitra c'era già un gruppo di partigiani di Sassuolo che era salito in montagna. E quindi quella volta non vennero a prelevare mio padre. I genitori furono rilasciati, amici cari, ma i miei due amici giovani, a 18 anni neanche compiuti, furono impiccati in piazza grande a Montefiorino di Modena. Io ho pianto e li ho sempre davanti agli occhi: ho promesso loro di dare testimonianza fin che avrò la forza fisica. Io sono qui per questo compito: ho fatto il portaordini, ho fatto i collegamenti tra le varie brigate, fra i vari gruppi che stavano organizzandosi ogni giorno. E quando è arrivata la strage che ha ucciso anche mio padre, un fratello e - lo abbiamo saputo dopo - anche uno zio a Roma e un fratello morto per gravi conseguenze della guerra, ho detto "Il mitragliatore che posseggo me lo tengo fin che non me lo strappano". Ho avuto la fortuna di essere rimasto in piedi: mi hanno preso due volte, non avevo armi e me la sono cavata dichiarando che avevo 15 anni. Ebbene, noi abbiamo combattuto per conquistare la libertà e la democrazia: la libertà è come la salute. La salute si sa quanto vale quando la si è persa: prima si tenderebbe a non darle alcun valore. Permettetemi amici, vi chiamo partigiani di oggi, perché noi l'abbiamo conquistata. Con le vostre mani voi, che siete le nuove generazioni, la dovete difendere, perché solo con la libertà dell'essere umano, solo con la libertà dell'uomo, solo con la dignità del cittadino si portano avanti i problemi della nazione. Viva l'Italia, che merita di essere salvata. Permettetemi una frase vera e sacrosanta: io sono un partigiano cattolico, chi mi ha organizzato per primo è stato quello che mi aveva iscritto all'Azione cattolica. Ma noi abbiamo combattuto per l'Italia, non per le Italie: non ce ne sono due di Italie, ce n'è una. Viva l'Italia! 9. Giansandro Barzaghi Assessore all'Istruzione della Provincia di Milano Grazie a tutti voi e soprattutto agli organizzatori che hanno voluto qui presente la nuova Aministrazione provinciale. Porto i saluti del presidente Penati e di tutta l'Amministrazione. A voi tutti e agli organizzatori un ringraziamento, in particolare agli studenti, ai docenti, ai partigiani qui presenti e a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questa iniziativa. Ma appunto riferendomi soprattutto a questi giovani qui presenti - avendo io da poco concluso l'attività di insegnante dopo 34 anni e conoscendo bene anche qual'è il punto di vista e il modo di pensare degli studenti-, domando a voi tutti se ha ancora senso ricordare, se ha ancora senso commemorare, se queste iniziative oggi hanno un significato particolare per dei giovani come voi. L' applauso che avete voluto tributare al partigiano qui presente mi pare estremamente significativo del vostro livello di interesse e di partecipazione: il modo migliore, appunto, per ricordare la figura come quella di Giancarlo Puecher - questo "ribelle per amore" come è stato qui definito -, per ricordare quella sua esuberanza, quella sua giovinezza che è propria di tutti voi, quel suo amore per la vita e per gli altri e per un mondo migliore. Stamattina leggevo la biografia della sua vita, molto interessante. Ecco, io penso che il modo migliore per ricordarlo sia proprio quello rendere questa memoria un fatto vivo, attuale, direi dirompente, come era la sua giovinezza e come è la vostra giovinezza. Perché la memoria non può essere soltanto un fatto commemorativo, direi di tipo museale, un museo che rimane negli archivi della storia. Ma la memoria deve essere trasformata in qualcosa di vivo, in una coscienza che diventa coscienza quotidiana, che diventa partecipazione, che diventa resistenza contro ogni forma di oppressione e di dominio oggi. E allora non ha senso ricordare se noi non ci riferiamo ai perseguitati nel mondo, a coloro che sono vittime innocenti delle guerre, se non ricordiamo i morti di fame nel mondo, se non ricordiamo oggi coloro che sono vittime delle oppressioni e degli sfruttamenti, e ci ribelliamo e resistiamo. Questo per me vuol dire oggi ricordare: vuol dire dare senso, pregnanza e valore a questa memoria e alla lotta di chi ha combattuto per costruire questa democrazia e per darci questa Costituzione. E appunto nella più alta funzione istituziònale che ricopro come Amministrazione provinciale vogliamo a tutti i costi difendere questa Costituzione, che non può essere stravolta proprio oggi nel 60° anniversario della Liberazione. Questo è un compito mi pare particolarmente importante per tutti noi in questo frangente. Ebbene, ricordare vuol dire anche risarcire quel dolore e quell'orrore, e far sì appunto che la memoria possa costruire un mondo nuovo, un futuro diverso, un mondo migliore come appunto Giancarlo Puecher auspicava. La memoria, diceva Moni Ovadia, deve diventare una strategia etico-politica per costruire questo futuro, questo mondo diverso, questo mondo fatto di pace e di democrazia, di eguaglianza nei diritti fondamentali per tutti i cittadini. Detto questo, ecco il modo migliore per l'Amministrazione provinciale, così come auspicava prima anche il consigliere comunale qui presente, è proprio quello di rivitalizzare un centro come questo, di dargli quella pregnanza, quel valore, quella capacità di esser un centro propulsore di iniziativa e di cultura antifascista e democratica all'interno della Zona 5; di farne un cuore propulsivo, non soltanto un centro per quanto riguarda l'attività scolastica delle scuole qui presenti (Allende e altre). Ma appunto sia un centro propulsivo per tutto il quartiere. E qui devo dire che questo uso nuovo significa capacità di rendere il centro non soltanto come un servizio per le scuole, ma anche come un luogo di attività per il quartiere, con una sua Casa della pace, che appunto si sta costruendo, con un centro sociale, culturale e sportivo per tutta la Zona: un centro che richiami la partecipazione da parte dei cittadini, da parte dei giovani; un centro di aggregazione giovanile, vorrei dire, per poter dare a tutti voi la possibilità di partecipare e di trovare in questi spazi un modo attraverso il quale costruire anche l'interesse per la società, per il mondo, per gli altri e per il futuro. Ecco, a me pare che questo sia il compito indicato da un'Amministrazione provinciale come la nostra. L'intervento della Provincia per la ristrutturazione, per l'adeguamento normativo nelle norme di sicurezza, di prevenzione incendi, per riutilizzare ristrutturandolo un palazzotto sportivo e un annesso auditorium, è un intervento molto importante, del valore di 1.500.000 euro, che noi mettiamo a disposizione vostra per poter migliorare questa struttura, una struttura che dovrà essere di 450 posti per quanto riguarda il palazzotto sportivo e di 550 posti per quanto riguarda l' auditorium, aperto al pubblico e con una propria autonomia per poter funzionare, anche in relazione alla scuola. Vorrei dare a voi anche notizia di quella che è la tempistica di questi lavori, perché a me piace essere molto concreto, efficiente ed efficace anche nel tipo di iniziativa e di risposta alle esigenze che vengono presentate. Allora, il progetto definitivo è stato approvato dalla Giunta il 31 gennaio 2004, la progettazione esecutiva è conclusa e, quindi, viene presentata entro questo aprile 2005. L'espletamento della gara d'appalto sarà entro il luglio del 2005 di quest'anno. L'inizio dei lavori è previsto per il settembre 2005. La durata dei lavori sarà di 12 mesi e la fruibilità dell'opera sarà per il settembre 2006. Ecco, in questo modo, con questa concretezza, con questa capacità di rispondere alle esigenze di un'intera Zona, del Consiglio di Zona 5 e dei Consiglieri, delle attività istituzionali, sociali e giovanili, a me pare sia il modo migliore per rievocare una figura come quella di Giancarlo Puecher. Contributo dell'on. Virginio Rognoni Presidente del Centro di Cultura Giancarlo Puecher e Vice-presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Giancarlo Puecher rivive nella Storia Sessanta anni. Lo spazio di tre generazioni. Un tempo sufficientemente lungo per dimenticare ma anche per entrare nella Storia. E' destino di Giancarlo Puecher, un nome simbolo della reclamata libertà e dell'impegno per il rinnovamento civile a quanti hanno vissuto anni e orrori nella seconda guerra mondiale. Puecher è la prima medaglia d'oro della Resistenza, ucciso ad Erba, in una notte natalizia del 1943, a soli vent'anni, colpevole di essere partigiano. Sangue di italiano versato da italiani travolti da una scelta tragica. Stare da una parte oppure dall'altra. Ma chi poteva rischiare in quei giorni sulla giusta decisione? Il giovane Giancarlo non aveva avuto dubbi. La Patria autentica era rappresentata dall'Italia delle legittime istituzioni, dinastiche e militari; non poteva identificarsi in un nuovo Stato che privilegiava un'alleanza estranea alla volontà popolare. Non poteva lasciarsi travolgere dalla ignavia della maggioranza: la purezza dei sentimenti, forgiati dall'educazione familiare e dalla formazione religiosa, escludeva dal suo animo qualsiasi forma di vigliaccheria, indifferenza o attendismo. In una pagina del suo diario è rintracciabile questo brano: "Ricordati che la vita non è una gioia né un dolore. E' un dovere da compiere". E in una lettera così si esprimeva: "Noi sapremo anche ricostruire le cose libere da tutte quelle contraddizioni e da tutte quelle imposizioni che ci sono state imposte da un ventennio tirannico". Due frasi lapidarie che caratterizzano una coscienza di alta finezza etica. Cristiano e partigiano, pur in età verde e privo di supporto politico, il Puecher aveva saputo fare una scelta di fondo senza ombra di dubbio o di tentennamenti. Scelta peraltro difficile per un adolescente che aveva sempre vissuto nella tranquillità di una famiglia borghese e benestante, che subiva, senza aderirvi, il regime del tempo e quando le sorti della guerra erano chiaramente compromesse criticava in silenzio l'avventura mussoliniana. Una situazione molto diffusa in Italia. Il padre Giorgio - finito poi nel campo di concentramento di Fossoli e quindi inviato a Mauthausen dove si spense alla vigilia della liberazione - era presidente dell'ordine dei notai e lui stesso professionista di consolidata fama, ligio al dovere e rispettoso delle istituzioni. A scuola Giancarlo studiava con serietà, in famiglia si comportava da bravo figlio, con gli amici si divertiva e andava in vacanza. Raramente parlava di politica: l'osservanza dei doveri era pratica normale e coerente, l'idea di Patria conteneva il massimo dei suoi pensieri. Una esistenza normale, quindi, almeno fino all'8 settembre 1943 - l'armistizio con gli Angloamericani - allorché la situazione doveva cambiare radicalmente in seguito al trapasso delle alleanze: i tedeschi da cobelligeranti diventavano nemici. E ogni giovane si trovava davanti a un bivio. Giancarlo sapeva intuire la strada giusta e si faceva capo di un raggruppamento di patrioti. Niente, se non la propria coscienza, gli imponeva di rischiare il proprio futuro entrando nell'area partigiana e diventando clandestino. All'inizio la scelta faceva parte quasi di un gioco dettato dal suo noto spirito sportivo, poi le responsabilità andavano moltiplicandosi: selezionare e formare i quadri dei compagni di avventura, aiutare i prigionieri alleati in fuga, studiare e attuare piccole azioni di sabotaggio. Il suo programma era ben definito secondo categorici obiettivi. Mai spargere sangue innocente, mai ricorrere a gratuite violenze. Una linea cavalleresca ribadita, per esempio, nella prima azione partigiana: l'esproprio di alcuni bidoni di benzina custoditi in un albergo frequentato da fascisti, un episodio circoscritto ma destinato a rappresentare il più forte motivo dell'accusa nel processo-farsa precedente la fucilazione. Per inquadrare bene l'intera vicenda del nostro patriota occorre risalire al momento del suo arresto. La svolta avveniva il 12 novembre, poco più di due mesi dopo la decisione di scendere in campo da partigiano. In quella brumosa e fredda serata due giovani scendevano in bicicletta da Canzo a Erba, tra strade deserte nella silenziosa campagna. Erano diretti verso la città brianzola con l'intento di compiervi un attentato dimostrativo, una bomba di lieve potenza da collocare sotto l'abitazione del podestà: la deflagrazione avrebbe svegliato la gente che avrebbe trovato nelle zone circostanti manifestini invitanti a scuotersi dall'oppressione nazifascista. Un piano semplice, in apparenza facile, quasi infantile. Muoversi durante le ore buie, tuttavia, era alquanto pericoloso in particolare dopo un fatto di sangue. Nel pomeriggio infatti mani ignote avevano eliminato due esponenti del fascio locale ed i repubblichini avevano intensificato rastrellamenti e posti di blocco. Ma i due non lo sapevano, essendosi trattenuti fuori paese per l'intera giornata. Così Giancarlo e l'amico Franco Fucci - 23 anni, ufficiale degli alpini alla macchia per non servire l'esercito di Salò - incappavano nella rete. Una pattuglia di militi fascisti li bloccava davanti alle prime case del paese. Costretti a smontare dalla bici, Fucci tentava una reazione spianando la pistola, ma l'arma gli si inceppava; non sbagliava invece il colpo uno dei brigatisti e lo feriva gravemente all'addome; trasportato in ospedale riuscirà a guarire, quindi passava in carcere un anno e mezzo senza subire guai peggiori. Al contrario, Giancarlo Puecher veniva condotto in caserma e affidato ai carabinieri di Como: durante i suoi quaranta giorni di detenzione gli si presentavano diverse occasioni per fuggire, non essendo considerato pericoloso, ma per un senso di correttezza nei confronti dei suoi custodi e del padre Giorgio, a sua volta arrestato, preferiva evitare ritorsioni su altri. Con tutta probabilità l'avrebbero liberato a breve distanza di tempo, ma un altro omicidio politico sconvolgeva il territorio di Erba: l'assassinio di un noto squadrista locale, la guardia comunale Germano Frigerio detto "Bécall", che stava recandosi a Milano per partecipare ai funerali del federale Aldo Resega ucciso il 18 dicembre in via Bronzetti da tre gappisti, riusciti poi a far perdere ogni traccia. La rabbia montava. L'ordine delle autorità fasciste era immediato e categorico: Rappresaglia! Prelevati cinque detenuti politici, tra cui appunto il Puecher, si organizzava su due piedi un processo con la finalità di dare una punizione "esemplare". Fucilazione per tutti. In sostanza era una messinscena giudiziaria nella quale si miscelavano accuse false, clamorose irregolarità procedurali, contraddizioni lampanti. I difensori di ufficio tentavano l'impossibile per ammorbidire i preconcetti della corte militare riuscendo a ridurre il numero delle esecuzioni, da cinque a quattro, poi a tre, due, e infine una. Un capro espiatorio doveva pure esserci, e veniva scelto proprio il più giovane: Giancarlo Puecher. Gli accordavano appena il tempo di stendere sulla carta qualche riflessione, ottenere l'assistenza spirituale di un cappellano e di comunicarsi. Nella celeberrima lettera-testamento scritta frettolosamente a sentenza deliberata, Giancarlo mostrava una eccezionale forza d'animo. Perdonava tutti dichiarandosi innocente per le accuse subite e colpevole soltanto di aver "amato intensamente la patria e la libertà". Non dava segni di panico e affrontava con estrema dignità gli ultimi momenti. Prima di lasciarsi condurre davanti al muro di cinta del nuovo cimitero di Erba per la fucilazione, egli chiedeva di stringere la mano ai soldati del plotone assicurando che avrebbe pregato anche per loro che si facevano strumento di morte. In quella gelida notte dicembrina riusciva a gridare il suo "viva l'Italia" prima di cadere travolto dalla raffica. Resta perenne il ricordo di questo giovanissimo martire. "Ma è davvero servito a qualcosa il suo sacrificio?", si chiedeva una stretta parente di Giancarlo. No, il suo sacrificio non è stato inutile. Anzitutto un'intera generazione di patrioti si è legata al suo nome traendone ispirazione per molti gruppi combattenti di diversa e a volte opposta ispirazione politica. E va segnalato che, apprendendo le circostanze della dolorosa morte di Giancarlo, un'altra grande figura della Resistenza - Teresio Olivelli, mitico comandante partigiano candidato alla beatificazione - ne traeva spunto per comporre quella magnifica testimonianza di non violenza che è costituita dalla preghiera dei "ribelli per amore". In seguito, per onorarne la memoria, si sono sviluppate tante altre iniziative sociali e culturali. A sua volta, scrivendo di Giancarlo, Davide Maria Turoldo ne valorizzava la condizione da uomo di fede: "C'è sempre qualcuno da liberare, c'è sempre da donare, c'è sempre la vita che va giocata per l'umanità e per la venuta del Regno". Il sacrificio di Puecher costituisce davvero qualcosa di sublime. La storica fondatrice dell'istituto nazionale del movimento di liberazione "Bianca Ceva" laica convinta lo definiva con appassionata ammirazione e con efficace sintesi: uomo di raffinata civiltà. Non a caso persino il capo storico dell'antifascismo e primo presidente dell'Italia liberata, l'azionista Ferruccio Parri, annotava che la scomparsa di giovani forti e capaci della sua tempra avevano privato l'Italia del dopoguerra di una potenziale classe dirigente di altissimo livello. Ecco l'intimo valore della Resistenza vissuta con il supporto dello spirito. Sotto il profilo prettamente umano, poi, questo giovane eroe ci ha offerto un insegnamento preciso, spiegandoci che la vita impone scelte che debbono superare le preoccupazioni contingenti e personali, e nello stesso tempo dimostrandoci come sia importante saper bene morire. A prima vista sembrerebbe un paradosso, ma non lo è per gente di fede che sa assumersi le proprie responsabilità di fronte al mondo. Per tutti questi motivi, in definitiva, ancora oggi il ricordo di Giancarlo Puecher resta chiaro ed esaltante, consegnato alla Storia. Spettacolo teatrale Solstizio d'inverno di e con il Laboratorio teatrale dell'Istituto Allende di Milano. Messa in scena di Marco M. Pernich, con la collaborazione di Chiara Trifiletti e con il sostegno organizzativo di Giuseppe Deiana Nell'ambito delle iniziative legate al convegno sul sessantesimo Anniversario della Liberazione un gruppo di studenti, sotto la guida del regista Marco Pernich, ha realizzato uno spettacolo teatrale. La rappresentazione è stata costruita sulla figura di Giancarlo Puecher, ambientando la storia ai giorni nostri, sotto forma di intervista da parte di una voce narrante. La realizzazione dello spettacolo è partita dall'esame della biografia di Puecher, per analizzare sia la storia d'Italia negli anni della seconda guerra mondiale, sia la Resistenza europea, quale fondamento dell'attuale Europa libera e unita. Il tutto è volto a rievocare quei terribili eventi, per non dimenticare la nostra storia ed evitare il ripetersi di tragedie analoghe. I ragazzi rivivono sul palco questi momenti e, rapportando i sentimenti personali a una situazione passata, riescono ad attualizzare i temi trattati. L'intento del gruppo non è quello di schierarsi da una certa parte politica, ma piuttosto quello di raccontare i fatti, che parlano da soli ed evidenziano chiaramente gli errori commessi dagli uomini. Si è cercato di dare risalto alla figura positiva di Puecher, ragazzo che amava la vita e credeva nei propri ideali, e di non raccontare solo la sua morte. Questo è un lavoro sulla concentrazione individuale, che serve a gestire le proprie sensazioni. In tutte le lingue, a esclusione dell'italiano, recitare si dice "giocare"; l'attività proposta è quindi "il gioco dei bambini" fatto con la consapevolezza che i bambini non hanno. Con il teatro gli studenti creano un altro mondo che suscita loro emozioni impossibili da provare nella vita quotidiana. Non è un modo per sfuggire dalla realtà, ma per imparare ad affrontarla sviluppando la propria personalità. Questo lavoro spinge a trovare la forza per raccontare a qualcuno una storia, e per trasmettere agli spettatori le sensazioni e le emozioni degli attori. Ai ragazzi non viene dato un copione fisso da imparare a memoria, ma le scene nascono all'interno del gruppo attraverso il confronto tra i partecipanti. Questo aspetto è molto utile per la loro crescita personale, poiché essi imparano a comunicare con gli altri migliorando i rapporti all'interno della società. Lo spettacolo sensibilizza sulla storia e crea nei ragazzi una sorta di desiderio di "missione", per informare chi non sa e non ha provato le esperienze descritte. Anche per il regista lo spettacolo è un percorso formativo poiché in ogni gruppo cambiano i discorsi e le persone con cui si rapporta, e quindi anche le vie per raggiungere gli obiettivi. Questo lo spinge a ricercare nuovi metodi lavorando su tutto ciò che il gruppo crea. In questo caso nella scena del bombardamento del quartiere San Lorenzo di Roma, già portato in scena più volte da Pernich, il regista ha creato una modalità teatrale nuova rispetto ad altri spettacoli, che tenesse conto delle esigenze di questo gruppo. Lo spettacolo vuole far riflettere anche sulla guerra ai nostri giorni, che è una realtà quotidiana in molti paesi del mondo ma viene troppo spesso ignorata. Questa rappresentazione è utile perché è un teatro "di giovani per i giovani" e quindi il messaggio colpiscé più direttamente i ragazzi, che vedono sul palco alcuni coetanei raccontare una storia vista con occhi che potrebbero essere i loro. (Martina Landi) In un tempo come il nostro e in una società come la nostra, immersi in una eterna ubriacatura di consumismo materialista che risponde a tutte le domande degli esseri umani ai disagi, ai bisogni interiori, o forse "spirituali" con una sfrontata proposta di sempre nuove "cose" e che alla fine deifica persino i sentimenti e le emozioni, ridotti a nient'altro che "beni di consumo" essi stessi, dare "una memoria al futuro e un futuro alla memoria" - come è stato detto - al di fuori della polemica spicciola dell'interpretazione ideologica o della manipolazione del passato per ottenere dei vantaggi - in termini politici, o di visibilità accademica o mediatica - oggi sembra essere uno dei compiti di tutti coloro che intendono essere intellettualmente onesti e comprendere davvero le nostre radici e la direzione che stiamo prendendo. Così che un gruppo di giovani oggi voglia raccontare la figura di Giancarlo Puecher, un giovane come loro, capace però di una passione per la giustizia e la libertà che va al di là della vita stessa, è motivo di speranza per il nostro mondo dove troppo spesso ci arrendiamo alla mancanza di ideali e di speranza e dove troppo spesso pensiamo i giovani prigionieri di un gorgo di vuoto e attenti solo al loro egoismo personale. Il racconto della vicenda umana e poi resistenziale di Puecher s'allarga al racconto della Resistenza europea - in Francia, in Albania, in Italia - andando così a costruire nella lotta contro la barbarie e la sopraffazione dell'uomo sull'uomo una possibile base comune per quell'Unione europea che pur così faticosamente va nascendo. E così il passato comune e la comune rievocazione dei fondamenti stessi della civiltà occidentale - libertà, giustizia e democrazia - diventano un modo per guardare al futuro con gli occhi aperti e per lottare per un futuro che non sia solo fatalisticamente destinato dai grandi poteri economici - dalla Banca centrale o dalla Commissione di Bruxelles - ma che sia il futuro della gente e delle genti che in quei valori fondanti si riconoscono. Ecco quindi cos'ha significato per noi raccontare la vicenda umana di Puecher e perché Puecher ci è sembrato - anche nella sua idealistica non-violenza per cui per quanto fosse partigiano non ha sparato nemmeno un colpo - simbolo del passato e di tutti coloro che nel passato hanno lottato per il futuro - anche per il nostro futuro - e di un futuro di un'Europa come spazio pacificato tollerante e solidale. E perché oggi alla fine del nostro percorso di lavoro sentiamo che l'eredità di Puecher è diventata per noi un compito morale: un'eredità da raccontare e sviluppare per costruire il futuro che è ancora tutto lì da fare - con buona pace di quanti andavano sdottrinando sulla "fine della storia". (Marco Pernich)